Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 34013 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 19/12/2019, (ud. 10/09/2019, dep. 19/12/2019), n.34013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7375-2018 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BAIAMONTI 4,

presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA MAIORANO, rappresentata e

difesa dagli avvocati MARINA PERETTO, FRANCO COCULO;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE

DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati EMANUELA

CAPANNOLO, NICOLA VALENTE, MANUELA MASSA, CLEMENTINA PULLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3108/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 10/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CARLA

PONTERIO.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. con sentenza in data 9 giugno- 12 settembre 2017 n. 3108 la Corte d’Appello di Roma ha confermato la decisione del Tribunale di Velletri, di rigetto della domanda proposta da C.L. nei confronti dell’INPS per il conseguimento dell’assegno sociale L. n. 335 del 1995, ex art. 3, alle stesse condizioni di reddito previste per la pensione di invalidità civile;

2. a fondamento della decisione la Corte territoriale ha rilevato che, a seguito di visita di verifica, l’INPS aveva comunicato alla parte l’impossibilità di mantenimento della pensione di invalidità civile a far data dal 30 giugno 2014 e dunque anteriormente al raggiungimento del 65 anno di età;

3. la fattispecie si inseriva nel quadro delle verifiche dei requisiti che davano titolo alle prestazioni di invalidità civile disposte dall’INPS ai sensi del D.L. n. 78 del 2009, art. 20; tale norma prevedeva che in caso di comprovata insussistenza, all’esito dell’accertamento, della permanenza dei prescritti requisiti sanitari avrebbe dovuto trovare applicazione il D.P.R. n. 698 del 1994, art. 5, comma 5;

4. la norma richiamata prevedeva in tal caso l’immediata sospensione cautelativa del pagamento, da notificarsi entro 30 giorni dalla data del provvedimento di sospensione, e disponeva che il successivo formale provvedimento di revoca producesse effetto dalla data di accertata insussistenza dei requisiti prescritti;

5. la Corte di merito rilevava come gli esiti della visita di verifica non fossero stati mai posti in discussione dalla parte nella loro validità medico-legale e che per individuare il giorno della perdita del diritto doveva farsi riferimento al momento del venir meno del requisito sanitario; riteneva non necessaria, all’esito della sospensione, l’emanazione di un formale provvedimento di revoca del trattamento;

6. avverso la sentenza ha proposto ricorso C.L., articolato in due motivi, illustrati da successiva memoria, cui ha opposto difese l’INPS con controricorso;

7. la proposta del relatore è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

8. la parte ricorrente ha dedotto:

9. con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.L. n. 78 del 2009, art. 20, comma 2, convertito in L. n. 102 del 2009, art. 4, comma 3 bis, L. n. 425 del 1996, art. 4, comma 3 bis, D.L. n. 323 del 1996, art. 5, comma 5, D.P.R. n. 698 del 1994, art. 52, L. n. 449 del 1997, art. 19,L. n. 118 del 1971;

10. ha censurato la sentenza per avere affermato che non sussiste un obbligo dell’Inps di adottare un formale provvedimento di revoca, assumendo che, sulla base della legge e della giurisprudenza di legittimità, soltanto l’adozione del provvedimento di revoca determini la perdita dei benefici economici, con decorrenza retroattiva dalla data della visita di verifica;

11. la sola visita sanitaria con esito negativo non è idonea a provocare la perdita del diritto alla prestazione pensionistica, in quanto priva di rilevanza giuridica autonoma e preordinata all’emanazione di atti giuridici inseriti in un procedimento amministrativo; nella lettera con cui l’Inps comunicava l’esito della visita, era inequivocabile il riferimento alla possibilità di impugnare la decisione di sospensione ovvero il primo dei provvedimenti previsti dal D.P.R. n. 698 del 1990, art. 5;

12. il diritto alla pensione di invalidità non era dunque cessato al momento della visita di verifica ma aveva prodotto effetti fino al 17 luglio 2014, data in cui la ricorrente aveva compiuto il 650 anno di età, con conseguente acquisizione del diritto all’assegno sociale, in sostituzione della pensione;

13. con il secondo motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 118 del 1971, art. 19, della L. n. 241 del 1990, art. 21 bis, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, difetto di motivazione ed omesso esame circa un punto decisivo;

14. ha denunciato carenza di motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui non ha ravvisato la necessità dell’esistenza di un provvedimento di revoca;

15. ha precisato che l’impugnativa si riferiva indirettamente anche all’atto di verifica dei requisiti sanitari, che non era dunque divenuto definitivo, e che il provvedimento di sospensione notificato successivamente al compimento del 650 anno di età in assenza della revoca non poteva aver prodotto effetto alcuno;

16. il primo motivo di ricorso è infondato, atteso che i giudici di appello si sono attenuti all’orientamento di questa Corte (Cass. n. 16260/2003; Ord. n. 26096/10; n. 26162/2016), a cui si intende dare continuità, secondo cui “Con riferimento alla revoca delle prestazioni assistenziali in favore degli invalidi civili, alla stregua della disciplina via via succedutasi nel tempo a partire dalla L. n. 537 del 1993, art. 11, comma 4 (D.L. n. 323 del 1996, art. 4, comma 3 ter, convertito in L. n. 425 del 1996, art. 37, comma 8, L. n. 448 del 1998) – disciplina alla quale rimane estranea la disposizione meramente “regolamentare” dettata dal D.P.R. n. 698 del 1994, art. 5, comma 5, avente ad oggetto l’articolazione del relativo procedimento – deve ritenersi che la ripetizione delle prestazioni previdenziali indebitamente erogate operi dalla data di accertamento amministrativo dell’inesistenza dei requisiti sanitari, senza che possa rilevare – in mancanza di una norma che disponga in tal senso – il mancato rispetto, da parte dell’amministrazione, dell’obbligo di sospendere i pagamenti e di emanare il formale provvedimento di revoca entro termini prefissati; nè il sistema normativo così interpretato può essere ritenuto non rispettoso dell’art. 38 Cost., essendo ragionevole che la data dell’accertamento amministrativo, ancorchè precedente il formale atto di revoca, determini la fine dell’affidamento dell’assistito nella definitività dell’attribuzione patrimoniale ricevuta”;

17. si è precisato, sia pure ai fini della ripetibilità delle prestazioni previdenziali indebitamente erogate ma con valenza di carattere generale, come gli atti di sospensione e revoca delle prestazioni per accertata insussistenza dei requisiti sanitari “non concretino esercizio di poteri amministrativi, ma si sostanzino in meri accertamenti, in atti di gestione del rapporto obbligatorio; ove la legge avesse inteso collegare alla violazione dei termini (ndr. di cui al D.P.R. n. 698 del 1994, art. 5, comma 5) l’effetto di estendere l’irripetibilità delle erogazioni anche a quelle versate dopo la verifica e fino all’emanazione dell’atto di revoca formale (tardivo), avrebbe dovuto dirlo, non essendo desumibile tale regola dai principi del sistema. In definitiva, come dimostra anche il fatto che i termini siano stati per la prima volta previsti proprio da un regolamento emanato in tema di strutturazione dei procedimenti amministrativi, si è in presenza di disposizioni organizzative, preordinate ad impedire – anche collegando all’inosservanza la responsabilità degli organi per danno erariale – proprio che siano effettuate prestazioni indebite, le quali sia poi necessario ripetere, non certo a sancire l’irripetibilità delle stesse quale sanzione per l’inosservanza dei termini” (così Cass. n. 16260/03);

18. non giova alla tesi di parte ricorrente la giurisprudenza richiamata nel ricorso in esame (cfr. per tutte Cass. 14590/02 secondo cui “In tema di revoca dei benefici assistenziali agli invalidi civili, ai sensi della L. n. 425 del 1996, art. 4, comma 3 bis, applicabile alla fattispecie “ratione temporis”-, essa produce i suoi effetti, tra cui la ripetizione delle prestazioni indebite, dalla data della visita di verifica; la mancata immediata sospensione delle prestazioni, con conseguente formazione dell’indebito, non implica che la revoca operi da data successiva a quella della visita, e in particolare dalla data di comunicazione della revoca, perchè non prevista; pertanto, devono essere restituiti tutti i ratei maturati dopo la visita di verifica”), in quanto la stessa individua la data di efficacia della revoca, collegandola alla visita di verifica, ma non statuisce sulla indispensabilità dell’atto formale di revoca, come invece preteso dalla attuale ricorrente;

19. neppure il secondo motivo di ricorso può trovare accoglimento. La ritenuta irrilevanza dei provvedimenti di sospensione e di revoca ai fini della perdita del diritto alla prestazione assistenziale e della relativa decorrenza, rende priva di rilievo la censura sulla efficacia dell’atto di sospensione della pensione emanato dall’Inps il 10.7.14, e che la ricorrente allega di aver impugnato ai sensi della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3 (pur prescindendo dai profili di inammissibilità legati alla mancata trascrizione dell’atto nel ricorso in esame), nonchè la dedotta violazione della L. n. 118 del 1971, art. 19;

20. inammissibile è, infine, la censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, atteso che non è configurabile un vizio di carenza assoluta di motivazione tale da integrare la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, come delineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014) e neppure ricorrono gli estremi dell’omesso esame di un fatto inteso in senso storico fenomenico (cfr. Cass., S.U., cit.);

21. per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto;

22. la regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo;

23. sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 1.500,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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