Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 339 del 13/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 13/01/2021, (ud. 06/10/2020, dep. 13/01/2021), n.339

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19171-2015 proposto da:

ISTITUTO INSEGNANTI MADRI PIE, elettivamente domiciliato in ROMA,

PIAZZA DELLE CINQUE GIORNATE 2, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

MERLINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MASSIMO MERLINI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, DIREZIONE PROVINCIALE DI ALESSANDRIA, in

persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 128/2015 della COMM. TRIB. REG. di Unte111

depositata il 28/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/10/2020 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;

lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. GIOVANNI GIACALONE che ha chiesto il rigetto del

ricorso.

 

Fatto

RITENUTO

Che:

L’istituto Insegnanti Madri Pie, con sede in Ovada (AL), ricorre contro la sentenza della CTR del Piemonte che, riformando la sentenza della CTP di Alessandria, ha confermato l’avviso di accertamento relativo all’Ires per l’anno 2006, disconoscendo l’agevolazione di cui al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, relativa agli enti non commerciali, di beneficenza, assistenza, istruzione e cultura, in relazione al reddito derivante dalla proprietà di alcuni immobili.

Il ricorso è proposto sulla base di sette motivi.

Si costituisce l’Agenzia delle Entrate con controricorso.

Il ricorso viene trattato in accoglimento di istanza dell’ente ricorrente, che ha fatto presente come, a seguito dell’avviso di accertamento, sia stata emessa cartella per la riscossione degli importi in contestazione.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte. Il ricorrente ha depositato memoria del 20.9.2020.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e/o falsa applicazione della L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 7 (di ratifica ed esecuzione dell’accordo con protocollo addizionale firmato a Roma il 18.2.1984 che apporta modificazioni al Concordato Lateranense dell’11.2.1929 tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede) anche in relazione al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 e quindi degli artt. 7 – 10 Cost. della Repubblica e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3.

L’ente ricorrente è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. La CTR non ha tenuto conto del fatto che, secondo la L. n. 121 del 1985, art. 7, agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione e culto sono equiparati a quelli avente fine di beneficenza ed istruzione.

Con il secondo motivo deduce violazione e/o errata applicazione dell’art. 12 preleggi, di cui al R.D. 16 marzo 1942, n. 262 (preleggi), in relazione al D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 e alla L. n. 121 del 1985, art. 7 e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3.

La CTR ha dato un’interpretazione errata della norma agevolativa, non tenendo conto del fatto che gli enti ecclesiastici sono equiparati a quelli di beneficenza ed istruzione, per cui una semplice interpretazione letterale della norma avrebbe condotto a riconoscere l’agevolazione.

Con il terzo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3.

L’agevolazione in questione è di carattere soggettivo e si deve applicare ai soggetti che rientrano nella categoria da essa prevista.

Con il quarto motivo deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 20 Cost. e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3.

L’affermazione della CTR secondo cui la norma del 1985 avrebbe implicitamente abrogato la norma del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, è errata in sè e contrastante con l’art. 20 Cost. che prevede che il carattere ecclesiastico ed il fine di religione e di culto può essere motivo di trattamenti fiscali speciali.

Con il quinto motivo deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5. L’affermazione della CTR secondo cui il reddito dei fabbricati dell’ente in questione, ente ecclesiastico, deriva da attività non direttamente connessa al fine di religione o di culto è apodittica, perchè non motivata in alcun modo.

Con il sesto motivo deduce violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 8,25,37,55,143,144 e 149 TUIR e degli artt. 57 e 107TFUE.

La natura di ente non commerciale del contribuente non poteva far qualificare il reddito in maniera diversa

Con il settimo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 3, alla luce della sentenza della Corte Cost. 17 marzo 2015, n. 37 e conseguente vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3.

L’avviso di accertamento è nullo perchè firmato da dirigente non nominato per effetto di un pubblico concorso, come stabilito dalla suddetta sentenza.

I primi sei motivi si possono trattare congiuntamente, attenendo alla medesima questione sotto diverse prospettive.

Il principio che questa Corte ha affermato sul tema oggetto dei suddetti motivi si può riassumere in questa affermazione (sez. VI-5, ord. n. 25586 del 2016, ma anche sez. V, n. 22493 del 2013):

Al fine del riconoscimento del beneficio della riduzione alla metà dell’aliquota dell’IRPEG, ai sensi del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, lett. h), in favore degli enti equiparati a quelli di beneficenza o istruzione, non è sufficiente che essi siano sorti con tali enunciati fini, ma occorre altresì accertare, alla stregua del coordinamento con il D.P.R. n. 598 del 1973, artt. 1 e 2, che l’attività in concreto esercitata dagli stessi non abbia carattere commerciale, in via esclusiva o principale, ed inoltre, in presenza di un’attività commerciale di tipo non prevalente, che la stessa sia in rapporto di strumentalità diretta ed immediata con quei fini, e quindi, non si limiti a perseguire il procacciamento dei mezzi economici al riguardo occorrenti (dovendo altrimenti essere classificata come “attività diversa”, soggetta all’ordinaria tassazione).

E’ stato anche precisato (sempre sez. V, n. 22493 del 2013) “che anche i soggetti che non svolgono in via esclusiva o prevalente attività commerciale, ma sono identificati e qualificati in base al fine che istituzionalmente perseguono, hanno diritto all’agevolazione di cui al più volte richiamato art. 6, qualora l’attività commerciale sia in un rapporto di strumentalità diretta ed immediata con il fine stesso, con la conseguenza che non è tale un’attività volta al procacciamento di mezzi economici, quando, per l’intrinseca natura di esso o per la sua estraneità rispetto al fine (di religione o di culto), non sia con esso coerente in quanto indifferentemente utilizzabile per il perseguimento di qualsiasi altro fine; quando, cioè, si tratti di un’attività volta al procacciamento di mezzi economici da impiegare in un’ulteriore attività direttamente finalizzata, quest’ultima, al culto o alla religione.”(Cass. 1633/1995).

La sentenza impugnata si è, in sostanza, attenuta a questi principi, ed ha ritenuto che l’agevolazione non fosse concedibile nel caso concreto “risultando essere l’attività di gestione dell’immobile non direttamente connessa ai fini di religione o di culto”, escludendo, così, la ravvisabilità non solo del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, ma anche di quello di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, e dell’art. 360 c.p.c., n. 5, atteso che la sentenza è stata depositata nel 2015, e quindi quest’ultimo vizio è valutabile ai sensi della formulazione della norma successivamente alla riforma del 2012, per cui nella specie non si può ritenere che vi sia stato omesso esame del fatto decisivo (il fatto che il reddito in questione, da locazione degli immobili che vengono in rilievo nella specie, non rientrasse nell’attività di culto). La sentenza ha, infatti, seppur sinteticamente, affrontato l’argomento, evidenziando anche, nella parte narrativa, che alcuni immobili erano stati dati in locazione ad uso abitativo e commerciale, e per altri il canone di locazione ritratto era relativo alla installazione di un’antenna televisiva.

Poi, evidentemente l’affermazione della CTR, oggetto del quarto motivo sull’intervenuta abrogazione parziale del D.P.R. n. 601 è discutibile, ma, in realtà, è un’affermazione meramente ad abundantiam che quindi non è decisiva ai fini del giudizio.

Nè, con riferimento al sesto motivo, l’interpretazione in questione è in contrasto con il diritto dell’Unione, come evidenziato anche dal PG nelle conclusioni scritte, atteso che essa non contraddice il concetto di “impresa” da quest’ultimo enucleato. All’ente non viene attribuita la natura di imprenditore commerciale, ma si ritiene che sui redditi non direttamente riconducibili all’attività di culto l’agevolazione non si applichi.

Del resto, secondo la L. n. 121 del 1985, art. 7, comma 31, di attuazione del nuovo concordato del 1984, è vero che:

Agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficenza o di istruzione.

Ma la stessa norma prosegue affermando che:

Le attività diverse da quelle di religione o di culto, svolte dagli enti ecclesiastici, sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello Stato concernenti tali attività e al regime tributario previsto per le medesime.

Questo appare in linea con l’interpretazione fornita da questa Corte secondo cui l’agevolazione in questione non è meramente soggettiva, come sembrerebbe dedursi dal D.P.R. n. 601, art. 6, ma non può prescindere dal tipo di attività alla quale il reddito si riferisce.

Quanto al settimo motivo, lo stesso pone, in primo luogo, problemi di autosufficienza perchè, al di là della formulazione della questione in generale, che è nota, non evidenzia nel caso concreto come si manifesterebbe il vizio dello specifico avviso di accertamento.

In altri termini, avrebbe dovuto sollevare il problema in relazione allo specifico atto contestato, evidenziando, per esempio, chi lo aveva firmato e per quale motivo, alla luce di ciò, l’atto doveva ritenersi viziato.

Nulla di tutto ciò è stato dedotto, cosicchè non emerge il rilievo concreto nel motivo nel caso specifico. Era onere del ricorrente indicare perchè, nel caso specifico, l’atto doveva ritenersi viziato, alla luce delle caratteristiche specifiche e concrete dello stesso.

In ogni caso, questa Corte, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 37 del 2015, ha avuto modo di affermare sul tema (sez V n. 22810 del 2015) che colui che firma l’accertamento non deve essere necessariamente un “dirigente”, ma un appartenente alla “carriera direttiva”. Il concetto è stato ribadito ancora di recente da sez. V n. 5177 del 2020, secondo cui:

In tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva, cioè da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito dalla L. n. 44 del 2012.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente e, tenuto conto del valore della causa, si liquidano in Euro 3.000.

Si dà atto, poi, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.000.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021

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