Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34030 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. II, 19/12/2019, (ud. 08/11/2019, dep. 19/12/2019), n.34030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – rel. Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21044/2016 proposto da:

M.E., rappresentato e difeso dall’Avvocato MAURO VAGLIO ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio, in ROMA, PIAZZA

della LIBERTA’ 20;

– ricorrente –

contro

ROMA CAPITALE, in persona del Sindaco pro tempore Dott.ssa

R.V., rappresentata e difesa dall’Avvocato FEDERICA GRAGLIA della

Avvocatura Comunale ed elettivamente domiciliata presso i suoi

Uffici in ROMA, VIA del TEMPIO di GIOVE 21;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3723/2016 del TRIBUNALE di ROMA, pubblicata il

22/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8/11/2019 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso, depositato in data 18.3.2009, M.E. proponeva opposizione innanzi al Giudice di Pace di Roma avverso il verbale n. (OMISSIS) relativo alla contestata violazione dell’art. 7 C.d.S., comma 1 (circolazione nella corsia riservata ai mezzi pubblici). Il ricorrente eccepiva di non aver commesso detta violazione e che la motivazione addotta a giustificare la mancata contestazione immediata era insufficiente; contestava, inoltre, l’eccesso di potere dell’ausiliario del traffico, la non conformità del verbale meccanizzato all’originale e la mancata indicazione del responsabile dell’immissione dei dati nel sistema meccanizzato. Chiedeva, pertanto, l’annullamento del verbale impugnato e la condanna del COMUNE DI ROMA al pagamento delle spese di lite.

Si costituiva in giudizio il Comune di Roma chiedendo il rigetto del ricorso.

Con sentenza n. 55127/2010 il Giudice di Pace di Roma rigettava l’opposizione.

Avverso la sentenza proponeva appello il M. chiedendone la riforma sotto il profilo della violazione dell’art. 2700 c.c. e della L. n. 689 del 1981, art. 23 (l’opposizione deve essere accolta quando non vi siano prove sufficienti della responsabilità dell’opponente, nonchè per l’insufficiente motivazione, per la mancata contestazione immediata e omessa motivazione sull’illegittimità del provvedimento di nomina dell’ausiliario del traffico).

Con sentenza n. 3723/2016, depositata in data 22.2.2016, il Tribunale di Roma rigettava l’appello, ritenendo infondate le censure.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione M.E. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria; resiste Roma Capitale con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 201 C.d.S., comma 1-bis, lett. g) e dell’art. 384 reg. esec. C.d.S., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, nella parte in cui a giudizio del Tribunale d’appello un ciclomotore, “piccolo e sguizzante veicolo a due ruote”, non poteva essere fermato dall’accertatore perchè già lontano dallo stesso e comunque avrebbe comportato il rischio di caduta o urto. Il ricorrente, sin dal primo grado di giudizio, aveva eccepito, tra le cause di esclusione dell’obbligo della contestazione immediata, l’art. 384 reg. esec. C.d.S., che non contempla l’ipotesi di circolazione nella corsia riservata ai mezzi pubblici. Inoltre, la motivazione contenuta nel verbale di accertamento, adottata per giustificare la mancata contestazione immediata e consistente nell’esigenza di “non intralciare il servizio di pubblico trasporto”, appariva insufficiente e pretestuosa, alla luce di quanto affermato da Cass. n. 26311 del 2006, secondo cui il ciclomotore che circoli nella corsia riservata ai mezzi pubblici non costituisce un intralcio allo svolgimento del relativo servizio di pubblico trasporto e, pertanto, non può essere sanzionato.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Premesso che l’art. 384 reg. esec. C.d.S., si limita ad indicare, solo a titolo esemplificativo, i casi di materiale impossibilità della contestazione immediata prevista dall’art. 201, comma 1, del codice, va rilevato, in termini genrali, che il vizio di violazione di legge (ascritto al Tribunale di appello in riferimento alla motivazione riguardante la censurata mancata possibilità di contestazione immediata della violazione) consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare essa il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di “errori di diritto” individuati per mezzo della sola preliminare indicazione della norma pretesamente violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

Ciò in quanto il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014).

1.3. – A tali considerazioni, va altresì aggiunto che il Tribunale ha, sia pure sinteticamente, individuato e giustificato le ragioni (enumerate sub 1.) che, nel caso di specie, avevano impedito la contestazione immediata (v sentenza impugnata, pagina 2, IV capoverso delle osservazioni).

Trattasi all’evidenza di una valutazione dei fatti, congruamente condotta dal giudice d’appello, e coerente con i menzionati principi. Vale, dunque, l’affermazione per la quale l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013).

Viceversa, così come articolate, le censure portate dal motivo si risolvono sostanzialmente nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento e come argomentate dalla parte, così mostrando il ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dal giudice del merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. e L. n. 689 del 1981, art. 23, comma 12, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, poichè, già in primo grado, egli aveva contestato la sussistenza della violazione, sostenendo che il motociclo di sua proprietà non si trovasse all’ora specificata nel verbale nel luogo ivi indicato e che, quindi, probabilmente l’ausiliario del traffico aveva annotato male il numero di targa, oppure si era verificata una disattenzione nell’immissione dei dati nel sistema meccanizzato. Si sottolinea che, L. n. 689 del 1981, ex art. 23, comma 2, l’Amministrazione ha l’onere probatorio di depositare copia del rapporto con gli atti relativi all’accertamento, nonchè alla contestazione o notificazione della violazione. Nella fattispecie, il ricorrente deduce che il Comune di Roma non aveva fornito alcun elemento probatorio della sussistenza della violazione amministrativa e dell’imputabilità della stessa all’opponente, limitandosi a produrre una copia, non autenticata, del verbale meccanizzato. Inoltre, tale copia era contestata per mancata conformità con l’originale e per mancata indicazione del responsabile dell’immissione dei dati nel sistema informatico.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Questa Corte ha statuito che, nel giudizio di opposizione ad ordinanza ingiunzione relativo al pagamento di una sanzione amministrativa, è ammessa la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile contraddittorietà oggettiva; mentre è riservata al giudizio di querela di falso, nel quale non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell’operato del pubblico ufficiale, la proposizione e l’esame di ogni questione concernente l’alterazione nel verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti (Cass. sez. un. 17355 del 2009; Cass. 3705 del 2013).

Nella specie, il ricorrente non ha proposto la querela di falso.

Sicchè, non risuta apoditticamente deducibile (laddove piuttosto appare in sè contraddittoria) la contestata violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. (in tema di efficacia dell’atto pubblico) per il quale “l’atto pubblico fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente deduce l'”Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sull’illegittimità del provvedimento di nomina dell’ausiliario del traffico in violazione della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133″.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – Dalla lettura della sentenza impugnata si colgono le ragioni della richiesta di annullamento dell’impugnato verbale di contestazione, originariamente svolte nel ricorso introduttivo di primo grado (mancata commissione della infrazione, insufficiente giustificazione della mancata contestazione immediata, non corrispondenza del verbale meccanizzato all’originale, “mancata indicazione del responsabile dell’immissione dei dati nel sistema meccanizzato”).

Il ricorrente ha eccepito che il Tribunale abbia omesso la disamina del quarto motivo di appello, nel quale era stata dedotta: a) la irregolare nomina dell’ausiliario del traffico in violazione della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, che riserva tali funzioni al solo personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico; b) l’illegittimità della ordinanza di nomina dell’ausiliario del traffico da parte del Sindaco, ai sensi della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, in quanto, in seguito all’abrogazione della L. n. 142 del 1990, il Sindaco non può più individuare tale personale ispettivo a cui attribuire il potere di accertamento delle violazioni; c) l’eccesso di potere con cui l’ausiliario accertatore aveva operato in quanto della L. n. 127 del 1997, cit. art. 17, comma 133, attribuisce agli ausiliari del traffico le sole funzioni di prevenzione e accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico soltanto se la violazione viene accertata fuori dei centri abitati.

Orbene, appare radicalmente ampliato il thema decidendum, attraverso un signficativo mutamento della causa petendi, così da rappresentare questione nuova. Rispetto alla quale – anche a prescindere dalla carenza di autosufficienza del motivo (ex plurimis, Cass. n. 29093 del 2018; conf. Cass. n. 20694 del 2018) – rileva l’affermazione di questa Corte (tra le tante, Cass. n. 6013 del 2013), secondo cui, nel giudizio di opposizione a verbale di accertamento di violazione del C.d.S., è inammissibile il motivo di appello con il quale il ricorrente integri le ragioni di annullamento originariamente svolte nel ricorso introduttivo di primo grado, o per la prima volta deduca una ragione di opposizione della quale il ricorso era del tutto privo, in quanto il modello procedimentale introdotto dalla L. n. 689 del 1981, presuppone che tutte le ragioni poste a base dell’istanza demolitoria dell’atto (causae petendi) siano racchiuse nel ricorso introduttivo, senza possibilità di integrare in corso di causa i motivi originariamente addotti (Cass. n. 15937 del 2016).

3.3. – Peraltro, il motivo risulta altrettanto inammissibile, in ragione del profilo, attinente alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Va posto, infatti, in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto del ricorso in esame, pubblicata il 22 febbraio 2016) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Viceversa, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non v’è alcuna idonea e specifica indicazione.

4. – Il Collegio ritiene, infine, applicabile (ratione temporis) la sanzione di cui all’art. 385 c.p.c., comma 4, a norma del quale “quando pronuncia sulle spese, anche nelle ipotesi di cui all’art. 373, la Corte, anche d’ufficio, condanna, altresì, la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave”.

La norma – aggiunta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 13, per espressa previsione dell’art. 27, comma 2, del medesimo decreto – si applica ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze pubblicate a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo, avvenuta il 2 marzo 2006.

A sua volta, l’art. 385 c.p.c., comma 4, è stato abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 20. Tuttavia, per espressa previsione dell’art. 58 della stessa legge, “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile (…) si applicano ai giudizi instaurati dopo la data della sua entrata in vigore”, vale a dire dopo 4 luglio 2009.

Nel presente giudizio è pertanto applicabile l’art. 385 c.p.c., comma 4 (come già ritenuto da Cass. n. 22812 del 2013), in quanto: a) il ricorso per cassazione ha ad oggetto una sentenza pronunciata dopo il 2 marzo 2006; b) essendo il giudizio in primo grado iniziato prima del 4 luglio 2009 (e più precisamente il 18 marzo 2009), ad esso non si applica l’abrogazione dell’art. 385 c.p.c., comma 4, disposta dalla L. n. 69 del 2009.

4.1. – Ciò premesso, deve rilevarsi che l’odierno ricorrente ha proposto un ricorso gravemente carente sul piano della formulazione dei motivi proposti, decisi tutti nel senso della inammissibilità, in coerenza a principi largamente consolidati affermati dalla giurisprudenza di legittimità.

Ritiene questa Corte che proporre ricorsi per cassazione dai contenuti così distanti per un verso dal diritto vivente, per altro verso dai precetti del codice di rito come costantemente e pacificamente interpretati anche dalle Sezioni Unite, costituisca un inequivoco indice della mala fede o della colpa grave del ricorrente (Cass. n. 17814 del 2019), tanto più in considerazione dell’esito negativo di entrambi i giudizi di merito.

La condanna ex art. 385 c.p.c., comma 4, a differenza di quella comminabile ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1, non presuppone una domanda di parte nè la prova del danno, ma esige pur sempre (come nella specie), sul piano soggettivo, almeno la colpa grave della parte soccombente, da ritenersi configurabile nell’ipotesi di violazione del grado minimo di diligenza (identificabile anche in coerenza con il progressivo rafforzamento del ruolo di nomofilachia della Suprema Corte, nonchè con il mutato quadro ordinamentale, quale desumibile dai principi di ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost.; e ciò tanto più in ragione del modestissiomo valore della controversia), che consente di avvertire facilmente l’infondatezza o l’inammissibilità della propria domanda, riscontrabile ove, con il ricorso per cassazione, vengano formulate censure basate su di un errore nell’interpretazione di norme sostanziali o processuali in contrasto con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ovvero su argomenti non seri o pretestuosi o addirittura incomprensibili (Cass. n. 28657 del 2017; conf. Cass. n. 13951 del 2018).

4.2. – Dovendo, quindi ritenersi il ricorso oggetto del presente giudizio proposto quanto meno con colpa grave, il ricorrente deve essere condannato d’ufficio, ex art. 385 c.p.c., al pagamento in favore del controricorrente, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata in base al valore della controversia.

5. – Il ricorso va, dunque, dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo; segue altresì la ulteriore condanna d’ufficio del ricorrente ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 4. Va emessa la dichiarazione di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in Euro 700,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Condanna, altresì, il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente (secondo l’art. 385 c.p.c., comma 4) della ulteriore somma, che si determina equitativamente in Euro 500,00 oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente sentenza. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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