Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33878 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 19/12/2019, (ud. 21/06/2018, dep. 19/12/2019), n.33878

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28472 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Sacchetti Maglierie s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Marco Turci e

Alessandro Fruscione, per procura speciale a margine del ricorso,

elettivamente domiciliata in Roma, via Giambattista Vico, n. 22,

presso lo studio dell’Avv. Alessandro Fruscione;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici ha domicilio in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, n. 116/23/12,

depositata il giorno 19 aprile 2012;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 giugno

2018 dal Consigliere Giancarlo Triscari.

Fatto

RILEVATO

che:

la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto e di diritto, che: l’Agenzia delle Dogane aveva notificato a Sacchetti Maglierie s.r.l. un avviso di rettifica dell’accertamento e di applicazione della sanzione con i quali si contestava la non applicabilità del regime della sospensione dell’Iva sull’importazione non avendo la contribuente introdotto la merce nel deposito fiscale; avverso i suddetti atti aveva proposto ricorso la società contribuente; la Commissione tributaria provinciale di Livorno aveva rigettato il ricorso; avverso la suddetta pronuncia aveva proposto appello la società contribuente;

la Commissione tributaria della Toscana, sezione staccata di Livorno, ha rigettato l’appello, avendo ritenuto che: era stata accertata la falsità ideologica della presa in carico e la mancata introduzione delle merce nel magazzino; era infondato il motivo di appello relativo alla duplicazione di imposta, non essendo l’autofatturazione strumento di pagamento dell’Iva, ma solo adempimento formale; la contribuente era stata messa nelle condizioni di conoscere le ragioni della pretesa, almeno nei suoi elementi essenziali; sussisteva la responsabilità solidale con il depositario, non essendo stata dimostrata la buona fede della contribuente; era applicabile la sanzione, non essendo stata assolta l’Iva sull’importazione;

la società contribuente ricorre con sette motivi per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, in epigrafe;

si è costituita l’Agenzia delle dogane, depositando controricorso;

in data 20 ottobre 2017 l’Agenzia delle dogane ha depositato copia del provvedimento di annullamento in autotutela prot. n. (OMISSIS) del 2/3/2017 ed ha chiesto dichiararsi la parziale cessazione della materia del contendere.

Diritto

RITENUTO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza di appello ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 50 bis, comma 4, lett. b), convertito dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, e del D.M. 20 ottobre 1997, n. 419; del D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 5 bis, converto dalla L. n. 2 del 2009, delle Dir.n. 77/388/CEE e Dir. n. 2006/112/CEE, per avere ritenuto che le disposizioni nazionali in materia di deposito fiscale ai fini Iva subordinano l’applicazione della sospensione dell’Iva sull’importazione all’effettiva introduzione della merce nel deposito fiscale;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione o falsa applicazione delle Dir. n. 77/388/CEE e Dir. n. 2006/112/CEE, del Reg. del Consiglio 25 maggio 1989, n. 1553 del 1989, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 1,17, 19, 23, 25, 60 e 67, e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 9 bis, per avere ritenuto che non poteva ritenersi assolta l’Iva sull’importazione mediante autofattura;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per non avere adeguatamente motivato circa l’avvenuto assolvimento dell’Iva;

con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), per violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, artt. 3, 9 e 10, della L. n. 212 del 2000, art. 7, del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, nonchè per insufficiente motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, per avere ritenuto che non sussisteva alcuna violazione delle norme sul procedimento amministrativo e per non avere motivato sulle specifiche censure prospettate in ordine alla violazione delle suddette norme;

con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 201 del regolamento CE 2913/92 (Codice doganale comunitario), per avere rigettato il motivo di appello con il quale si evidenziava l’estraneità della contribuente alla gestione del magazzino fiscale e della sua buona fede, atteso che ogni eventuale irregolarità nella gestione del magazzino fiscale non era da essa conoscibile nè ascrivibile a sua responsabilità, riguardando fatti relativi all’importazione ed al passaggio al varco doganale delle merci e prima che la stessa fosse consegnata;

con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 9 bis, e art. 13, e per insufficiente motivazione, per avere ritenuto applicabile la sanzione in assenza dei presupposti, non ricorrendone i requisiti oggettivi e soggettivi, avendo provveduto al pagamento dell’Iva mediante autofattura in regime di inversione contabile;

con il settimo motivo si censura la sentenza per non avere ritenuto sussistenti i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia e si è proposto, altresì, richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE, ai sensi del TFUE, art. 267, paragrafo 3, con riferimento all’interpretazione del regime dei depositi IVA e sugli effetti, anche in considerazione della neutralità dell’IVA, dell’assolvimento dell’imposta mediante autofattura;

1. Sulla parziale cessazione della materia del contendere.

Va preliminarmente dato atto del fatto che l’Agenzia delle dogane ha depositato, in data 20 ottobre 2017, il provvedimento di annullamento in autotutela prot. (OMISSIS) del 2/2/2017, relativo all’avviso di rettifica prot. n. (OMISSIS), oggetto del presente ricorso ed ha chiesto dichiararsi la parziale cessazione della materia del contendere, dovendo il giudizio proseguire unicamente per l’atto di irrogazione della sanzione prot. (OMISSIS);

in particolare, nel suddetto provvedimento di annullamento in autotutela si evidenzia che l’accertamento era legittimo e, di conseguenza, anche le sanzioni, essendo ravvisabile la violazione dell’obbligo di introduzione fisica delle merci nel deposito Iva e il ritardo nel versamento dell’Iva all’importazione, ma che occorreva, comunque, tenere conto del principio di intangibilità del giudicato nazionale e dei “rapporti esauriti” derivanti dai provvedimenti amministrativi divenuti definitivi per scadenza dei termini di impugnazione avuto riguardo agli altri soggetti coobbligati al pagamento degli importi;

il menzionato annullamento in autotutela della pretesa tributaria comporta sia la cessazione della materia del contendere in ordine al primo e secondo motivo di ricorso, limitatamente alla pretesa impositiva sostanziale, sia l’assorbimento della richiesta di rinvio pregiudiziale, di cui al settimo motivo;

2. Sulla legittimità delle sanzioni.

Vanno quindi esaminati il terzo, quarto, quinto e sesto motivo di ricorso, relativi alla diversa questione della legittimità della sanzione irrogata;

2.1 Sul sesto motivo di ricorso.

Per ragioni di ordine logico sistematico viene in primo luogo esaminato il sesto motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 9 bis, e art. 13, e per insufficiente motivazione, per avere ritenuto applicabile la sanzione in assenza dei presupposti, non ricorrendone i requisiti oggettivi e soggettivi, avendo provveduto al pagamento dell’Iva mediante autofattura in regime di inversione contabile;

il motivo è fondato, seppure nei limiti di quanto appresso precisati;

in punto di fatto risulta pacifico che la società ricorrente si è avvalsa in modo virtuale del deposito fiscale ai fini Iva della Franco Vago s.p.a., in relazione alla immissione in libera pratica di merci importate e risulta ancora incontroverso che l’Iva veniva successivamente assolta dalla società contribuente all’atto dell’estrazione della merce dal magazzino IVA in regime di reverse charge, con emissione di autofatture, avendo l’Agenzia unicamente contestato la rilevanza di tale meccanismo nella fattispecie (pag. 21 del controricorso);

in particolare, quanto agli interessi moratori ed alle sanzioni, va evidenziato che la CGUE, con la pronuncia del 17 luglio 2014, Equoland, in causa C-272/13, ha stabilito che “la sesta Dir., art. 16, paragrafo 1, deve essere interpretato nel senso che esso non osta a una normativa nazionale che subordini la concessione dell’esenzione dal pagamento dell’IVA all’importazione, prevista da tale normativa, alla condizione che le merci importate e destinate a un deposito fiscale ai fini dell’IVA siano fisicamente introdotte nel medesimo”;

la normativa italiana prevede appunto, per la sospensione d’imposta, l’introduzione fisica della merce nel deposito, come affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis n. 10911 del 2016; n. 17815 e da n. 15987 a n. 15995 del 2015) e come riconosciuto dalla citata sentenza della CGUE (“il legislatore italiano ha previsto che, al fine di poter beneficiare dell’esenzione dal pagamento dell’IVA all’importazione, il soggetto passivo abbia l’obbligo di introdurre fisicamente la merce importata nel deposito fiscale”);

tuttavia, come specificato nella medesima sentenza della CGUE, “la sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che, conformemente al principio di neutralità dell’IVA, essa osta ad una normativa nazionale in forza della quale uno Stato membro richiede il pagamento dell’IVA all’importazione sebbene la medesima sia già stata regolarizzata nell’ambito del meccanismo dell’inversione contabile, mediante un’autofatturazione e una registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo”;

nella specie, la Sacchetti Maglierie s.r.l. non ha introdotto la merce nel deposito ed ha provveduto all’autofatturazione;

ne segue che (sempre alla luce della predetta pronuncia della CGUE), la ricorrente è incorsa in una violazione, che ben può essere sanzionata, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l’autofatturazione con una specifica sanzione per il ritardo, non fissa (punti 41, 44 e 45), che può consistere anche nel computo degli interessi di mora (punti 46 e 48), purchè sia rispettato il principio di proporzionalità;

la pronuncia della Corte di giustizia sopra citata si è, altresì, occupata della questione della misura della sanzione che il legislatore interno può applicare nel caso in cui sussista comunque, come nel caso di specie, una violazione formale nell’applicazione della disciplina del regime di sospensione dell’Iva sull’importazione ove il deposito fiscale sia solo virtuale difettando l’immissione effettiva delle merci;

la sentenza Equoland, se da un lato ha affermato, come visto, che la violazione del sistema di versamento dell’IVA realizzata dall’importatore per effetto della immissione solo virtuale della merce integra una violazione formale che non può rimettere in discussione il diritto a detrazione del soggetto passivo, d’altro lato ha precisato che è certamente legittimo per uno Stato membro, al fine di garantire l’esatta riscossione dell’imposta sul valore aggiunto all’importazione e di evitare l’evasione, prevedere nella propria normativa nazionale sanzioni appropriate, volte a penalizzare il mancato rispetto dell’obbligo di introdurre fisicamente una merce importata nel deposito fiscale, ma siffatte sanzioni non devono tuttavia eccedere quanto necessario per conseguire tali obiettivi;

la Corte ha ritenuto che nel caso posto al suo vaglio la merce importata non era stata fisicamente introdotta nel deposito fiscale e che l’IVA era dovuta al momento dell’importazione sicchè il pagamento mediante il meccanismo dell’inversione contabile costituiva un adempimento tardivo di tale imposta sul valore aggiunto. Tale versamento tardivo, però, in mancanza di un tentativo di frode o di danno al bilancio dello Stato, era tale da integrare solo una violazione che non poteva rimettere in discussione il diritto a detrazione del soggetto passivo;

di conseguenza, in considerazione del ruolo preponderante che il diritto a detrazione occupa nel sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto, diretto a garantire la perfetta neutralità fiscale di tale imposta rispetto a tutte le attività economiche, poichè tale neutralità presuppone la facoltà per il soggetto passivo di detrarre l’imposta sul valore aggiunto dovuta o assolta nell’ambito di tutte le sue attività economiche, una sanzione consistente in un diniego del diritto a detrazione non è conforme alla sesta direttiva nel caso in cui non fossero accertati nessuna frode o danno per il bilancio dello Stato;

in questo ambito, la stessa Corte ha tuttavia precisato che, rispetto alla parte della sanzione consistente in una maggiorazione dell’imposta secondo una percentuale forfettaria (nel caso di specie il 30 per cento del tributo secondo quanto stabilito dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13), “… una siffatta modalità di determinazione dell’importo della sanzione – senza che sussista una possibilità di gradazione del medesimo – può eccedere quanto necessario per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare l’evasione (v., in tal senso, sentenza Redlihs, EU:C:2012:497, punti 45 e da 50 a 52)”, si è poi aggiunto che nel caso esaminato “…in considerazione dell’entità della percentuale fissata per la maggiorazione prevista dalla normativa nazionale e dell’impossibilità di adeguarla alle circostanze specifiche di ogni caso di specie, non è escluso che tale modalità di determinazione dell’importo della sanzione, e dunque la parte corrispondente della medesima, possa rivelarsi sproporzionata”;

in definitiva, secondo la Corte spetta unicamente al giudice del rinvio – “…la valutazione finale del carattere proporzionato della sanzione” e, ai fini del test di proporzionalità la stessa ha chiarito che la determinazione in misura fissa della sanzione potrebbe non rispettare il principio anzidetto, avuto riguardo alla natura “formale” della violazione e alla possibilità che il solo pagamento degli interessi moratori potrebbe costituire sanzione adeguata almeno per i casi in cui in cui non era finalizzato all’evasione – p.46 sent. Equoland: “…il versamento di interessi moratori può costituire una sanzione adeguata in caso di violazione di un obbligo formale, purchè non ecceda quanto necessario al conseguimento degli obiettivi perseguiti, consistenti nel garantire l’esatta riscossione dell’IVA e nell’evitare l’evasione…” e sempre che l’importo degli interessi moratori non corrisponda all’importo del tributo detraibile;

l’applicazione adeguata di sanzioni od interessi (nel senso precisato dalla CGUE) implica, però, un accertamento di fatto, non consentito in sede di giudizio di legittimità, in ordine a circostanze della fattispecie non risultanti dagli atti (in particolare, circa la durata del ritardo e circa le peculiarità degli elementi incidenti sulla determinazione della sanzione);

in relazione a quanto sopra esposto, se, da un lato è necessaria la effettiva introduzione della merce nel deposito fiscale, la mancata introduzione della merce nel deposito fiscale non comporta una perdita del beneficio di imposta, ove sia accertato che la ricorrente ha provveduto al pagamento, tardivo, dell’imposta mediante il meccanismo dell’inversione contabile, spettando, dunque, al giudice del rinvio verificare se l’autofatturazione dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce solo virtualmente inserita nel deposito IVA – con registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo – è idonea a determinare l’assolvimento, sia pur tardivo, dell’IVA all’importazione, secondo quanto prescritto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Equoland;

sotto tale profilo, va, precisato, non si pone alcuna ragione di investire nuovamente la Corte Europea di un’ulteriore richiesta di rinvio pregiudiziale, pure sollecitata dalla ricorrente, con il settimo motivo di ricorso;

tuttavia, con riferimento all’applicazione della sanzione, in considerazione di quanto ritenuto dalla Corte di giustizia, sopra riportato, la violazione cui comunque è incorsa la ricorrente ben può essere sanzionata, in relazione allo scarto temporale tra la dichiarazione e l’autofatturazione con una specifica sanzione per il ritardo, non fissa (punti 41, 44 e 45), che può consistere anche nel computo degli interessi di mora (punti 46 e 48), purchè sia rispettato il principio di proporzionalità;

il motivo in esame, dunque, non è fondato nella parte in cui postula che il pagamento mediante autofattura non consente l’applicazione adeguata di sanzioni od interessi (nel senso precisato dalla CGUE); tuttavia, lo stesso merita accoglimento nella parte in cui la sentenza ha statuito che la mancata introduzione della merce nel deposito fiscale comporta un accertamento concreto del fatto che la ricorrente ha provveduto al pagamento, tardivo, dell’imposta mediante il meccanismo dell’inversione contabile, spettando, dunque, al giudice del rinvio verificare se l’autofatturazione dell’IVA interna all’atto dell’estrazione della merce solo virtualmente inserita nel deposito IVA – con registrazione nel registro degli acquisti e delle vendite del soggetto passivo – è idonea a determinare l’assolvimento, sia pur tardivo, dell’IVA all’importazione, secondo quanto prescritto dalla Corte di Giustizia nella sentenza Equoland e applicare, eventualmente la sanzione proporzionata alla violazione accertata;

il giudice del rinvio dovrà procedere a un accertamento di fatto, non consentito in sede di giudizio di legittimità, in ordine a circostanze della fattispecie non risultanti dagli atti (in particolare, circa la durata del ritardo e circa le peculiarità degli elementi incidenti sulla determinazione della sanzione);

sul punto va disposta, pertanto, con la cassazione della sentenza impugnata, il rinvio al giudice di merito per la corretta determinazione delle sanzioni od interessi;

3. Sul terzo motivo di ricorso.

Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, per non avere tenuto conto che la sentenza di patteggiamento emessa dal tribunale penale di Firenze nei confronti di M.P. aveva espressamente riconosciuto che “l’Iva evasa in realtà è stata versata dall’importatore all’Agenzia delle entrate” e per avere ritenuto che “è differente la responsabilità in campo di illecito penale (modalità di lesione) da quella in illecito tributario (lesione)”;

il motivo è inammissibile;

parte ricorrente si limita a fare riferimento alla pronuncia della sentenza di patteggiamento resa dal tribunale penale di Firenze nei confronti di M.P. ed a un passaggio della medesima da cui risulterebbe accertato che l’importatore ha comunque provveduto a versare l’Iva all’Agenzia delle entrate;

il motivo in esame, tuttavia, non riproduce il testo della sentenza citata e pertanto, difettando di autosufficienza, non consente a questa Corte di potere verificare che la pronuncia del giudice penale, laddove fa riferimento all’avvenuto assolvimento dell’imposta, si riferisca alla condotta della ricorrente;

pertanto, come detto, non può esprimersi una valutazione di decisività del punto in ordine al quale la ricorrente lamenta l’omessa valutazione del giudice di appello;

con riferimento, poi, alla censura della sentenza del giudice di appello che ha differenziato la responsabilità di illecito penale da quella di illecito tributario, la stessa va intesa nel senso della autonomia di valutazione del giudice tributario in ordine ad un medesimo fatto: su tale specifico punto, che ha costituito la ragione della decisione, parte ricorrente non muove alcuna ragione di contestazione;

4. Sul quarto motivo di ricorso.

Con il quarto motivo di censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), per violazione e falsa applicazione della legge sul procedimento amministrativo e delle norme sul giusto procedimento amministrativo, nonchè per insufficiente motivazione, per avere ritenuto che il contribuente era stato posto nelle condizioni di conoscere la pretesa almeno nei suoi elementi essenziali e per non avere analizzato le specifiche censure mosse dalla ricorrente alla violazione delle norme sul procedimento amministrativo;

il motivo è inammissibile;

parte ricorrente lamenta, con il motivo di ricorso in esame, la mancata applicazione, in proprio favore, delle disposizioni sulla partecipazione al procedimento amministrativo, tuttavia la stessa non indica gli istituti partecipativi che sarebbero applicabili, in asserita deroga al chiaro disposto del citato art. 13. La ricorrente, infatti, si limita ad evocare la L. n. 241 del 1990, art. 3, (che attiene alla motivazione degli atti e, pertanto, non fa parte del capo terzo, relativo alla partecipazione al procedimento amministrativo), art. 9, (Intervento nel procedimento) e art. 10, (Diritti dei partecipanti al procedimento) senza illustrare nè la rilevanza concreta (in riferimento alla fattispecie) della invocata applicazione di tali articoli, nè la ragione dell’asserita derogabilità dell’art. 13. La genericità ed astrattezza della deduzione, nonchè la sua non pertinenza, non sono superate neppure dal richiamo (contenuto nel ricorso) della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, che – nel rinviare, per la motivazione degli atti dell’amministrazione finanziaria, alla L. n. 241 del 1990, art. 3, – non menziona istituti partecipativi, non deroga alla L. n. 241 del 1990, art. 13, e detta una regola propria degli atti tributari;

sotto un secondo profilo, la ricorrente deduce “l’insufficiente motivazione” circa la mancata considerazione delle specifiche censure da essa prospettate in ordine alla violazione delle norme sul procedimento amministrativo;

sul punto, si osserva che il giudice di appello ha ritenuto che ogni questione dovesse essere risolta alla luce della considerazione che l’atto impugnato era sufficientemente motivato, mentre parte ricorrente muove, anche sotto questo profilo, motivi di censura che attengono alla mancata considerazione delle ritenute violazioni degli istituti partecipativi, senza, tuttavia, anche in questo caso, chiarirne la rilevanza concreta al caso di specie e quindi fornire elementi circa la loro decisività;

5. Sul quinto motivo di ricorso.

Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione del Reg. Ce n. 2913 del 1992, artt. 14 e 201, (codice doganale comunitario), per avere rigettato l’eccezione di estraneità della ricorrente alla gestione del magazzino fiscale e di buona fede, in quanto ogni eventuale irregolarità non era dalla stessa conoscibile nè ascrivibile a sua responsabilità;

il motivo è inammissibile;

lo stesso, invero, non coglie la ratio decidendi della sentenza di appello, questa (al di là del richiamo all’art. 201 CDC, comma 3), è incentrata sulla considerazione che l’importatore è tenuto a sopportare le conseguenze della mancata introduzione materiale della merce nel deposito e, quindi, per il conseguente mancato adempimento dell’obbligo di imposta;

pertanto non è pertinente la deduzione della ricorrente circa l’irresponsabilità della ricorrente per le (eventualmente) non corrette informazioni fornite dal dichiarante e per l’eventuale irregolare gestione del deposito.

5. Conclusioni.

In conclusione di quanto sopra esposto: va dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine al primo, secondo e settimo motivo di ricorso, limitatamente alla pretesa impositiva sostanziale; va accolto, nei sensi di cui sopra (sanzione od interessi), il sesto motivo; vanno dichiarati inammissibili il terzo, quarto e quinto motivo; va cassata la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto, con conseguente rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale della Toscana, che dovrà attenersi ai principi di diritto sopra specificati e accertare l’importo eventualmente dovuto a titolo di sanzione, oltre che provvedere alla liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte:

dichiara la cessazione della materia del contendere in ordine al primo, secondo e settimo motivo di ricorso, limitatamente alla pretesa impositiva sostanziale; accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il sesto motivo; dichiara inammissibili il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata con riferimento al motivo accolto e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della quinta sezione civile, il 15 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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