Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34092 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/12/2019, (ud. 22/10/2019, dep. 19/12/2019), n.34092

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 43/15 R.G. proposto da:

2i RETE GAS S.P.A., in persona del legale rappresentante,

rappresentata e difesa, giusta mandato a margine del ricorso, dagli

avv.ti Victor Uckmar, Giuseppe Corasaniti e Guglielmo Fransoni, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, in Roma alla via

Crescenzio, n. 2;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, alla via dei Portoghesi, 12 è elettivamente

domiciliata;

– contro ricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria della Lombardia n.

2365/64/14 depositata in data 6 maggio 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 ottobre

2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

Fatto

RILEVATO

che:

Con avviso di accertamento l’Agenzia delle Entrate recuperava a tassazione, ai fini IRPEG, in relazione all’anno d’imposta 1998 un imponibile di Euro 4.070.455,00, ritenendo indeducibile, per insussistenza dei requisiti di cui al t.u.i.r., art. 66, comma 3, una minusvalenza realizzata dall’allora società Delta Gas s.p.a.

La contribuente proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Cremona deducendo che, derivando la minusvalenza da una cessione pro soluto ed essendo relativa ad un credito iscritto tra le immobilizzazioni finanziarie, la stessa dovesse ritenersi deducibile perchè ricompresa nella diversa disciplina del citato t.u.i.r., art. 66, comma 1.

I giudici di primo grado respingevano il ricorso con sentenza che veniva appellata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale, la quale accoglieva il gravame; a seguito di ricorso per cassazione proposto dall’Amministrazione, questa Corte, con sentenza n. 20450 del 6 ottobre 2011, annullava la sentenza impugnata, enunciando il principio di diritto secondo cui “ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 66, nel testo applicabile ratione temporis, la cessione di un credito di qualsiasi natura nei confronti di un soggetto non sottoposto a procedura concorsuale, per un corrispettivo inferiore al suo valore nominale, può configurare una perdita deducibile soltanto se il contribuente dimostra, sulla base di elementi certi e precisi, una riduzione della garanzia patrimoniale idonea ad impedire, ridurre o ostacolare la (integrale) recuperabilità coattiva del credito”.

Riassunto il giudizio, la Commissione regionale della Lombardia confermava la sentenza di primo grado, ritenendo che la contribuente non avesse dimostrato gli elementi certi e precisi che avevano dato luogo alla perdita, nè che al momento della cessione il debitore fosse assoggettato a procedure concorsuali.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione la 2i Rete Gas s.p.a., affidandosi a due motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui la Commissione regionale ha del tutto omesso di pronunciarsi sulla domanda subordinata con la quale si chiedeva la disapplicazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata con l’avviso di accertamento impugnato.

Precisa che in sede d’appello aveva specificamente censurato la sentenza di primo grado per omessa pronuncia sulla domanda subordinata avanzata, allegando elementi in grado di dimostrare la sussistenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione del t.u.i.r., art. 66, commi 1 e 3; la stessa Corte di Cassazione, solo a partire dagli anni 2000 e 2001, aveva iniziato a manifestare un primo orientamento interpretativo sul regime di deducibilità dal reddito imponibile delle perdite su crediti e le fattispecie esaminate riguardavano perdite derivanti dalla cessione pro soluto di crediti commerciali, mentre nel caso di specie si discuteva di cessione pro soluto avente ad oggetto un credito da finanziamento iscritto tra le immobilizzazioni finanziarie.

Ad avviso della ricorrente la situazione di “oggettiva incertezza normativa” era stata causata dalla scarsa chiarezza del testo normativo, che non consentiva di individuare facilmente la disposizione normativa sotto cui andava sussunta la fattispecie in esame, ma anche dalle indicazioni fornite dalla dottrina che aveva sostenuto la correttezza giuridica della soluzione interpretativa seguita dalla contribuente; anche la prassi ministeriale dell’epoca (nota ministeriale 13 marzo 1982, n. 9/634) distingueva le operazioni pro soluto, di cui era ammessa la deducibilità, da quelle pro solvendo, per le quali la deducibilità era subordinata alla prova dell’esistenza di elementi certi e precisi della perdita.

La omessa pronuncia sulla domanda subordinata integrava un error in procedendo, che era causa di nullità della sentenza.

2. Con il secondo motivo la contribuente, in via subordinata, deduce nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione ovvero per totale contraddittorietà della stessa, tanto da impedire l’individuazione della relativa ratio decidendi, con conseguente violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 e dell’art. 156c.p.c., comma 3, dell’art. 118 disp. att. c.p.c., ai quali rinvia il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Sostiene che, laddove si voglia ritenere che il giudice di secondo grado si sia implicitamente pronunciato sulla specifica domanda subordinata rigettandola, lo stesso è comunque incorso in altro error in procedendo, per avere omesso di indicare le ragioni per le quali avrebbe ritenuto di rigettare tale specifica domanda subordinata; l’implicito rigetto, peraltro, sarebbe contraddetto dall’argomentazione utilizzata dal giudice di merito per giustificare la sua decisione di compensazione delle spese processuali.

3. Il primo motivo è infondato.

3.1. Secondo il costante indirizzo di questa Corte, “ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia” (Cass. 4 ottobre 2011, n. 20311; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29191; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 4 giugno 2019, n. 15255).

3.2. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado, nel rigettare l’appello della contribuente, hanno confermato l’atto impositivo sul presupposto della mancanza di prova circa la sussistenza di elementi certi e precisi richiesti dal t.u.i.r., art. 66, comma 3, e, sebbene la sentenza non contenga una espressa statuizione sul motivo di appello contenente la riproposizione della domanda subordinata concernente la richiesta di non applicazione della sanzione amministrativa, risulta evidente che i giudici di merito hanno implicitamente rigettato anche tale domanda, avendo reso una motivazione incompatibile con il suo accoglimento.

4. La seconda censura, in tesi fondata, non può determinare l’accoglimento del ricorso.

4.1. Con riguardo alla motivazione della sentenza, occorre rammentare, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, che la carenza nell’impianto motivazionale dei passaggi logici necessari che hanno condotto il giudice ad una determinata decisione configura un vulnus al principio generale secondo cui tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 6, per cui una motivazione inesistente o radicalmente inidonea a far comprendere il procedimento logico-giuridico della decisione integra la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e la sentenza è nulla qualora la motivazione sia solo apparente perchè non idonea a rivelare la ratio decidendi e sia impedito di esercitare ogni controllo sul percorso argomentativo seguito per la formazione del convincimento del giudice (Cass. Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232).

4.2. Nella specie, come già evidenziato, la Commissione regionale ha respinto tutte le domande avanzate dalla ricorrente, ma ha motivato espressamente solo con riguardo alla domanda principale (concernente la deducibilità della minusvalenza), pronunciandosi solo implicitamente sulla domanda subordinata (concernente la richiesta di non applicazione della sanzione amministrativa), sicchè, con riferimento a tale ultima domanda, la motivazione risulta del tutto omessa poichè la sentenza perviene ad una pronuncia di rigetto priva di qualsiasi motivazione.

4.3. Nonostante ciò, non si deve provvedere alla cassazione della sentenza con rinvio della pronuncia impugnata.

Secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. U, n. 2731 del 2/2/2017), “la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto” (Cass. n. 28663 del 27/12/2013; Cass. n. 23989 del 11/11/2014, che afferma il medesimo principio con riferimento al caso di motivazione solo apparente).

4.4. La carenza di motivazione deve quindi essere colmata da questa Corte, attraverso l’impiego del potere di correzione della motivazione, integrando la decisione di rigetto pronunciata dal giudice di merito mediante l’enunciazione delle ragioni che la giustificano in diritto, senza necessità di rimettere al giudice di rinvio il compito di dichiarare infondato in diritto il motivo non espressamente esaminato.

4.5. Ebbene, facendo applicazione dei principi richiamati enunciati dalle Sezioni Unite, la motivazione della sentenza impugnata, che è stata del tutto omessa con riguardo alla questione dell’inapplicabilità della sanzione irrogata, a fronte delle dedotte obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione del t.u.i.r., art. 66, commi 1 e 3, (nella formulazione ratione temporis vigente) – opposta dalla ricorrente in primo grado, puntualmente riproposta in appello e implicitamente rigettata nel giudizio di merito – ben può essere integrata in questa sede, trattandosi di questione di mero diritto che non richiede nuovi accertamenti in fatto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2.

5. Occorre premettere, al riguardo, che in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva che, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 8, costituisce causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, richiede una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, sull’oggetto e sui destinatari della norma tributaria, ossia la equivocità del risultato conseguito attraverso il procedimento d’interpretazione normativa, riferibile non già ad un generico contribuente, o a quei contribuenti che per la loro perizia professionale siano capaci di interpretazione normativa qualificata (studiosi, professionisti, operatori giuridici di elevato livello professionale), e tanto meno all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass. ord. n. 3245 del 11/2/2013; Cass. n. 4522 del 22/2/2013).

Si è precisato, quindi, che “l’incertezza normativa oggettiva tributaria”, che consente di non applicare le sanzioni, “è la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell’azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall’impossibilità, esistente in sè ed accertata dal giudice, d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie ultima o, se si tratta del giudice di legittimità, del fatto di genere già categorizzato dal giudice di merito”, quindi in “senso oggettivo”, con conseguente esclusione di “qualsiasi rilevanza sia delle condizioni soggettive individuali sia delle condizioni soggettive categoriali”; “l’incertezza normativa oggettiva non ha il suo fondameno nell’ignoranza giustificata, ma nell’impossibilità, abbandonato lo stato di ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria” (Cass. n. 19638 del 11/9/2009).

Ovviamente, trattandosi di una esimente prevista dalla legge a favore del contribuente, l’onere di allegare la ricorrenza di elementi di confusione grava sul contribuente secondo le regole generali in materia di onere della prova (Cass. n. 17195 del 26/6/2019; Cass. n. 19718 del 13/7/2018).

6. Reputa il Collegio che nessuna obiettiva incertezza normativa sussisteva in materia.

La ricostruzione dei fatti da cui è scaturito l’accertamento è pacifica tra le parti.

La Delta Gas s.p.a., detenendo una partecipazione di controllo nella società Palazzo Trecchi s.r.l., il cui patrimonio era costituito da un immobile vincolato (denominato (OMISSIS)), aveva concesso un finanziamento alla controllata affinchè quest’ultima potesse effettuare lavori di ristrutturazione dell’immobile ed aveva iscritto in bilancio il corrispondente credito nella voce dello stato patrimoniale relativa alle immobilizzazioni finanziarie per un importo di Euro 7.044.728,00, poi ridotto ad Euro 6.750.326,66, quando la società finanziata aveva evidenziato nel proprio bilancio una perdita di Euro 291.433,00; in data 29 aprile 1999 la Delta Gas s.p.a. aveva ceduto il credito pro soluto alla Fingas s.p.a., controllante di Delta Gas s.p.a., a fronte di un corrispettivo convenuto di Euro 4.648.112,09. La differenza tra il valore nominale di iscrizione del credito nel bilancio della cedente al momento della cessione ed il corrispettivo pattuito era stata contabilizzata nell’esercizio 1/7/1998 – 30/6/1999 e, poi, dedotta dal reddito d’impresa ai sensi del t.u.i.r., art. 66, comma 1 (nella versione vigente ratione temporis).

L’Amministrazione, ritenendo che si trattasse di perdita su crediti, indeducibile ai sensi del t.u.i.r., art. 66, comma 3, in assenza di prova di elementi certi e precisi in grado di dimostrare la parziale inesigibilità del credito in ragione dello stato di insolvenza della società debitrice, ha emesso avviso di accertamento ai fini del recupero a tassazione di maggiore Irpeg.

6.1. Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la differenza tra l’importo fiscalmente riconosciuto del credito, iscritto in bilancio tra le immobilizzazioni finanziarie, e il minor corrispettivo conseguito per effetto della cessione pro soluto, costituisce una perdita, e non una minusvalenza, considerato che la minusvalenza, richiamata dal t.u.i.r., art. 66, comma 3, costituisce componente negativo di reddito che si realizza in conseguenza della perdita o del danneggiamento di beni strumentali utilizzati dall’impresa nell’attività produttiva.

La minusvalenza costituisce, infatti, il minor valore attribuito al bene rispetto al suo costo fiscale ed ai fini della sua deducibilità richiede: a) la cessione del bene a titolo oneroso, ad un valore inferiore al suo costo fiscale non ancora ammortizzato; b) il risarcimento conseguente alla perdita o al danneggiamento del bene, quando il costo non ammortizzato supera l’indennizzo non percepito; oppure c) la cessione di azienda a titolo oneroso.

6.2. Dal tenore letterale del t.u.i.r., art. 66, si evince che il comma 1 disciplina le minusvalenze da perdite di beni strumentali relativi all’impresa, mentre il comma 3 menziona distintamente le perdite di beni di cui al comma 1, commisurate al costo non ammortizzato di essi, e le perdite su crediti, le quali sono deducibili solo se risultino da elementi certi e precisi, ovvero in ogni caso quando il debitore risulti assoggettato a procedure concorsuali.

La norma distingue in modo chiaro ed inequivoco le perdite di beni dalle perdite su crediti, ponendo in rilievo che i crediti non possono essere qualificati come beni agli effetti della disposizione normativa in esame.

6.3. Nella fattispecie in esame si discute della cessione pro soluto di un credito e non della cessione di un bene strumentale relativo all’impresa e pertanto, a prescindere dalla natura del credito (credito commerciale o credito da finanziamento) – che non spiega alcuna rilevanza in questa sede – risulta evidente che il dato testuale permette di individuare facilmente e senza incertezze interpretative che il componente negativo realizzatosi a seguito della cessione pro soluto in esame ricade nella previsione del comma 3 e non in quella del t.u.i.r., art. 66, comma 1.

Ne consegue che l’assenza di oggettiva incertezza normativa impone di ritenere correttamente applicata la sanzione amministrativa irrogata con l’atto impositivo e, quindi, di disattendere la domanda di disapplicazione della medesima sanzione avanzata dalla società contribuente.

7. In conclusione, il rigetto va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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