Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33876 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. I, 19/12/2019, (ud. 11/11/2019, dep. 19/12/2019), n.33876

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PERRICONE Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 35442/2018 R.G. proposto da:

S.S., rappresentato e difeso dall’avv. Rosaria Tassinari,

con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Forlì, viale

Matteotti, 115;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna, n. 3891/2018, depositato

il 24 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– S.S. propone ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bologna, depositato il 24 ottobre 2018, di reiezione dell’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione Forlì-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria;

– dall’esame del decreto impugnato emerge che a sostegno della domanda il richiedente aveva allegato che era originario del Bangladesh, apparteneva ad una famiglia avente serie difficoltà economiche, anche perchè il padre era inabile al lavoro e la madre e una sorella guadagnavano poco e, a seguito di un’alluvione, l’abitazione non era più agibile;

– aveva aggiunto che aveva lavorato in un negozio di oli sino a che questo non era andato distrutto a causa di un incendio e che, pertanto, perduranti le difficoltà economiche, aveva accettato il suggerimento dei genitori di cercare lavoro all’estero;

– nel decreto si dà atto che all’udienza il richiedente aveva, altresì, riferito che non era intenzionato a tornare nel paese di origine per timore di essere ucciso da usurai, cui aveva chiesto un prestito, per il caso di incapacità a restituire quanto pattuito e che tali usurai avevano già minacciato e picchiato la madre e le sorelle e godevano del supporto della polizia locale;

– il giudice ha disatteso l’opposizione evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale richiesta;

– il ricorso è affidato a tre motivi;

– il Ministero dell’Interno non spiega alcuna attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 3 e 5, per non avere il Tribunale fatto applicazione del principio dell’onere della prova e omesso di valutare la credibilità del suo racconto secondo i criteri fissati dall’art. 3 medesimo D.Lgs. e, in particolare, di quelli concernenti al ragionevole sforzo profuso per circostanziare la domanda e alla idonea motivazione offerta della mancanza di elementi significativi di riscontro;

– il motivo è infondato;

– occorre rilevare che il Tribunale ha ritenuto che il richiedente, pur rendendo in linea di massima dichiarazioni plausibili, non avesse compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla domanda;

– ha, sul punto, sottolineato profili di incoerenza tra quanto riferito in sede amministrativa, in cui si indicava il motivo economico quale causa esclusiva dell’abbandono del paese di origine, e il racconto reso dinanzi al Tribunale in cui si dava conto di minacce subite personalmente od a suoi familiari, di cui mai aveva fatto menzione in precedenza, e del prestito contratto personalmente e non dal padre, come, invece, riferito in sede amministrativa;

– ha, inoltre, evidenziato la genericità delle dichiarazioni nella parte relativa alle minacce indirizzate alla madre e alle sorelle e alle percosse da queste ricevute, nonchè l’assenza di una plausibile spiegazione delle ragioni per cui non era riuscito a corroborare la propria richiesta di protezione con elementi oggettivi di prova, quali i documenti identificativi dello stato di famiglia;

– ha, quindi, concluso per la parziale inattendibilità del racconto, ritenendo verosimile che il richiedente abbia lasciato il suo paese per migliorare le condizioni di vita propria e della propria famiglia e che quest’ultima abbia contratto il prestito riferito per consentirgli di partire;

– orbene, in tema di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794);

– tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 stesso D.Lgs.;

– ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096);

– pertanto, la decisione del Tribunale di non attivare i poteri istruttori ufficiosi e di ritenere non credibile il racconto del richiedente si sottrae alla censura prospettata;

– con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per aver il decreto impugnato omesso di riconoscere la sussistenza di una minaccia grave alla sua vita derivante da una situazione di violenza indiscriminata;

– il motivo è infondato;

– il Tribunale ha affermato che dall’esame delle fonti esaminate (rapporti di US Department of State, Freedom House, Human Right Watch, Amnesty International) emergeva che nel Bangladesh è non vi era alcun tipo di conflitto armato in corso, tale da poter porre in serio pericolo l’incolumità della popolazione civile;

– così argomentando, ha fatto corretta applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che richiede, ai fini della sussistenza del gravo danno rilevante per il riconoscimento della protezione sussidiaria, che la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivi dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;

– si osserva, al riguardo, che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile, con motivo di ricorso per cassazione, solo nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass., ord., 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass., ord., 21 novembre 2018, n. 30105);

– con l’ultimo motivo di ricorso la parte si duole della violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, per avere il Tribunale, con riferimento alla domanda per il riconoscimento della protezione umanitaria, negato alla sussistenza dei relativi requisiti pur in presenza di una situazione di vulnerabilità personale, da accertarsi all’esito di una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente;

– il motivo è inammissibile;

– deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (così, Cass., ord., 22 febbraio 2019, n. 5358);

– la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 15 maggio 2019, n. 13079; Cass., ord., 3 aprile 2019, n. 9304);

– con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

– infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (così, Cass., ord., 28 giugno 2018, n. 17072);

– orbene, il giudice ha escluso la sussistenza di siffatta condizione di vulnerabilità all’esito di una siffatta valutazione comparativa, ponendo in rilievo sia l’assenza di un rischio di esposizione del richiedente a violazioni di diritti umani in caso di rimpatrio, sia l’assenza di condizioni soggettive ostative al rimpatrio, anche in considerazione della presenza di suoi familiari nel paese di origine e del fatto che gli allegati problemi di salute non sono riconducibili a gravi patologie e possono essere affrontati con farmaci di uso comune;

– diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, pertanto, il Tribunale ha operato la doverosa effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio potesse determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza, pervenendo ad una conclusione negativa;

– la censura, dunque, muove da un assunto erroneo;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocata dal giudice competente l’ammissione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che non sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis stante l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sempre che non risulti revocata dal giudice competente l’ammissione.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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