Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3408 del 13/02/2018


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Cassazione civile, sez. III, 13/02/2018, (ud. 19/10/2017, dep.13/02/2018),  n. 3408

Fatto

I FATTI DI CAUSA

1. B.F. e A., in proprio e quali soci e legali rappresentanti della società semplice Azienda Agricola B.F. e A., propongono ricorso per cassazione, articolato in cinque motivi, nei confronti della Fondazione Casa di Riposo Ospedale dei Poveri di Pandino – onlus per la cassazione della sentenza n. 1188/2015, depositata dalla Corte d’Appello di Brescia il 24 novembre 2015, notificata il 3 febbraio 2016, regolarmente depositata in copia notificata.

Resiste la Fondazione con controricorso contenente anche un motivo di ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ed il procuratore generale ha depositato conclusioni scritte.

2.Nel 2013 l’Azienda agricola e i soci B.F. e A. di persona, nella qualità di precedenti affittuari del fondo, convenivano in giudizio la Fondazione controricorrente per sentir accertare che il rapporto di affitto agrario iniziato tra le parti l’11 novembre 1998 si era concluso il 10 novembre 2012 per scadenza del contratto, che il rapporto in realtà si era instaurato fin dall’anno 1965 dapprima con il conducente B.M., padre di B.F. e A., e che nel corso del rapporto di affitto erano state realizzate alcune consistenti opere di miglioramento, in relazione alle quali chiedevano la corresponsione dell’indennizzo, con diritto di ritenzione fino al pagamento.

La Fondazione nel costituirsi concordava sulla scadenza contrattuale indicata al 10 novembre 2012, negando però che fossero stati realizzati miglioramenti e di dovere alcunchè a titolo di indennizzo e chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna dei conduttori al rilascio del compendio immobiliare.

3. Il tribunale accertava che il rapporto di affitto agrario si era sciolto alla scadenza indicata del 10 novembre 2012, ed accoglieva solo in parte, per l’importo di Euro 58.000,00 circa, la domanda degli affittuari volta al riconoscimento dell’indennità per i miglioramenti. Rigettava invece la domanda di ritenzione, dichiarava la carenza di interesse dei ricorrenti all’accertamento che il rapporto fosse iniziato in un momento precedente e dichiarava inammissibile la riconvenzionale della resistente, volta ad ottenere il rilascio degli immobili, con compensazione parziale delle spese di lite.

4. La sentenza di appello rigettava sia l’appello principale dei B., sia l’appello incidentale della Fondazione.

Con l’appello principale, i B. chiedevano il riconoscimento del diritto all’indennizzo per i miglioramenti apportati anche in relazione a quelle opere, relative alla stalla per la rimonta e alla casa agricola, per le quali esso era stato negato in primo grado, con conseguente aumento dell’importo riconosciuto a titolo di migliorie; chiedevano fosse riconosciuto loro il diritto di ritenzione e lamentavano l’esattezza del conteggio eseguito dalla corte d’appello, e in particolare che dell’onere patrimoniale da sostenere per la rimozione delle coperture in eternit che gravavano sui predetti manufatti si fosse tenuto conto per due volte in loro danno: una prima volta per determinare il valore dell’immobile dopo le migliorie (riducendolo in considerazione dell’esistenza delle coperture in eternit), e una seconda volta per decurtare dell’importo corrispondente la somma da riconoscere a titolo di indennizzo.

La sentenza di appello, confermando la valutazione del primo giudice, escludeva che dalla clausola n. 12 del contratto di affitto potesse ricavarsi che tutte le migliorie apportate dai ricorrenti già prima della conclusione del rapporto iniziato nel 1998 potessero ritenersi approvate dalla proprietà e confermava l’esclusione che fosse stata fornita la prova di un consenso preventivo alla realizzazione della stalla da rimonta e della casa di abitazione. Confermava anche il criterio di calcolo seguito in primo grado, in base al quale si teneva in conto dell’esistenza di eternit dapprima per quantificare in misura ridotta il valore degli incrementi, e quindi si sottraeva da tale importo il costo per la rimozione dell’eternit. Confermava infine la validità della rinuncia al diritto di ritenzione, trattandosi di diritto disponibile.

Diritto

LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1364,13661367 e 1371 c.c. e in genere delle norme in tema di buona fede contrattuale. Richiamano alcuni passi della convenzione di affitto di fondo rustico sottoscritta nel novembre 1998, nella quale si dà atto della esistenza di un rapporto pregresso e si dice, tra l’altro: “Avendo i signori B.F. e A. apportato al fondo opere di miglioramento fondiario, l’indennizzo per tali opere verrà valutato dagli organi competenti al termine della locazione”.

Affermano che il tribunale, in primo grado, aveva interpretato questo passo deducendone che anche l’an, oltre al quantum, del diritto all’indennizzo per i miglioramenti apportati sarebbe stato rimesso alla valutazione degli organi competenti al termine del rapporto di locazione, e all’esito di tale valutazione escludeva l’indennizzabilità degli interventi eseguiti nella stalla per la rimonta e nella casa agricola, non risultando atti di assenso della proprietà precedenti all’inizio delle opere nè l’autorizzazione dell’ispettorato provinciale.

Evidenziano di aver specificamente impugnato in appello questo punto della decisione, in quanto lo scritto sopra in parte riportato, collocato all’interno dell’art. 12 del contratto di affitto, denominato “conciliazione”, a loro avviso non poteva avere altro significato che di riconoscimento della esistenza e della indennizzabilità delle migliorie, per poi demandarne agli organi competenti, al termine del rapporto di affitto, soltanto la quantificazione.

Contestano la valutazione e l’interpretazione che della clausola ha dato la corte d’appello che, concordando con il tribunale, ha affermato che essa va intesa nel senso che le parti abbiano voluto rimandare al successivo giudizio la valutazione della sussistenza di tutti i presupposti, normativi e di fatto, per l’attribuzione del diritto all’indennizzo per gli interventi eseguiti.

Sostengono che l’interpretazione data dal giudice di appello non abbia tenuto conto nè del senso letterale delle espressioni utilizzate nè della comune intenzione delle parti, che era quella di eliminare un possibile oggetto di controversia, rimandando solo la quantificazione dell’indennizzo al momento del rilascio dei beni. Diversamente opinando, l’interpretazione della corte d’appello si porrebbe in contrasto, nella ricostruzione dei ricorrenti, anche col canone interpretativo contenuto nell’art. 1367 c.c., che impone di privilegiare una interpretazione in base alla quale le clausole contrattuali possano spiegare un effetto, rispetto a quella in base alla quale esse non ne avrebbero alcuno, e con l’art. 1371 c.c., che impone di tener conto, nella interpretazione dei contratti, della soluzione interpretativa che meglio realizzi un equo contemperamento degli interessi delle parti. Aggiungono che l’interpretazione della corte d’appello sarebbe contraria alla buona fede, in quanto avallante il comportamento di una delle parti che solo apparentemente risolve uno snodo problematico per lasciarne invece lo scioglimento al termine del rapporto, cogliendo anche la controparte di sorpresa.

Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono la violazione a falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 11 del 1971, artt. 11 e 14 e della L. n. 51 del 1976, nonchè di ogni altra norma in materia di prova, in relazione all’intervenuta autorizzazione preventiva dell’opera di miglioramento fondiario. Attaccano il punto della decisione in cui la corte d’appello, dopo aver affermato che dovesse essere data, in questo giudizio, la prova del diritto all’indennizzo per le migliorie, ha escluso tale diritto in relazione a due consistenti interventi migliorativi, relativi l’uno alla costruzione della stalla da rimonta e l’altro alla realizzazione di un fabbricato abitativo, escludendo che esistesse la prova di una preventiva autorizzazione dell’Ispettorato Provinciale dell’Agricoltura ed anche che esistesse la prova della preventiva autorizzazione della proprietà (e a questo fine la corte interpretava due documenti, n. 45 e 46 del giudizio di primo grado, come contenenti in effetti una autorizzazione proveniente dalla proprietaria, ma non con certezza rilasciata prima dell’inizio dei lavori).

I primi due motivi sono inammissibili, per lo stesso ordine di ragioni.

Le considerazioni svolte si fondano su una diversa, diretta interpretazione del passo contrattuale richiamato, a proposito del primo motivo, dei documenti indicati, a proposito del secondo motivo, e si scontrano con i limiti di sindacabilità della interpretazione contrattuale e della valutazione delle prove nell’ambito del giudizio di legittimità: v. tra le tante Cass. n. 2465 del 2015:” In tema di interpretazione del contratto, il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati”.

Con il terzo motivo, i ricorrenti si dolgono dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

Il “fatto” è in effetti un documento, ritenuto decisivo dai ricorrenti, che la corte non avrebbe esaminato, ovvero il doc. n. 38, prodotto già in primo grado e poi nuovamente in appello, contenente il provvedimento del 17 marzo 1980 con il quale la Regione Lombardia rilasciava il “nulla osta all’esecuzione con inizio entro l’anno 1980 delle opere sopra indicate previste nel piano di sviluppo suddetto”: sostengono i ricorrenti che questo documento, se letto in correlazione con i doc. 45 e 46, sottoscritti dalla proprietaria, avrebbe consentito di ritenere inequivocamente provato che la proprietaria dava il suo consenso alla realizzazione di alcune opere, per la cui esecuzione nell’immediato futuro veniva rilasciato il nulla osta regionale, e che al momento del rilascio dell’autorizzazione stessa non erano state ancora iniziate.

Anche questo motivo deve essere dichiarato inammissibile.

Secondo l’interpretazione consolidatasi nella giurisprudenza di legittimità, il difetto di motivazione nei suoi confini attuali di rilevabilità, se da un lato ha circoscritto il sindacato del giudice di legittimità ai soli casi d’inesistenza della motivazione in sè (ossia alla mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, alla motivazione apparente, al contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili o alla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile), dall’altro chiama la corte di cassazione a verificare l’eventuale omesso esame, da parte del giudice a quo, di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (cioè che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), rimanendo escluso che l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, integri la fattispecie prevista dalla norma, là dove il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (cfr. Cass. Sez. Un., 22/9/2014, n. n. 19881; Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830).

I ricorrenti, nel ricorso in esame, non indicano in realtà un fatto obiettivo, non preso in considerazione nel giudizio e che, ove esaminato, avrebbe portato a diverse conclusioni. Il “fatto” del quale lamentano l’omesso esame è un documento prodotto in causa, da interpretarsi nel giudizio ai fini dell’attribuzione ad esso di una valenza probatoria piuttosto che di un’altra. La mancata menzione di esso nella motivazione non è la prova che non sia stato esaminato, ma piuttosto è indice del fatto che non sia stato ritenuto decisivo e che pertanto, nella ricostruzione interpretativa della corte d’appello, ne sia stato omesso il riferimento perchè non ritenuto determinante della linea interpretativa prescelta. Con il quarto motivo, i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione della L. n. 11 del 1971, art. 15 e di ogni altra norma e principio in materia di quantificazione del diritto all’indennizzo conseguente all’aumento di valore del fondo. A norma dell’art. 15, “l’affittuario che ha eseguito i miglioramenti ha diritto ad una indennità corrispondente all’aumento di valore conseguito dal fondo e sussistente alla fine dell’affitto. La predetta indennità spetta anche in caso di anticipata risoluzione del rapporto”.

Peraltro, atteso che il rapporto in esame è stato individuato dalla corte d’appello come sorto nel 1998, la norma di riferimento non è l’art. 15, ma la successiva disciplina dettata dalla L. n. 203 del 1992. Cass. n. 13534 del 2009 indica che l’art. 15 è stato abrogato in quanto tutta la materia è stata ridisciplinata dalla legge del 1982: “In tema di contratti agrari, sebbene della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 58, comma 2, si limiti a stabilire l’abrogazione delle precedenti disposizioni incompatibili con quelle della stessa legge, e nonostante difetti in questa l’abrogazione espressa della L. 11 febbraio 1971, n. 11, art. 15 (in sè non incompatibile con la nuova legge), si deve ritenere che sia ugualmente venuto a verificarsi l’effetto abrogativo di questa norma, in applicazione dell’ulteriore criterio generale di sopravvenuta abrogazione tacita previsto dall’art. 15 preleggi e, cioè, quello della nuova regolamentazione dell’intera materia, da individuarsi nelle conseguenze dell’aumento del canone spettante al locatore o dell’indennità per l’incremento di valore del fondo da attribuirsi al conduttore, unitamente alla nuova regolamentazione del pagamento rateale dell’indennità per miglioramenti e del diritto di ritenzione del conduttore, come ora contenuta nella medesima L. n. 203 del 1982, art. 20”.

Attualmente, la disciplina dell’indennizzo per i miglioramenti è dettata dalla L. n. 203 del 1982, art. 17, commi 2, 3 e 4:

– L’affittuario che ha eseguito le opere di cui dell’art. 16, comma 1, ha diritto ad una indennità corrispondente all’aumento del valore di mercato conseguito dal fondo a seguito dei miglioramenti da lui effettuati e quale risultante al momento della cessazione del rapporto, con riferimento al valore attuale di mercato del fondo non trasformato.

– Le parti possono convenire la corresponsione di tale indennità anche prima della cessazione del rapporto. Se non interviene accordo in ordine alla misura dell’indennità prevista dal comma precedente, essa è determinata, a richiesta di una delle parti, dall’ispettorato provinciale dell’agricoltura, la cui deliberazione, agli effetti dell’art. 634 c.p.c., costituisce prova scritta del credito per l’indennità stessa.

– All’affittuario compete la ritenzione del fondo fino a quando non gli sia stata versata dal locatore l’indennità fissata dall’ispettorato oppure determinata con sentenza definitiva dall’autorità giudiziaria.

Ciò detto, il motivo deve essere accolto, perchè la sentenza contiene un errore di metodo nella redazione del calcolo, che la fa deviare dal criterio indennitario legale sopra indicato. L’indennizzo previsto dalla L. n. 203 del 1982, art. 17 (come del resto già quello regolato dall’art. 15 della Legge del 1971), deve essere commisurato infatti all’incremento di valore del fondo, da calcolarsi al momento della cessazione del rapporto, dovuto alla esecuzione delle opere autorizzate.

Nel determinare l’ammontare dell’indennizzo dovuto all’affittuario per le migliorie preventivamente autorizzate realizzate sul fondo, il giudice deve determinare pertanto l’incremento di valore del fondo al momento del rilascio, quantificando il valore delle opere realizzate, tenendo conto dei diversi indici per l’individuazione del valore degli immobili, tra i quali gli eventuali costi di ristrutturazione e di rimozione di materiali da costruzione insalubri o vietati.

Qualora detti costi siano stati tenuti in considerazione per l’effettiva determinazione dell’indennizzo dovuto, abbattendone in proporzione l’importo, essi non potranno essere nuovamente addebitati all’affittuario decurtando l’importo dell’indennizzo liquidato, realizzandosi altrimenti un doppio abbattimento e di conseguenza un calcolo dell’indennizzo non più proporzionale all’effettivo incremento di valore del fondo.

Essendo stata costruite nel caso di specie ex novo una casa e una stalla, l’indennizzo è pari al valore di queste costruzioni, che si somma col valore preesistente del terreno. Correttamente, prima il consulente tecnico e poi la sentenza, nel recepire la valutazioni tecniche dell’ausiliario, poichè le indicate costruzioni comprendevano delle parti di copertura in eternit, da eliminare e sostituire con nuove coperture a norma, hanno decurtato il valore dell’immobile del costo corrispondente alla asportazione e sostituzione delle coperture in eternit al fine di stimare l’incremento effettivo del valore di mercato dell’immobile. Poi però, al momento di condannare la proprietà alla corresponsione all’affittuario dell’indennizzo in misura pari all’incremento del valore dell’immobile, la corte d’appello lo ha ulteriormente decurtato, addossando all’affittuario il costo dello smaltimento del materiale in eternit. In tal modo ha computato due volte, in pregiudizio dell’affittuario, la stessa posta, che deve essere presa in considerazione una sola volta per determinare l’effettivo incremento di valore dell’immobile.

Va puntualizzato che non di un semplice errore di calcolo si tratta, che non sarebbe in questa sede sindacabile, ma di una violazione del criterio normativamente fissato per determinare integralmente l’ammontare dell’indennizzo dovuto.

Infine, con il quinto motivo i ricorrenti deducono nuovamente la violazione della L. n. 11 del 1971, art. 15, ed anche della L. n. 203 del 1982, artt. 20 e 58 e di ogni altra norma in materia di diritto di ritenzione dell’immobile nell’ipotesi di miglioramento fondiario e di inderogabilità delle disposizioni di legge, e criticano la decisione impugnata laddove ha ritenuto legittima la preventiva rinuncia, da parte loro, al diritto di ritenzione del fondo, inserita nell’art. 13 del contratto.

La corte d’appello afferma che tale rinuncia non sarebbe in contrasto con il generale principio che vieta la rinuncia preventiva a diritti non ancora sorti, e che si tratti di un diritto pienamente disponibile.

I ricorrenti evidenziano che il diritto alla ritenzione, già previsto dalla L. n. 11 del 1971, è adesso tutelato dalla L. n. 203 del 1982, art. 20 e che la successiva previsione contenuta nell’art. 58 della medesima legge sancisce tutte le previsioni in essa contenute come inderogabili.

Aggiungono che una eventuale rinunciabilità del diritto di ritenzione potrebbe al limite ammettersi se il contratto fosse stato stipulato con l’assistenza delle associazioni di categoria, o se quanto meno la previsione fosse chiaramente esplicitata, per rendere consapevole l’affittuario della portata della clausola che sottoscrive, mentre nel caso di specie l’effetto della rinuncia si produrrebbe a fronte di una clausola genericamente formulata che non richiamerebbe affatto l’attenzione dell’affittuario sui suoi possibili effetti.

Il motivo deve essere accolto: anche nella disciplina dei contratti agrari dettata dalla legge del 1982, la possibilità della parte più debole, l’affittuario, di rinunciare ad alcuni dei diritti e delle tutele previste dalla legge è consentita, ma circondata da determinate garanzie che nel caso di specie non sono soddisfatte, ed in particolare dalla partecipazione all’atto delle associazioni di categoria. Nel senso della rinunciabilità preventiva al diritto ai miglioramenti solo se il contratto viene redatto con l’assistenza delle associazioni di categoria v. Cass. n. 8729 del 2012: “E’ valida la clausola, inserita in un contratto di affitto di fondo rustico, di rinunzia preventiva all’indennità per i miglioramenti fondiari di cui alla L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 17, purchè essa sia stata stipulata con l’assistenza delle organizzazioni professionali, ai sensi dell’art. 45 della suddetta legge. In mancanza di tale presupposto, la rinunzia preventiva è nulla, poichè essa è diretta a regolamentare un diritto dell’affittuario in maniera diversa da quella stabilito della L. n. 203 del 1982, citato art. 17”.

La Fondazione Casa dei Poveri Ospedale di Pandino-onlus non si limita a resistere al ricorso avversario, ma propone a sua volta un motivo di ricorso incidentale, con il quale denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 11 del 1971, art. 15 e della L. n. 203 del 1982, art. 17, nonchè di ogni altra norma e principio in materia di indennizzo per miglioramenti.

Lamenta, come già lamentato con il secondo motivo di appello incidentale, che l’indennizzo sia stato riconosciuto anche in relazione ad alcune opere (in particolare, la stalla n. 1) eseguite in difformità rispetto ai progetti originari e alle autorizzazioni ricevute.

La corte d’appello ha ritenuto tali migliorie ugualmente indennizzabili perchè eventuali violazioni edilizie sono state sanate mediante il rilascio di concessione in sanatoria, ma la controricorrente sostiene, sulla base delle previsioni di legge, senza aggiungere peraltro alcuna considerazione a supporto della sua affermazione, che l’indennizzo possa spettare soltanto per opere pienamente conformi al progetto realizzato.

Il motivo è infondato.

Secondo un consolidato orientamento di legittimità, dal quale non sussistono ragioni per discostarsi, il discrimine per la possibilità di ottenere il riconoscimento dei miglioramenti eseguiti in riferimento ad opere che presentino irregolarità edilizie è l’ottenimento della sanatoria, o anche solo la possibilità di ottenerla e quindi di regolarizzare le opere stesse. Il principio è ricavabile da Cass. n. 5864 del 2015: “In tema di contratti agrari, l’affittuario che abbia eseguito, sul fondo del locatore, opere non conformi alle norme edilizie e insuscettibili di sanatoria, non ha diritto ad alcun indennizzo ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, artt. 16 e 17, la cui attribuzione sarebbe in contrasto con la funzione dell’amministrazione della giustizia, in quanto l’agente verrebbe a conseguire indirettamente, ma pur sempre in via giudiziaria, un vantaggio da attività illecita, che, in via diretta, è precluso dagli artt. 1346 e 1418 c.c., tanto più che le opere – proprio perchè non sanabili – non sono idonee a determinare un effettivo aumento di valore del fondo”. Si è più volte affermato infatti, anche a proposito dell’indennizzo di cui all’art. 936 c.c. (v. Cass. n. 4731 del 2011), che il manufatto abusivo è privo di valore per il fondo cui accede, quindi non stimabile ai fini dei miglioramenti, e che in questo caso, diversamente opinando, si verrebbe a riconoscere un indennizzo per una attività illecita e foriera di conseguenze e responsabilità anche penali in capo al proprietario.

Diversa è la situazione del manufatto la cui irregolarità urbanistica edilizia sia sanabile e tanto più di quello – come nella specie – in cui, con la sanatoria, tale irregolarità sia stata eliminata e pertanto l’incremento di valore si realizza nè più nè meno che nel caso di manufatto conforme alle autorizzazione.

Il ricorso incidentale va pertanto rigettato.

In accoglimento del quarto e quinto motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Brescia, che si atterrà ai principi di diritto sopra enunciati e deciderà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i primi tre motivi del ricorso principale, accoglie il quarto e il quinto, rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al quarto e quinto motivo del ricorso principale e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 19 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2018

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