Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33915 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/12/2019, (ud. 23/10/2019, dep. 19/12/2019), n.33915

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 14845/2012 R.G. proposto da:

DELTA CONCERTI S.R.L., in persona del legale rappresentante,

V.T. e M.N., tutti rappresentati e difesi, giusta

procura in calce al ricorso, dall’avv. Luigi Quercia, con domicilio

eletto presso lo studio dell’avv. Livia Ranuzzi, in Roma, Viale del

Vignola, n. 5;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, n. 12,

presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e

difende come per legge;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 94/6/11 della Commissione Tributaria regionale

della Puglia depositata il 23 dicembre 2011;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2019

dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, Dott.ssa Immacolata Zeno, che ha concluso chiedendo che

sia dichiarata l’inammissibilità del ricorso e, in subordine, il

rigetto del ricorso;

udito il difensore della parte controricorrente, avv. Salvatore

Foraci.

Fatto

FATTI DI CAUSA

All’esito di verifica fiscale l’Agenzia delle Entrate notificava alla Delta Concerti s.r.l., società a ristretta base azionaria, due avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2004 e 2005, con cui contestava che le operazioni apparentemente intercorse tra la predetta società e le società Show Business s.r.l., Star Sistem s.a.s., Euro Entertainment s.a.s., Futuradriatica s.r.l., Management & Service s.a.s. e la ditta individuale Management & Service di I.V. fossero oggettivamente inesistenti e, conseguentemente, che fossero fittizi sia gli acquisti effettuati dalla Delta Concerti per un importo totale di Euro 1.553.169,00 per l’anno 2004 e per Euro 2.364.262,03 per l’anno 2005, sia le cessioni dalla stessa effettuate; procedeva, pertanto, al recupero a tassazione di maggiori imposte ai fini IRES e IRAP sugli acquisti e al recupero di I.V.A. sulle note di credito emesse a storno parziale delle cessioni fatturate.

L’Amministrazione finanziaria emetteva, altresì, separati avvisi di accertamento per i medesimi anni d’imposta nei confronti di V.T. e M.N., soci della Delta Concerti s.r.l., imputando agli stessi la corrispondente quota di partecipazione agli utili, con conseguente recupero di maggiore imponibile ai fini IRPEF.

Avverso gli atti impositivi la società ed i soci proponevano distinti ricorsi che venivano accolti, con separate pronunce, dalla Commissione provinciale di Bari, la quale accertava che la Delta Concerti s.r.l. aveva prodotto documentazione a conferma dell’effettività delle operazioni passive contabilizzate, dimostrando altresì che le note di credito erano state emesse in relazione ai concerti programmati, ma non realizzati.

Proposto appello dall’Ufficio, la Commissione regionale della Puglia, previa riunione delle cause, riformava le sentenze di primo grado.

A sostegno della pretesa tributaria richiamava la nota dell’Ufficio della S.I.A.E. Direzione Generale di Roma, dalla quale emergeva che la società contribuente aveva emesso e utilizzato fatture per operazioni inesistenti in concorso con le altre società verificate al fine di conseguire rilevanti rimborsi dell’imposta sul valore aggiunto, considerato che le società Show Business s.r.l., Star Sistem s.a.s., Euro Entertainment s.a.s., Futuradriatica s.r.l. e Management & Service s.a.s. non avevano mai svolto attività, mentre la ditta individuale Management & Service di I.V., pur avendo presentato la dichiarazione fiscale per il 2005, non aveva dichiarato alcun reddito d’impresa.

Rilevava che delle fatture in contestazione non vi era traccia nelle rispettive contabilità della Management & Service s.a.s. e della ditta individuale Management & Service di I.V., tutte facenti capo allo stesso legale rappresentante, e che poichè le prestazioni fatturate riguardavano diritti di prevendita, allestimento palchi, nolo gruppo elettrogeno, trasporti, facchinaggio, e servizio hostess, per i quali era indispensabile una struttura di impresa, con relativi beni strumentali e personale dipendente, correttamente l’Ufficio aveva dedotto che le predette società non potessero avere eseguito le prestazioni indicate nelle fatture perchè prive dei mezzi necessari per effettuarle; riteneva, parimenti, inesistenti le operazioni annotate nelle fatture attive emesse dalla Delta Concerti s.r.l. nei confronti della Show & Business s.r.l. e della Management & Service s.a.s., poichè di esse non vi era traccia nella contabilità delle società riceventi.

Escludeva, inoltre, che la documentazione prodotta dalla contribuente, su cui si fondava la sentenza della Commissione provinciale, potesse essere idonea a contrastare le evidenze probatorie offerte dall’Ufficio, sottolineando che, in difetto di nesso funzionale tra costo sostenuto e attività d’impresa, non poteva ritenersi assolto l’onere della prova della certezza ed inerenza dei costi e, di conseguenza, doveva escludersi la detrazione del costo fatturato ai fini IRES e IRAP e la detrazione ai fini dell’I.V.A.

Disattendeva, quindi, tutte le altre doglianze fatte valere dalla contribuente (violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 116), confermando integralmente gli avvisi di accertamento.

Ricorrono per la cassazione della suddetta decisione la Delta Concerti s.r.l. ed i soci V.T. e M.N., con quattordici motivi. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La difesa erariale nel controricorso ha eccepito l’inammissibilità del ricorso, che è stato collazionato tramite “spillatura” con inserimento nel corpo di ciascun motivo di atti e documenti del giudizio di merito, in quanto si tratta di tecnica di redazione che “riversa” sul giudice di legittimità il compito di ricercare e individuare i punti rilevanti ai fini della decisione.

1.1. L’eccezione va disattesa.

1.2. Va premesso che i cd. ricorsi “assemblati” o “farciti” o “sandwich” implicano una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del ricorso, senza alcuna selezione o rielaborazione sintetica dei loro contenuti.

Tale eccesso di documentazione integrata nel ricorso non soddisfa la richiesta alle parti di una concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, viola il principio di sinteticità che deve informare l’intero processo e, soprattutto, comporta il “mascheramento” dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso (sulla inammissibilità dei ricorsi “farciti” possono essere richiamate le considerazioni espresse da Cass., ord. n. 784 del 16/1/2014; Cass. n. 22792 del 7/10/2013; Cass., ord. n. 10244 del 2/5/2013; Cass. Sez. U, n. 5698 del 11/4/2012; Cass. n. 1380 del 21/1/2011; Cass. n. 15180 del 23/6/2010).

1.3. Nella specie, tuttavia, i documenti riprodotti nel ricorso in esame, che si compone di 150 pagine – in quanto facilmente individuabili ed isolabili – possono facilmente espungersi dal ricorso stesso e la giunzione tra gli atti funzionale alla ricostruzione della vicenda processuale e la formulazione dei motivi consente di escludere ogni profilo di difetto di autosufficienza non solo del ricorso, ma anche dei singoli motivi attraverso i quali esso è articolato, che risultano adeguatamente formulati mediante chiara illustrazione delle censure rivolte alla sentenza impugnata, come chiarito da Cass. 18 settembre 2015, n. 18363.

2. Con il primo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., richiamato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 62, comma 1, e sostengono che i giudici regionali, violando il principio di “corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato”, hanno omesso di pronunciarsi sullo specifico motivo di gravame con cui era stata rilevata l’illegittimità degli avvisi di accertamento, per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, mancando nella specie le condizioni di urgenza che avrebbero potuto giustificare l’emanazione di tali atti da parte dell’Ufficio finanziario prima del termine di sessanta giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione.

3. Con il secondo motivo denunciano, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, lamentando che i giudici di appello, con riguardo alla dedotta mancanza delle condizioni di urgenza, non danno contezza del percorso decisionale adottato e delle analitiche deduzioni formulate dalla società contribuente, essendosi limitati a ritenere “rispettato dall’Ufficio il precetto stabilito dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7”.

3.1. Il primo ed il secondo motivo, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione logica, sono infondati.

3.2. Le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 18184 del 29 luglio 2013, risolvendo la questione relativa all’interpretazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, hanno affermato il principio di diritto secondo cui “In tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio”.

Secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, dunque, a fronte di “un avviso di accertamento emesso prima della scadenza del termine de quo e privo dell’enunciazione dei motivi di urgenza che lo legittimano, il contribuente potrà, ove lo ritenga, anche limitarsi ad impugnarlo per il solo vizio della violazione del termine: spetterà, quindi, all’Ufficio l’onere di provare la sussistenza (all’epoca) del requisito esonerativo del rispetto del termine e, dunque, in definitiva, al giudice, a seguito del dibattito processuale (e senza, perciò, che il contribuente subisca alcuna menomazione del diritto di difesa), stabilire l’esistenza di una valida e “particolare” – ossia specificamente riferita al contribuente ed al rapporto tributario in questione – ragione di urgenza, idonea a giustificare l’anticipazione dell’emissione del provvedimento” (in senso conforme Cass. n. 2587 del 5/2/2014).

3.3. La Commissione regionale, sul punto, dopo avere affermato che “il precetto stabilito dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, è stato rispettato dall’Ufficio, che ha indicato, nell’avviso notificato, le rilevanti ragioni di urgenza che hanno necessitato l’emissione e la notifica dell’avviso di accertamento prima della scadenza dei termini previsti dalla norma sopra citata”, ha ritenuto pienamente sussistenti, nella fattispecie, tali condizioni, non negate dalla stessa contribuente, riconoscendo in tal modo che le circostanze indicate negli atti impositivi potessero costituire valide ragioni giustificative dell’urgenza.

3.4. La valutazione operata dai giudici di merito risulta rispettosa dei principi enunciati da questa Corte di legittimità.

Come emerge dallo stralcio della motivazione degli avvisi di accertamento, ritrascritto nel controricorso, in quello relativo all’anno 2004 l’Amministrazione aveva indicato che le ragioni per le quali era stata anticipata la notificazione dell’atto impugnato consistevano nel fatto che la società aveva richiesto ed ottenuto un rimborso I.V.A., pari ad Euro 220.000,00, non spettante perchè illecito, dato che la società verificata, emettendo documenti falsi, aveva posto in essere una frode in danno dell’Erario finalizzata proprio all’ottenimento del rimborso e che i rilievi emergenti dall’avviso di accertamento erano stati oggetto di apposita segnalazione di ipotesi di reato alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari; parimenti, nell’avviso di accertamento relativo all’anno 2005, i motivi di particolare urgenza richiamati consistevano sia nella imminente scadenza della polizza fideiussoria rilasciata dalla Italiana Assicurazioni a seguito dell’erogazione di rimborso I.V.A. annuale per l’anno 2005 richiesto dalla società ed erogato in data 14 novembre 2006 per un importo assicurato di Euro 351.812,50 – importo in realtà non spettante in quanto la società, tramite l’emissione di documenti falsi, aveva posto in essere una frode in danno dell’erario – sia nel fatto che i rilievi emergenti dall’avviso (emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti) erano stati oggetto di segnalazione alla Procura della Repubblica.

In realtà, contrariamente a quanto dedotto dalla società ricorrente, il pericolo derivante dal richiesto rimborso dell’I.V.A. e dal fatto che la società, come emergeva dal verbale di verifica, aveva emesso fatture per operazioni inesistenti integrano valide ragioni d’urgenza atte a giustificare l’anticipazione della notifica degli atti impositivi in deroga al termine imposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 (Cass. 5 febbraio 2014, n. 2587; Cass. 7 settembre 2018, n. 21815), considerata, peraltro, la supposta partecipazione della società ad una frode in danno dell’Erario; non avendo, peraltro, la contribuente negato che quelle ragioni d’urgenza fossero riferibili alla stessa ed al rapporto tributario di cui si discute, neppure il ragionamento dei giudici di appello risulta carente sotto il profilo motivazionale.

4. Con il terzo motivo, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, per avere i giudici di secondo grado ritenuto che gli avvisi di accertamento impugnati fossero sufficientemente motivati e che non fosse necessario allegare agli stessi le copie dei documenti richiamati nel processo verbale di constatazione.

Precisa, al riguardo, che aveva fatto presente nel giudizio di merito che l’avviso di accertamento faceva riferimento, nella parte motiva, alle risultanze della verifica condotta nei confronti di soggetti terzi, nonchè alla richiesta prot. n. 94597/09 del 23 luglio 2009 inviata alla Direzione della S.I.A.E. di Roma e alla risposta prot. n. 30116 del 29 luglio 2009, ma che non era stata posta a conoscenza, mediante allegazione all’accertamento, delle risultanze di tale verifica; i giudici di merito avevano ritenuto infondata l’eccezione mossa, rilevando semplicemente che il contenuto della risposta pervenuta dalla S.I.A.E. era stato richiamato a pag. 6 del processo verbale di constatazione e, successivamente, ripreso nell’avviso di accertamento e che, comunque, le informazioni trasmesse dalla S.I.A.E. non costituivano l’unico elemento che rivelava la frode, ma si aggiungeva a tutte le altre evidenze esposte nel processo verbale di constatazione.

4.1. Questa Corte è ferma nel ritenere che “nel regime introdotto dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, l’obbligo di motivazione degli atti tributari può essere adempiuto anche per relationem, ovverosia mediante il riferimento ad elementi di fatto risultanti da altri atti o documenti, a condizione che questi ultimi siano allegati all’atto notificato ovvero che lo stesso ne riproduca il contenuto essenziale, per tale dovendosi intendere l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatari) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente – e al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento” (Cass. n. 6914 del 25/3/2011; Cass. n. 13110 del 25/7/2012; Cass. n. 9032 del 15/4/2013; Cass. n. 9323 del 11/4/2017; Cass. n. 21066 del 11/9/2017).

4.2. L’avviso di accertamento deve, pertanto, ritenersi correttamente motivato – anche nel regime di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7 – ove esso faccia riferimento ad un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza regolarmente notificato o consegnato all’intimato, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria non è affatto tenuta ad includere nell’avviso di accertamento notizia delle prove poste a fondamento del verificarsi di taluni fatti, nè a riportarne, sia pure sinteticamente, il contenuto (Cass. n. 6232 del 18/4/2003; Cass. n. 7360 del 31/3/2011).

4.3. Questa Corte non ignora che, secondo un orientamento giurisprudenziale di segno maggiormente restrittivo (Cass. 17 ottobre 2014, n. 22003), la motivazione dell’avviso di accertamento assolve ad una pluralità di funzioni, che garantisce il diritto di difesa del contribuente, delimitando l’ambito delle ragioni deducibili dall’ufficio nella successiva fase processuale contenziosa, per cui, sebbene vada escluso ogni formalismo nell’indicazione delle norme di diritto violate, quando sono chiaramente desumibili, e di tutti gli elementi di prova, eventualmente integrabili in sede di giudizio purchè siano stati indicati gli elementi di fatto e istruttori del procedimento, è comunque necessaria la presenza nell’avviso di accertamento e di rettifica degli elementi identificativi del petitum e della causa petendi e, quindi, una chiara ricostruzione di tutti gli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, in modo da rispettare, da un lato, il principio costituzionale di buona amministrazione e, dall’altro, di consentire una adeguata e piena difesa in giudizio (Cass. 21 novembre 2018, n. 30039).

4.4. Deve, tuttavia, rilevarsi, come evidenziato dai giudici di merito e come emerge dalla lettura degli atti impositivi – ritrascritti nel ricorso per cassazione – che, nel caso concreto, la contribuente ha avuto piena contezza del processo verbale di constatazione, su cui si fonda l’atto impositivo, nel quale sono indicati i rilievi mossi dai verificatori e, quindi, degli elementi identificativi da cui è poi scaturita la pretesa fiscale di cui si discute in questa sede.

4.5. Quanto alla dedotta omessa allegazione agli atti impositivi degli atti in essi richiamati, occorre ribadire che in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 3: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto. Pertanto, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta che il contribuente dimostri l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui l’atto impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (Cass. n. 26683 del 18/12/2009; Cass. n. 22118 del 29/10/2010; Cass. n. 7654 del 16/5/2012; Cass. n. 24417 del 5/10/2018).

4.6. Nella specie, dalla motivazione degli avvisi di accertamento si evince che essi richiamano espressamente il contenuto del processo verbale di constatazione redatto all’esito della verifica effettuata nei confronti della società, riportando gli esiti di tale verifica ed i rilievi che ne sono conseguiti, ossia tutti gli elementi necessari ai fini di una adeguata motivazione dell’atto impositivo e della sua piena comprensibilità per il contribuente ai fini dell’impugnazione, nonchè il contenuto della nota trasmessa dalla S.I.A.E. Direzione Generale di Roma a seguito di richiesta dell’Ufficio.

Di conseguenza, in difetto di prova, non offerta dalla società contribuente, che il contenuto degli altri atti richiamati dagli avvisi di accertamento fosse necessario ad integrare la motivazione degli atti impositivi emessi a suo carico, deve ritenersi che ogni ulteriore allegazione avrebbe potuto essere utilizzata dall’Ufficio eventualmente ai fini probatori, ma non ai fini motivazionali, in relazione ai quali l’onere risulta pienamente assolto.

La sentenza impugnata va dunque esente, sotto tale profilo, dalle censure ad essa rivolte.

5. Con il quarto motivo, le parti ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., assumendo che il giudice di appello, in violazione dei criteri di ripartizione in materia di onere della prova, ha ritenuto assolto, da parte dell’Agenzia delle Entrate, l’onere sulla stessa incombente di dimostrare l’inesistenza delle operazioni recuperate ad imposizione, e ciò non sulla base degli elementi conoscitivi forniti in giudizio dall’Ufficio, ma sulla base di una pretesa “decisività” della nota della Direzione Generale della S.I.A.E. di Roma, di per sè inadeguata a comprovare l’inesistenza delle operazioni descritte nelle fatture ritenute fittizie, nonchè sulla base di irregolarità rilevate in capo a soggetti terzi, con conseguente inversione dell’onere della prova a carico delle parti contribuenti.

Evidenzia che, in replica alle contestazioni dell’Agenzia delle Entrate, nel giudizio di merito aveva sottolineato che le informazioni fornite dalla S.I.A.E. di Roma non riguardavano la propria posizione, ma piuttosto quella delle società e ditte individuali oggetto dei controlli incrociati, ed aveva, altresì, prodotto, a dimostrazione dell’effettività delle prestazioni passive fatturate, la risposta fornita dalla S.I.A.E. di Bari, dalla quale risultava l’effettivo svolgimento, da parte sua, dell’attività ed il regolare adempimento di tutte le incombenze previste dalla normativa sugli spettacoli, nonchè i contratti per le prestazioni artistiche, i permessi per spettacoli ed intrattenimenti rilasciati dalla S.I.A.E., le distinte di incasso relative ai concerti, ossia tutta la documentazione che comprovava la realizzazione degli spettacoli oggetto di fatturazione.

Contesta, quindi, alla Commissione regionale di avere negato validità probatoria a detta documentazione e di avere posto a fondamento della decisione, da un lato, la certificazione della S.I.A.E. di Roma, ritenuta decisiva a dimostrare l’inesistenza oggettiva delle prestazioni e, dall’altro, le circostanze rilevate dall’Ufficio in merito alle irregolarità fiscali ed all’assenza di una struttura imprenditoriale dei fornitori.

5.1. Anche tale censura è infondata.

5.2. Questa Corte ha reiteratamente ribadito che la violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, ossia attribuendo l’onus probandi ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni, ma non quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 21 febbraio 2018, n. 4241; Cass. 23 ottobre 2018, n. 26769).

Nella fattispecie in esame, la Commissione regionale ha fatto corretta applicazione dei criteri che governano l’onere della prova in materia di operazioni oggettivamente inesistenti, avendo dato atto a pag. 8 della motivazione che la prova dell’inesistenza fiscale dei rapporti commerciali in contestazione, spettante all’Amministrazione finanziaria, era stata pienamente fornita ed ha al contempo escluso che le evidenze probatorie offerte dall’Ufficio potessero essere scalfite dalla documentazione proveniente dalla contribuente.

Così argomentando, il giudice di merito non ha operato una indebita inversione di tale onere, trasferendolo sulla contribuente, ma ha piuttosto ritenuto che lo stesso fosse stato pienamente assolto dall’Ufficio all’esito della valutazione complessiva delle prove acquisite.

Ovviamente l’eventualità che la valutazione delle risultanze istruttorie sia stata incongrua e che il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata avesse assolto l’onus probandi non integrerebbe violazione dell’art. 2697 c.c., ma piuttosto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente nei limiti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

6. Con il quinto motivo, i ricorrenti censurano la decisione impugnata per insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo del giudizio, e precisamente sul fatto che i concerti e le attività di spettacolo, a fronte dei quali sono state emesse le fatture ritenute fittizie dall’Ufficio, perchè relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, sarebbero stati effettivamente realizzati, e sostengono che i giudici di appello hanno omesso di considerare, in relazione a quel fatto controverso, gli elementi documentali richiamati e prodotti in giudizio dalla società contribuente.

Ribadiscono che la copiosa documentazione prodotta nel giudizio di merito, che si riferiva proprio alle fatture ritenute fittizie, offriva un evidente riscontro della circostanza che la società contribuente aveva effettivamente organizzato i concerti e che, pertanto, aveva dovuto necessariamente fornirsi dei servizi (personale e attrezzature) delle altre ditte, non disponendone in proprio; i giudici di secondo grado, tuttavia, aderendo acriticamente alle argomentazioni dell’Ufficio, avevano attribuito rilevanza decisiva alla certificazione della S.I.A.E. di Roma, ed in particolare alle irregolarità da questa evidenziate in capo ad altri soggetti, tralasciando di valutare la documentazione allegata dalla società che dimostrava il sostenimento dei costi ritenuti fittizi dall’Ufficio.

7. Con il sesto motivo lamentano che la motivazione della decisione impugnata è contraddittoria perchè i giudici di appello hanno ritenuto corretto il recupero effettuato dall’ufficio finanziario dei costi relativi a tali servizi e della corrispondente I.V.A., a volte ritenendo sussistente l’inesistenza oggettiva delle operazioni e, altre volte, basando la propria pronuncia su una inesistenza soggettiva delle medesime, non consentendo in tal modo l’individuazione della ratio decidendi su cui hanno fondato il proprio convincimento.

8. Il quinto ed il sesto motivo appena illustrati, che possono essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili nella loro interezza in quanto attengono a profili di fatto e chiedono una rivalutazione delle risultanze istruttorie al fine di ottenere da questa Corte un nuovo giudizio di merito in contrapposizione a quello motivatamente formulato dai giudici regionali.

Questi ultimi hanno ritenuto che la società contribuente fosse coinvolta nella frode, unitamente alle altre ditte sottoposte a verifica, considerato che: a) aveva registrato nella propria contabilità documenti fiscali emessi dalle società Show & Business s.r.l., Star Sistem s.a.s., Euro Entertainment s.a.s. e Management & Service s.a.s. di I.V. & C. e Management & Service di I.V., sebbene le prime quattro società, secondo quanto certificato dalla S.I.A.E., non avessero mai svolto attività, mentre l’ultima, pur avendo presentato la dichiarazione fiscale per l’anno 2005, non aveva dichiarato alcun reddito d’impresa, nè volume d’affari ai fini I.V.A.; b) nelle contabilità della Management & Service s.a.s. di I.V. e della ditta individuale Management & Service di I.V. le fatture non risultavano annotate; c) le prestazioni fatturate concernevano diritti di prevendita, allestimento palchi, nolo gruppo elettrogeno, trasporti, facchinaggio, servizio hostess, servizi per il cui espletamento era richiesta una struttura di impresa, dotata di beni strumentali e di personale dipendente specializzato, ma le ditte che avevano emesso le fatture non potevano averle eseguite perchè del tutto sprovviste dei mezzi necessari per effettuarle; d) la contribuente aveva a sua volta emesso n. 14 fatture attive nei confronti della Show & Business s.r.l., ma quest’ultima non aveva mai svolto attività d’intrattenimento e non possedeva beni strumentali o strutture necessarie per l’esercizio dell’attività d’impresa; di dette fatture non vi era traccia nella contabilità della società ricevente; e) la società contribuente aveva emesso n. 8 fatture nei confronti della Management & Service s.r.l., ma nella contabilità di quest’ultima dette fatture non risultavano registrate; f) la Delta Concerti s.r.l. aveva emesso altrettante note di variazione ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 26.

I giudici di merito, pertanto, nel riformare la sentenza dei primi giudici, sul rilievo che dovesse ritenersi debitamente provata la pretesa fiscale in ragione dei numerosi elementi indiziari offerti dall’Ufficio – costituenti presunzioni gravi, precise e concordanti – a fronte dei quali non si contrapponeva una adeguata prova contraria, hanno chiaramente affermato che nella fattispecie in esame si è in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti, ossia di prestazioni mai realmente effettuate ed hanno, conseguentemente, disconosciuto la deducibilità dei costi e la detraibilità dell’I.V.A.

L’apprezzamento delle prove svolto dalla Commissione regionale risulta, dunque, esaustivo ed immune da vizi logici e le contestazioni svolte dalle parti contribuenti in merito all’importanza attribuita dai giudici di appello alla nota della S.I.A.E. di Roma ed alla decisione dei giudici di appello di non considerare la documentazione allegata dalla contribuente idonea a superare gli elementi presuntivi allegati dall’Amministrazione non tengono conto che la valutazione delle prove è attività riservata al giudice di merito cui compete anche la scelta, tra le prove stesse, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass. 13/6/2014, n. 13485; Cass. 15/7/2009, n. 16499).

Va, peraltro, rilevato che il motivo di censura ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 deve contenere una indicazione, che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare nella esposizione chiara e sintetica del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria.

Le parti ricorrenti non hanno evidenziato i “fatti” in relazione ai quali la motivazione sarebbe omessa, insufficiente o contraddittoria, nè tanto meno risulta esplicitato il carattere decisivo dei medesimi fatti, dovendosi in proposito rilevare che per “fatto decisivo e controverso” deve intendersi un vero e proprio fatto, in senso storico e normativo, ossia un fatto principale ex art. 2697 c.c. (cioè un fatto costitutivo, modificativo, estintivo), o anche un fatto secondario, purchè controverso e decisivo, ma non una “questione” o un “punto” (Cass. n. 29883 del 13/12/2017).

Inoltre, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e di dare prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge.

Ne discende che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass. n. 19547 del 4/8/2017).

Nella specie, con i mezzi di cui si discute non si individuano specificamente fatti storici decisivi il cui esame da parte della Commissione regionale sarebbe stato insufficiente, ma si tende piuttosto a riproporre gli stessi elementi fattuali, tenuti presenti dal giudice regionale, al fine di una diversa ricostruzione in fatto rispetto a quella operata dalla Commissione tributaria regionale, e si denuncia la mancata motivazione in ordine ad argomentazioni esposte nel giudizio di appello, non considerando che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, non è necessario che la motivazione prenda in esame, al fine di confutarle o di condividerle, tutte le deduzioni difensive svolte dalle parti, essendo sufficiente che indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenersi implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 12121 del 2/7/2004).

9. Con il settimo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, in quanto i giudici di secondo grado hanno ritenuto indeducibili i costi per servizi di allestimento, montaggio e smontaggio palchi, facchinaggio, hostess, prevendita biglietti, resi dai fornitori alla società contribuente in occasione di concerti e spettacoli dalla stessa organizzati, e ciò sulla base del presupposto che manca un “legittimo rapporto contrattuale” sottostante alle fatture emesse e che per l’esecuzione delle prestazioni sarebbero state adoperate “attrezzature in nero”, non garantendo in tal modo, le fatture emesse, la liceità della spesa.

Tali affermazioni, ad avviso dei ricorrenti, contrastano con la documentazione prodotta dalla società – in particolare, le distinte di incasso, le comunicazioni, i permessi e i contratti di gestione delle prevendite, ottenuti dalla S.I.A.E., relativi ad ogni spettacolo realizzato, di cui alle fatture contestate, nonchè tutti i contratti stipulati con gli artisti – sulla base della quale non si poteva non concludere per l’evidente realizzazione dei concerti e degli spettacoli cui si riferivano proprio le fatture emesse dalle ditte fornitrici, ritenute fittizie dall’Ufficio, ed evidenziano che lo stesso giudice di appello abbia implicitamente escluso l’oggettiva inesistenza delle prestazioni in oggetto, riconoscendo il sostenimento dei costi, ma ritenendoli indeducibili, non per mancanza di certezza del rapporto o per difetto di inerenza, ma per carenza della “liceità della spesa”, con conseguente violazione dell’art. 109 del t.u.i.r., che prevede la deducibilità dei costi, se certi e inerenti, nulla disponendo in merito alla “liceità” degli stessi.

9.1. Il motivo è infondato.

9.2. La Commissione regionale, esaminando la assunta violazione dell’art. 109 del t.u.i.r., ha così motivato: “…il principio (già enunciato in ordine alla detraibilità dell’I.V.A.) della necessaria presenza del nesso funzionale tra costo sostenuto e vita dell’impresa, cioè il “…rapporto tra un costo e lo svolgimento della specifica attività, che costituisce la ragion d’essere stessa dell’impresa…”, va rispettato dalla società Delta Concerti s.r.l., come da qualunque altro imprenditore che intenda ottenere il riconoscimento della deducibilità dei costi sostenuti. In mancanza di tale nesso viene meno il requisito, imposto dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, della certezza ed inerenza del costo e quindi non è possibile ammettere la deduzione del costo risultato fittiziamente documentato. Infatti, tutte le fatture fiscali presuppongono l’esistenza di un legittimo rapporto contrattuale sottostante certo ed incontrovertibile, per cui, ove difetti il requisito della certezza del rapporto o peggio risulti – così come testualmente afferma nella sentenza appellata il giudice provinciale essere avvenuto nel caso di specie – che, per le prestazioni rese, sono state adoperate attrezzature e/o personale in nero, la fattura conseguentemente emessa, non possedendo le caratteristiche previste dalla norma, non garantisce la liceità della spesa e, così come non consente la detrazione dell’I.V.A., non consente neppure la detrazione del costo fatturato ai fini IRES e IRAP…. In conclusione il pezzo di carta-fattura di per sè non è idoneo e suscettibile di produrre reddito o ricavo nell’attività d’impresa, lo è invece il lavoro, consistente nella lecita cessione di beni e/o nella legittima prestazione di servizi”.

9.3. Con tali argomentazioni i giudici d’appello, uniformandosi alla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, hanno ribadito che, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti – come nel caso di specie – la derivazione dei costi da una attività che è espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell’attività dell’impresa comporta il venir meno dell’indefettibile requisito dell’inerenza tra i costi medesimi e l’attività imprenditoriale, inerenza che è onere del contribuente provare, al pari dell’effettiva sussistenza e del preciso ammontare dei costi medesimi (Cass. n. 23626 del 11/11/2011; Cass. n. 23550 del 5/11/2014).

Infatti, laddove l’Ufficio, come ritenuto dalla Commissione regionale, abbia provato che la fattura concerne operazioni oggettivamente inesistenti, per mancanza del rapporto sottostante, ossia sia mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, provando che la società emittente la fattura è una “cartiera”, priva di struttura e di mezzi per l’esecuzione della prestazione annotata sulla fattura, passa sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.

Tale ultima prova non può, tuttavia, consistere nella esibizione della fattura, nè nella sola dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. n. 12802 del 10/6/2011; Cass. n. 24426 del 30/11/2013).

Nella sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale ha chiaramente esposto gli elementi di carattere presuntivo, consistenti nella mancanza di adeguate strutture operative in capo alle società emittenti le fatture contabilizzate e utilizzate dalla Delta Concerti s.r.l., da cui ha desunto la fittizietà delle operazioni, e ha considerato la documentazione di segno contraria fornita (lettere di conferme, permessi di spettacolo, distinte di incasso, proveniente dalla sede territoriale di Bari della S.I.A.E.) non riferibile alle ditte che, secondo l’assunto difensivo della contribuente, avrebbero fornito le prestazioni necessarie per organizzare concerti e spettacoli, e, quindi, come tale, inidonea a provare la certezza ed inerenza delle prestazioni oggetto di contestazione; accertata l’inesistenza del rapporto sottostante e l’assenza di inerenza tra il costo e l’attività d’impresa, ha poi correttamente escluso la deducubilità dei costi dal reddito imponibile, rispettando il disposto dell’art. 109 del t.u.i.r., a nulla rilevando il riferimento alla “liceità” della spesa, che viene richiamata al solo fine di sottolineare che, anche laddove si volesse ritenere, come sostenuto dai giudici di primo grado, che le prestazioni in contestazione sono state rese adoperando attrezzature e personale in nero, tale circostanza non consentirebbe comunque la deduzione dei costi ai fini delle imposte dirette, nè la detraibilità ai fini dell’I.V.A.

10. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza per insufficiente motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio, nella parte in cui i giudici di appello, con riguardo alle note di credito ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 26, emesse a storno di fatture attive precedentemente rilasciate, hanno omesso di prendere in considerazione gli elementi documentali richiamati dalla società contribuente che evidenziavano che quelle note di credito trovavano giustificazione nella mancata realizzazione dei concerti inizialmente programmati e successivamente non realizzati.

10.1. La censura è infondata.

10.2. Come affermato da questa Corte, l’operazione di storno delle fatture con note di variazione dello stesso importo può ritenersi giuridicamente legittima unicamente nell’ipotesi in cui le operazioni oggetto delle fatture dette e delle successive note siano effettive e non pure nel caso di operazioni materialmente del tutto inesistenti, perchè l’inesistenza dell’operazione vieta l’utilizzazione del meccanismo dell’emissione di una nota di credito perchè lo stesso è consentito (e quindi, utilizzabile) solo per rimediare ad una operazione effettiva e reale (Cass. n. 12168 del 26/5/2009, in motivazione; Cass. n. 12353 del 10/6/2005 e 24231 del 18/11/2011; Cass. n. 10939 del 27/5/2015, che ammette la possibilità di correggere o annullare, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 26, la fattura erroneamente emessa, anche per operazioni inesistenti, purchè venga tempestivamente ritirata dal destinatario senza che questi ne abbia fatto uso fiscale (annotandola nei registri acquisti o in altre scritture contabili destinate ad evidenziare il diritto alla detrazione); Cass. n. 10083 del 21/4/2017; Cass. n. 20337 del 26/7/2019).

10.3. La Commissione regionale, con motivazione adeguata ed esaustiva, rilevando che, nel caso di specie, come emergeva dalla stessa documentazione prodotta dalla contribuente e richiamata in ricorso, la Delta Concerti s.r.l. aveva dapprima emesso una fattura per operazione oggettivamente inesistente (ossia per un concerto o uno spettacolo che non sarebbe stato mai organizzato) e, successivamente, aveva fatto ricorso alla nota di variazione ex art. 26 citato, che si riferiva ad una prestazione mai realizzata, allo scopo di ottenere dall’Erario la detrazione d’imposta, ha inteso sottolineare l’insussistenza dei presupposti per l’utilizzo della speciale procedura di variazione prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, richiamato art. 26, che richiede che l’operazione per la quale sia stata emessa la fattura, da rettificare perchè venuta meno, sia una operazione vera e reale, e non del tutto inesistente.

11. Con il nono motivo i ricorrenti denunciano nullità della sentenza per violazione dell’art. 53 della Cost., per avere i giudici regionali ritenuto corretto l’operato dell’Ufficio che ha considerato, ai fini della determinazione del reddito accertato, i ricavi corripondenti ai costi oggettivamente inesistenti, così violando il principio di capacità contributiva.

12. Con il decimo motivo censurano la sentenza per violazione e falsa applicazione dello ius superveniens di cui al combinato disposto del D.L. n. 16 del 2002, art. 8, commi 2 e 3, convertito dalla L. n. 44 del 2012, sottolineando che in forza della disposizione normativa richiamata, applicabile alla fattispecie in esame in base al comma 3, anche per fatti o attività posti in essere prima della entrata in vigore della medesima disposizione, la pretesa impositiva risulta illegittima in quanto l’Amministrazione finanziaria, a fronte della rilevata indeducibilità dei costi, oggettivamente inesistenti, ha fatto concorrere alla determinazione reddituale per gli anni in contestazione i ricavi corrispondenti a detti costi, presumendo altresì che il maggior reddito della società accertato fosse stato distribuito ai soci della medesima.

Lamentano, pertanto, che sia l’Ufficio che il giudice a quo hanno ritenuto insufficiente la documentazione prodotta dalla società per dimostrare l’effettività dei ricavi conseguiti e correlativamente il sostenimento dei costi ritenuti fittizi dall’Amministrazione e, nonostante ciò, hanno fatto concorrere i medesimi ricavi alla determinazione del reddito d’impresa della stessa società negli anni 2004 e 2005.

12.1. Il nono ed il decimo motivo che precedono, in quanto connessi, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

12.2. Deve in primo luogo rilevarsi che, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, anteriormente all’entrata in vigore del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito dalla L. n. 44 del 2012, sia in materia di accertamento dell’I.V.A., che delle imposte dei redditi, qualora l’Amministrazione, ritenendo fittizia – oggettivamente o soggettivamente – un’operazione di acquisto, ne avesse recuperato a tassazione i relativi costi, non avrebbe dovuto correlativamente ridurre i ricavi, non sussistendo alcun automatismo tra la ritenuta fittizietà dell’operazione e tale riduzione; l’Amministrazione non aveva pertanto l’obbligo di escludere, in proporzione, i ricavi esposti dallo stesso contribuente, nè era tenuta ad accertare la dichiarazione nella sua interezza, potendo limitarsi ad analizzare l’esistenza dei costi dichiarati (Cass. n. 17729 del 30/7/2009; Cass. n. 3267 del 2/3/2012).

Il D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 2, come convertito nella L. n. 44 del 2012, costituente ius superveniens, applicabile alla presente controversia in forza del successivo comma 3, ha stabilito, con riguardo alle operazioni oggettivamente inesistenti, che i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese (Cass. n. 27040 del 19/12/2014; Cass. n. 25967 del 20/11/2013; Cass. n. 7896 del 20/4/2016).

In siffatte ipotesi grava pertanto sul contribuente l’onere di provare che i componenti positivi, che si duole abbiano nell’accertamento concorso alla formazione del reddito, siano anch’essi fittizi, perchè ricavi “correlati”, ossia direttamente afferenti a spese o ad altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati (Cass. 25967/13 cit.).

Nel caso in esame, le parti ricorrenti hanno contestato gli elementi presuntivi acquisiti dall’Ufficio, che hanno consentito di dedurre che la società avesse contabilizzato operazioni mai compiute – elementi che sono stati poi recepiti e posti dai giudici di appello a fondamento del decisum – tanto che in sede di giudizio di merito hanno sempre dedotto di avere ampiamente dimostrato l’effettiva realizzazione dei concerti e degli spettacoli sottesi alle fatture di cui è stata accertata la fittizietà, e, pertanto, non può ritenersi che abbiano offerto prova della fittizietà dei relativi ricavi conseguiti, cosicchè deve escludersi la violazione sia della norma costituzionale richiamata (art. 53 Cost.), che garantisce la corretta corrispondenza dell’imposta all’imponibile effettivo, sia dello ius superveniens invocato.

13. Con l’undicesimo motivo i contribuenti censurano la decisione impugnata per violazione dello ius superveniens di cui al combinato disposto del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, commi 1 e 3, convertito nella L. n. 44 del 2012.

Sostengono che in forza di tale disposizione, applicabile al caso in esame in base al comma 3 della medesima disposizione, risulta illegittima la pretesa impositiva, avendo l’Amministrazione, ancor prima che venisse esercitata l’azione penale, ritenuto l’indeducibilità dei costi, che, come emerso dal giudizio, vanno qualificati “soggettivamente inesistenti”, considerato che la società ha effettivamente ricevuto le prestazioni documentate dalle fatture oggetto di contestazione.

13.1. Il motivo è infondato.

13.2. Come già evidenziato al p. 8.), i giudici di appello hanno accertato, all’esito della valutazione degli elementi indiziari acquisiti, che le operazioni cui si riferiscono le fatture passive contabilizzate dalla Delta Concerti s.r.l. attengono ad operazioni oggettivamente inesistenti, avendo chiaramente posto in rilievo che i servizi che la contribuente assume di avere ricevuto dalle altre ditte coinvolte nella frode non sono stati da queste ultime mai posti in essere.

Non avendo l’Amministrazione contestato che la fatturazione attiene ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, cioè che le fatture siano state emesse da soggetti diversi da quelli che hanno effettuato la cessione o la prestazione in esse rappresentate e delle quali il cessionario è stato realmente destinatario, non può invocarsi l’applicazione del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito dalla L. n. 44 del 2012 (che stabilisce che “non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale”), trattandosi di disposizione normativa che trova applicazione solo in ordine alle operazioni soggettivamente inesistenti (Cass. n. 10167 del 20/6/2012; Cass. n. 24426 del 30/10/2013).

14. Con il dodicesimo motivo i ricorrenti denunciano violazione dello ius superveniens di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 7, come sostituito dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 93, comma 1.

Premettendo che la disposizione normativa richiamata in rubrica, al fine di salvaguardare il principio di neutralità dell’I.V.A., ha introdotto la possibilità per il cessionario/committente che sia destinatario di un avviso di accertamento, di detrarre la maggiore imposta pagata dal cedente i beni o le prestazioni, che abbia emesso il relativo documento fiscale (ossia la fattura), assumono che nel caso di specie l’avvenuto pagamento del tributo da parte delle società emittenti le fatture ritenute fittizie non ha mai costituito oggetto di contestazione da parte dell’Ufficio e che, conseguentemente, deve ritenersi consentita la detrazione dell’I.V.A. già corrisposta dal cedente.

La censura è infondata.

Il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 7, come modificato dal D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 93, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 27, prevede che “il contribuente ha diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari dei beni o dei committenti dei servizi soltanto a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi. In tal caso, il cessionario o il committente può esercitare il diritto alla detrazione, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui ha corrisposto l’imposta o la maggiore imposta addebitata in via di rivalsa ed alle condizioni esistenti al momento di effettuazione della originaria operazione”.

La detrazione prevista dalla suddetta norma, quindi, presuppone: a) l’accertamento della maggiore imposta a carico del cedente o del prestatore b) il pagamento da parte di questi ultimi dell’imposta accertata, delle sanzioni e degli interessi c) la successiva rivalsa da parte del cedente o prestatore nei confronti del cessionario d) il successivo pagamento dell’imposta addebitata al cessionario in via di rivalsa.

Lo ius superveniens non può trovare applicazione nella fattispecie in esame, in quanto la ricostruzione dei fatti emergente dalla sentenza impugnata non consente di ritenere sussistenti i presupposti richiesti per la operatività della norma, che non può prescindere dalla definizione dell’accertamento e dal pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, delle sanzioni e degli interessi da parte del cedente o del prestatore.

15. Con il tredicesimo motivo denunciano omessa motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio costituito dalla dedotta nullità degli avvisi di accertamento emessi a carico dei soci per difetto di motivazione.

Precisano che i giudici di appello, limitandosi ad affermare che “…Per quanto concerne le eccezioni sollevate dai soci non sussiste vizio di motivazione dei relativi accertamenti… in quanto trattasi di avvisi di accertamento emessi nei confronti di soci di una società di capitali a ristrettissima base sociale…”, non esplicitano il percorso argomentativo svolto al fine di ritenere infondata la dedotta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e che in ogni caso l’obbligo motivazionale non poteva ritenersi assolto mediante il mero richiamo alla motivazione dell’accertamento notificato alla società.

15.1. La censura è infondata.

15.2. Occorre premettere che secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi del tutto irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice di merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di Cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata, nonchè dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione, anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione adottata, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. Sez. U, n. 2731 del 2/2/2017).

15.3. Essendo incontestato che l’avviso di accertamento notificato ai soci richiamava il contenuto di quello emesso nei confronti della società, la doglianza fatta valere dai soci non può essere accolta, costituendo principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui, in tema di imposte sui redditi, l’obbligo di motivazione degli atti tributari, come disciplinato dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 e dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, è soddisfatto dall’avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii per relationem a quello riguardante i redditi della società, ancorchè solo a quest’ultima notificato, giacchè il socio, ex art. 2261 c.c., ha il potere di consultare la documentazione relativa alla società e, quindi, di prendere visione dell’accertamento presupposto e dei suoi documenti giustificativi (Cass., Sez. 6 – 5, ord. n. 14275 del 04/06/2018; Cass. n. 17463 del 28/6/2019).

Ne consegue che la motivazione della decisione impugnata, sebbene lacunosa, è conforme a diritto, non potendo la questione essere risolta nel senso preteso dai ricorrenti, per cui la motivazione può essere integrata con le ragioni sopra evidenziate.

16. Con il quattordicesimo motivo i ricorrenti censurano la sentenza per omessa motivazione su fatto controverso e decisivo, eccepito dai soci della Delta Concerti s.r.l., costituito dalla nullità degli avvisi di accertamento perchè emessi in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 116, che prevede l’imputazione del reddito imponibile della società a ciascun socio, indipendentemente dall’effettiva percezione, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, solo in caso di esercizio, da parte di questi, dell’opzione per la trasparenza fiscale, opzione a cui i soci non avevano aderito negli anni in contestazione.

Lamentano che nella sentenza gravata non vengono riportate le contestazioni formulate circa la violazione dell’art. 116 del t.u.i.r. e che l’unica argomentazione dei giudici di appello, posta a sostegno della insussistenza della violazione, si basa sul richiamo di una sentenza della Corte di Cassazione del tutto inconferente, vertente in tema di onere della prova in ipotesi di società a ristretta base partecipativa.

Essendo venuto meno, a decorrere dall’anno d’imposta 2004, il previgente istituto del credito d’imposta sugli utili distribuiti dalle società di capitali, ad avviso dei ricorrenti, la tassazione in capo ai soci del reddito prodotto dalla medesima era subordinata all’opzione, da parte di questi, per il regime di trasparenza previsto dagli artt. 115 e 116 del t.u.i.r.; pertanto, il prelievo poteva colpire direttamente il socio solo in caso di esercizio da parte di questo dell’opzione in oggetto, che, nel caso di specie, non era stato esercitato.

16.1. La censura va disattesa.

16.2. La motivazione della decisione gravata, sebbene insufficiente sul punto, risulta conforme a diritto e, pertanto, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, può essere integrata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., nel modo che segue.

L’Amministrazione finanziaria non ha proceduto al recupero fiscale in capo ai soci di redditi di capitali derivanti dalla distribuzione degli utili sociali, in relazione ai quali, ai sensi dell’art. 116 del t.u.i.r., è previsto il regime di imputazione per trasparenza, ma ha piuttosto presunto, in ragione della ristretta base azionaria della società, che il maggior reddito accertato in capo alla società, da considerarsi utile extrabilancio, sia stato distribuito ai soci in proporzione alle quote di partecipazione al capitale sociale.

Non rileva, pertanto, che i soci non abbiano optato per il regime della trasparenza fiscale, poichè in materia di imposte sui redditi, nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale, in difetto di prova contraria, da parte dei soci, che i maggiori ricavi della società sono stati accantonati o reinvestiti, è ammissibile la presunzione di attribuzione ai soci di utili extracontabili, che non si pone in contrasto con il divieto di presunzione di secondo grado, in quanto il fatto noto non è dato dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società, bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario, che implica un vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci nella gestione sociale (Cass. Sez. 5, n. 15824 del 29/07/2016).

17. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 29.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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