Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33927 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/12/2019, (ud. 06/11/2019, dep. 19/12/2019), n.33927

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5836/2015 R.G., proposto da:

M.L., rappresentato e difeso dall’Avv. Maria Cristina Sandrin,

con studio in Caldiero (VR), dall’Avv. Giuseppe Giacon, con studio

in San Bonifacio (VR), e dall’Avv. Luigi Manzi, con studio in Roma,

ove elettivamente domiciliato, giusta procura, per la prima, in

margine alla memoria ex art. 378 c.p.c., per il secondo e il terzo,

in margine al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

l’Agenzia delle Entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore

Generale pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

Generale dello Stato, con sede in Roma, ove per legge domiciliata;

– controricorrente –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale

di Venezia-Mestre, Sezione Distaccata di Verona, il 7 luglio 2014 n.

1184/15/2014, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 6

novembre 2019 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

udito per il ricorrente l’Avv. Federica Manzi, in sostituzione, che

ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale,

Dott. Giovanni Giacalone, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza depositata il 7 luglio 2014 n. 1184/15/2014, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale di Venezia-Mestre, Sezione Distaccata di Verona, rigettava l’appello proposto da M.L. avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Verona il 20 novembre 2012 n. 159/01/12, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. Il giudice di appello rilevava che: a) il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l’Agenzia del Territorio aveva variato la classificazione del fabbricato sito in Pressana (VR) e censito in catasto con la particella (OMISSIS) sub. (OMISSIS) del foglio (OMISSIS), del quale M.L. era proprietario, dalla categoria “D/10” (fabbricato ad uso rurale) alla categoria “D/7” (fabbricato ad uso artigianale o commerciale); b) la Commissione di primo grado aveva rigettato il ricorso. Dopo aver ricostruito il quadro normativo di riferimento, la Commissione Tributaria Regionale confermava la decisione di primo grado, ritenendo legittimo l’operato dell’Agenzia del Territorio, la quale – dopo aver verificato, all’esito di denuncia “DOCFA” del contribuente nel mese di marzo dell’anno 2011, che il contribuente era pensionato dall’anno 2007, che lo stesso aveva concesso in affitto l’azienda agricola (nella quale il fabbricato era compreso) al figlio M.N. e che l’allevamento di bestiame era esercitato da quest’ultimo con mangimi ottenuti per meno di 1/4 (un quarto) dai terreni aziendali – aveva motivato la riclassificazione del fabbricato in ragione dell’insussistenza del requisito soggettivo (qualifica di coltivatore diretto del proprietario del fabbricato) e del requisito oggettivo (strumentalità del fabbricato rispetto all’esercizio di attività agricola) per il riconoscimento della sua ruralità.

2. Avverso la sentenza di appello, il contribuente proponeva ricorso per cassazione, consegnato per la notifica il 23 febbraio 2015 ed affidato a tre motivi; l’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso; il contribuente depositava memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente censura la sentenza impugnata, denunciando violazione e/o errata applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 e della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che “l’obbligo di motivazione nell’avviso di accertamento catastale emesso a seguito della rettifica di una denuncia DOCFA è soddisfatto con la semplice indicazione dei dati oggettivi rilevati dall’ufficio e dalla classe conseguentemente attribuita, elementi sufficienti a consentire una puntuale difesa del contribuente”.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e/o erronea applicazione del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che la ruralità del fabbricato strumentale all’esercizio di attività agricola (in particolare, dell’allevamento e del ricovero di bestiame) non poteva essere esclusa dal pensionamento del proprietario coltivatore diretto e dalla concessione in affitto a terzi dell’azienda agricola, giacchè la relativa valutazione doveva essere condotta in base a criteri strettamente oggettivi.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia violazione e/o erronea applicazione del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3 – bis, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, in combinato disposto con l’art. 2135 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, adducendo che la destinazione oggettiva del fabbricato all’allevamento di bestiame era condizione necessaria e sufficiente per la qualificazione di ruralità, essendo del tutto irrilevante a tal fine – dopo il 30 novembre 2007 (data di entrata in vigore della modifica apportata dal D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 42 – bis, convertito nella L. 29 novembre 2007, n. 222, al D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3 – bis, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133) – l’eccedenza dei capi allevabili rispetto al limite fissato dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 32.

4. Il primo motivo è palesemente infondato alla stregua della più recente giurisprudenza di questa Corte, che, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio ovvero, di attribuzione di rendita catastale a seguito della procedura disciplinata dal D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, convertito nella L. 24 marzo 1993, n. 75, e dal D.M. 19 aprile 1994, n. 701 (c.d. procedura “DOCFA”) – ha precisato che l’obbligo di motivazione dell’avviso di classamento può intendersi soddisfatto con la mera indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita “solo se gli elementi di fatto indicati dal contribuente non siano stati disattesi dall’Ufficio e l’eventuale discrasia tra rendita proposta e rendita attribuita derivi da una valutazione tecnica sul valore economico dei beni classati”, come pacificamente è avvenuto nel caso di specie, “mentre, in caso contrario, la motivazione deve specificare le differenze riscontrate sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente, sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso” (ex plurimis: Cass., Sez. 6, 16 giugno 2016, n. 12497; Cass., Sez. 6, 21 maggio 2018, n. 12389; Cass., Sez. 5, 23 maggio 2018, n. 12777; Cass., Sez. 6, 7 dicembre 2018, n. 31809).

Per cui, l’obbligo di motivazione a carico dell’Agenzia del Territorio è stato adeguatamente assolto, giacchè il diverso accatastamento operato rispetto alla proposta del contribuente è conforme alla dedotta reale destinazione ed alle caratteristiche oggettive intrinseche ed estrinseche dell’immobile, non essendo in contestazione i dati forniti dal contribuente con riferimento alla sua estensione ed alla sua consistenza.

5. Il secondo motivo ed il terzo motivo devono essere congiuntamente esaminati per ragioni di connessione logica.

5.1 Il ricorrente deduce, per un verso, che la ruralità del fabbricato destinato all’allevamento ed al ricovero di bestiame prescinderebbe dalla qualifica di coltivatore diretto del proprietario, e, per un altro verso, dall’allevamento con mangimi ottenuti, almeno per un quarto di quelli necessari per l’alimentazione del bestiame, dai terreni dell’azienda agricola.

La controricorrente replica, da un lato, che il riconoscimento della ruralità sarebbe al più compatibile con il pensionamento del coltivatore diretto limitatamente ai fabbricati destinati ad uso abitativo; dall’altro lato, che la ruralità dei fabbricati strumentali all’allevamento di bestiame presupporrebbe l’osservanza della percentuale minima del 25% con riguardo all’impiego di mangimi ritraibili dai terreni dell’azienda agricola.

5.2 La sentenza della Commissione Tributaria Regionale ha motivato, sotto il primo aspetto, il difetto della qualità di imprenditore agricolo in capo al contribuente, sul rilievo che egli sarebbe pensionato sin dall’anno 2007 ed avrebbe concesso in affitto al figlio l’azienda agricola (ivi compreso il fabbricato strumentale in questione) sin dall’11 novembre 2007 (comunque, con contratto registrato il 4 dicembre 2007) per la prosecuzione dell’attività di allevamento avicolo; sotto il secondo aspetto, il carattere industriale (e non agricolo) dell’attività di allevamento avicolo in ragione dell’eccedenza relativa al numero dei capi allevati rispetto al limite fissato dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 32.

5.3 La decisione della controversia impone di affrontare la questione dei requisiti necessari per il riconoscimento della ruralità dei fabbricati, chiarendo le differenze intercorrenti in relazione alla destinazione abitativa ed alla destinazione imprenditoriale.

5.4 In proposito, si osserva che, secondo il D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, quale novellato dal D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 42 – bis, convertito nella L. 29 novembre 2007, n. 222, “ai fini del riconoscimento della ruralità degli immobili agli effetti fiscali, i fabbricati o porzioni di fabbricati destinati ad edilizia abitativa devono soddisfare le seguenti condizioni: a) il fabbricato deve essere utilizzato quale abitazione: 1) dal soggetto titolare del diritto di proprietà o di altro diritto reale sul terreno per esigenze connesse all’attività agricola svolta; 2) dall’affittuario del terreno stesso o dal soggetto che con altro titolo idoneo conduce il terreno a cui l’immobile è asservito; 3) dai familiari conviventi a carico dei soggetti di cui ai numeri 1) e 2) risultanti dalle certificazioni anagrafiche; da coadiuvanti iscritti come tali a fini previdenziali; 4) da soggetti titolari di trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura; 5) da uno dei soci o amministratori delle società agricole di cui al D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, art. 2, aventi la qualifica di imprenditore agricolo professionale; a-bis) i soggetti di cui ai nn. 1), 2) e 5) della lett. a) del presente comma devono rivestire la qualifica di imprenditore agricolo ed essere iscritti nel registro delle imprese di cui alla L. 29 dicembre 1993, n. 580, art. 8; (…) c) il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 metri quadrati ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra o la funghicoltura o altra coltura intensiva, ovvero il terreno è ubicato in comune considerato montano ai sensi della L. 31 gennaio 1994, n. 97, art. 1, comma 3, il suddetto limite viene ridotto a 3.000 metri quadrati; d) il volume di affari derivante da attività agricole del soggetto che conduce il fondo deve risultare superiore alla metà del suo reddito complessivo, determinato senza far confluire in esso i trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura. Se il terreno è ubicato in Comune considerato montano ai sensi della cit. L. n. 97 del 1994, il volume di affari derivante da attività agricole del soggetto che conduce il fondo deve risultare superiore ad un quarto del suo reddito complessivo, determinato secondo la disposizione del periodo precedente. Il volume d’affari dei soggetti che non presentano la dichiarazione ai fini dell’I.V.A. si presume pari al limite massimo previsto per l’esonero dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 34; e) i fabbricati ad uso abitativo, che hanno le caratteristiche delle unità immobiliari urbane appartenenti alle categorie A/1 ed A/8, ovvero le caratteristiche di lusso previste dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 agosto 1969, adottato in attuazione della L. 2 luglio 1949, n. 408, art. 13 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 27 agosto 1969, n. 218, non possono comunque essere riconosciuti rurali”.

Dunque, per il riconoscimento della ruralità ai fini fiscali delle costruzioni, nell’ambito delle unità immobiliari a destinazione abitativa, si delinea la distinzione tra requisiti soggettivi e requisiti oggettivi: i primi attengono a caratteristiche e stato di fatti che concernono i soggetti utilizzatori dei fabbricati; i secondi concernono le caratteristiche tipologiche edilizie, l’ubicazione, la destinazione d’uso, l’utilizzazione.

La verifica del soddisfacimento dei requisiti soggettivi non presenta particolari difficoltà, in quanto lega il controllo della condizione all’esistenza di una prova documentale, dalla quale si evinca con chiarezza il soggetto che utilizza l’abitazione, consentendo, quindi, il confronto con la categoria di soggetti ammessa. La norma appare sufficientemente chiara nell’individuazione delle tipologie dei soggetti e delle loro condizioni specifiche in rapporto al fondo (coltivatore diretto, imprenditore agricolo, affittuario, loro familiari conviventi, ecc.).

Qualche difficoltà sorge nel caso di soggetto titolare di trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura. Per questi ultimi può presentarsi la seguente casistica: a) soggetto titolare di pensione corrisposta a seguito di attività agricola che continua a svolgere attività agricola sul fondo; b) soggetto titolare di pensione corrisposta a seguito di attività agricola che ha concesso i terreni in uso a terzi; c) soggetto titolare di pensione, corrisposta a seguito di attività agricola, che non svolge più attività agricola sul fondo e non ha dato in uso lo stesso a terzi.

Tuttavia, ai fini del riconoscimento della ruralità, deve sussistere, unitamente agli altri requisiti richiesti, anche la condizione di cui al D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3, lett. d), convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, quale novellato dal D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 42-bis, convertito nella L. 29 novembre 2007, n. 222, la quale dispone che il volume d’affari derivante da attività agricole del soggetto che conduce il fondo deve risultare superiore alla metà del suo reddito complessivo, determinato senza far confluire in esso i trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura.

Pertanto, nel caso di cui al punto a), atteso che il soggetto titolare di pensione continua a svolgere attività agricola sul fondo, il requisito relativo all’ammontare del volume d’affari deve essere verificato in capo a quest’ultimo senza tener conto dei trattamento pensionistico percepito. In tal caso, l’attività esercitata direttamente dal pensionato sul fondo deve assumere i connotati di una vera e propria attività economica, produttiva di ricavi, quale, per esempio, l’attività finalizzata alla produzione di prodotti agricoli per la vendita. A tal fine, potrebbe ritenersi indicativo il possesso della partita I.V.A. da parte del pensionato.

Nel caso descritto al punto b), concernente l’ipotesi in cui il fondo venga concesso in uso a terzi, il requisito del volume d’affari deve intendersi riferito esclusivamente al soggetto che conduce il fondo.

Infine, per quanto concerne l’ipotesi di cui al punto c), relativo al pensionato agricoltore che non eserciti più alcuna attività sul proprio fondo e non abbia neppure concesso lo stesso in uso a terzi, deve escludersi il riconoscimento del carattere di ruralità del fabbricato ad uso abitativo di proprietà del pensionato e, conseguentemente, i connessi benefici fiscali, atteso che non sussiste il requisito richiesto in capo al pensionato, nè in capo a terzi utilizzatori del fondo.

Più complesso si prospetta l’accertamento dei requisiti oggettivi, dovendosi aver riguardo alla tipologia edilizia ed alla localizzazione territoriale del fabbricato, alla superficie e alla destinazione del fondo a cui il fabbricato è asservito, al volume d’affari dell’impresa agricola.

5.5 Secondo il D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3-bis, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, quale novellato dal D.L. 1 ottobre 2007, n. 159, art. 42 – bis, convertito nella L. 29 novembre 2007, n. 222, “ai fini fiscali deve riconoscersi carattere di ruralità alle costruzioni strumentali necessarie allo svolgimento dell’attività agricola di cui all’art. 2135 c.c. e in particolare destinate: (…) c) alla custodia delle macchine agricole, degli attrezzi e delle scorte occorrenti per la coltivazione e l’allevamento; d) all’allevamento e al ricovero degli animali (…)”.

A differenza degli immobili abitativi, la norma non contiene alcun riferimento al caso di eventuale appartenenza degli immobili strumentali a soggetti titolari di trattamenti pensionistici corrisposti a seguito di attività svolta in agricoltura.

Tuttavia, nel silenzio del legislatore, si può desumere che la cessazione dell’attività imprenditoriale da parte del proprietario non fa venir meno la ruralità, sempre che continui a sussistere il rapporto di connessione tra l’attività agricola ed il fabbricato strumentale.

Ne deriva che la ruralità del fabbricato strumentale è un dato oggettivo, che dipende esclusivamente dalla effettiva destinazione dell’immobile allo svolgimento delle attività agricole. Dunque, tale condizione non può venir meno per il solo fatto del pensionamento del coltivatore diretto che ne sia proprietario, dovendo verificarsi la perdita dei requisiti oggettivi previsti dalla norma.

In sostanza, tali fabbricati possono appartenere ad altro soggetto diverso dal titolare della proprietà del fondo sul quale insistono, purchè siano utilizzati per un’attività agricola. Non a caso, analogo principio è stato più volte ribadito da questa Corte con riguardo alle cooperative agricole, chiarendosi che il carattere rurale dei fabbricati, diversi da quelli destinati ad abitazione, non può essere negato, ogniqualvolta essi siano strumentalmente destinati allo svolgimento di attività agricole contemplate dal D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 29 (ora 32), od anche di quelle aggiunte dal D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3 – bis, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, a prescindere dal fatto che titolarità del fabbricato e titolarità dei terreni da cui provengono i prodotti agricoli coincidano nello stesso soggetto (in termini: Cass., Sez. 5, 1 agosto 2008, n. 20953; Cass., Sez. 5, 3 agosto 2012, n. 14103; Cass., Sez. 5, 7 maggio 2019, n. 11974).

Ne consegue che, se il proprietario di un fabbricato rurale lo concede in affitto ad altro imprenditore agricolo, non vi è alcun cambio di destinazione e, pertanto, il fabbricato rurale resta tale.

5.6 Ciò detto, la ruralità delle costruzioni strumentali alle attività agricole, ancorchè esercitate da soggetti diversi dal proprietario del fondo, deve essere valutata ai fini fiscali (e, dunque, anche ai fini del classamento catastale, che è strettamente connesso alla tassazione reddituale) in relazione al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 32, comma 2.

Ai sensi di tale disposizione, tra le tipologie di attività considerate “agricole” rientra “l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno”. A ben vedere, questa percentuale rappresenta la trasposizione normativa in un criterio aritmetico del collegamento necessario e funzionale col fondo che deve sussistere affinchè l’allevamento di bestiame (ivi compresa l’avicoltura) si possa considerare impresa agricola e non industriale, nell’accezione delineata dall’art. 2135 c.c. (anche all’esito della modifica apportata dal D.Lgs. 18 maggio 2001, n. 228, art. 1), risultando vincolato alla raccolta dei prodotti della terra, destinati all’alimentazione dei capi allevati, e partecipi, quindi, dei rischi relativi all’andamento della produzione agricola. Difatti, le attività di allevamento del bestiame rientrano nella nozione di attività agricola solo quando siano funzionali al fondo rustico, per cui esercita un’impresa industriale chi attende all’allevamento del bestiame senza utilizzare, almeno in parte, i prodotti della terra di cui ha la disponibilità, cosicchè la terra resta al di fuori della dinamica dei mezzi produttivi, costituendo solo una area di sosta o di sistemazione del bestiame collocato per la custodia la cura e lo sviluppo, procurati secondo tecniche e procedimenti non ancorati alla produttività del fondo (Cass., Sez. 5, 18 aprile 2002, n. 5579).

Per cui, l’incontroverso travalicamento di tale limite nel caso in disanima (con specifico riguardo all’avicoltura esercitata dall’affittuario dell’intera azienda) è sufficiente ad escludere il riconoscimento della ruralità del fabbricato strumentale in proprietà del contribuente, ritenendosi corretta l’interpretazione data dall’Agenzia delle Entrate al D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, art. 9, comma 3 – bis, convertito nella L. 26 febbraio 1994, n. 133, nel conseguente classamento.

6. Stante l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso deve essere rigettato.

7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

8. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 – quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 – bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, liquidandole nella misura complessiva di Euro 1.400,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito; dà atto dell’obbligo, a carico del ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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