Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33875 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. I, 19/12/2019, (ud. 11/11/2019, dep. 19/12/2019), n.33875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PERRICONE Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 34897/2018 R.G. proposto da:

G.S., rappresentato e difeso dall’avv. Patrizia Bortoletto,

con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Faenza (RA), via

XX settembre, 29;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna, n. 3775/2018, depositato

il 17 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– G.S. propone ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bologna, depositato il 17 ottobre 2018, di reiezione dell’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione Forli-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria;

– dall’esame del decreto impugnato emerge che a sostegno della domanda il richiedente aveva allegato che era originario della Guinea, città di (OMISSIS), e che, alla morte della madre, si era trasferito a (OMISSIS) con il padre, svolgente l’attività di commerciante e con il quale lavorava;

– aveva, inoltre, riferito che, dopo l’incendio del magazzino del padre, appiccato da un appartenente al gruppo di etnia (OMISSIS), il genitore aveva deciso di trasferirsi in Sierra Leone per cercare fortuna e, quindi, egli stesso aveva lasciato il suo Paese, recandosi in Mali, Burkina Faso, in Niger, in Libia e, infine, in Italia;

– il decreto impugnato evidenzia, altresì, che in udienza il richiedente aveva dichiarato che il padre era stato ferito gravemente da esponenti del gruppo di etnia (OMISSIS) e aveva lasciato il paese per timore di ulteriori aggressioni, che egli stesso era stato vittima di aggressioni da parte di tali soggetti e che non era intenzionato a ritornare in patria sia per paura di aggressioni da parte degli aderenti a tale gruppo, sia perchè lo zio, con cui viveva dopo l’abbandono del padre, era solito trattarlo male;

– il giudice ha disatteso il gravame interposto evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento delle protezioni internazionale e umanitaria richieste;

– il ricorso è affidato ad un unico motivo;

– il Ministero dell’Interno non spiega alcuna attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con l’unico motivo di ricorso proposto il ricorrente denuncia la violazione della Conv. di Ginevra, del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, artt. 2 e 32 Cost., art. 25 Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art. 11, patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, e Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, ratificati con L. 25 ottobre 1977, n. 881, per aver il Tribunale omesso di compiere una approfondita valutazione della situazione del paese di origine, rilevante ai fini dell’applicazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. c);

– con il medesimo motivo censura, altresì, il decreto impugnato per aver negato la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria, benchè il paese di origine versasse in estrema povertà, fosse stato costretto ad abbandonare la famiglia e a subire violenze durante la permanenza in Libia e avesse intrapreso un significativo percorso di integrazione sociale del territorio italiano;

– il motivo è infondato;

– quanto alla situazione del Paese di origine, il Tribunale ha affermato che dall’esame delle fonti esaminate (risoluzioni dell’UNHCR, rapporti di Amnesty Internaional, di U.S. Department of State e Freedom House) emergeva che la Guinea, pur essendo investita da una difficile situazione politica e sociale, in relazione all’esistenza di scontri politici tra varie fazioni e alla violazione dei diritti umani anche da parte delle autorità governative, non era interessata da una “condizione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato interno tale da porre in pericolo la vita di incolumità personale della popolazione civile per il solo fatto di soggiornarvi”;

– così argomentando, ha fatto corretta applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che richiede, ai fini della sussistenza del gravo danno rilevante per il riconoscimento della protezione sussidiaria, che la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivi dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;

– si osserva, al riguardo, che l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, censurabile, con motivo di ricorso per cassazione, solo nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass., ord., 12 dicembre 2018, n. 32064; Cass., ord., 21 novembre 2018, n. 30105);

– in ordine alla doglianza mossa al capo del decreto che non riconosce i requisiti per l’accesso alla protezione umanitaria, si rammenta il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (così, Cass., ord., 22 febbraio 2019, n. 5358);

– la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 15 maggio 2019, n. 13079; Cass., ord., 3 aprile 2019, n. 9304);

– con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

– infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (così, Cass., ord., 28 giugno 2018, n. 17072);

– orbene, il giudice ha escluso la sussistenza di siffatta condizione di vulnerabilità all’esito di una siffatta valutazione comparativa, ponendo in rilievo sia l’inattendibilità delle dichiarazioni del ricorrente, sia la mancanza di ulteriori specifici indicatori di necessità di protezione, dal punto di vista soggettivo e oggettivo, e aggiungendo che l’avere il ricorrente intrapreso lo studio della lingua italiana e svolto in Italia un’attività di formazione, prima, e lavorativa poi, non costituivano fatti ostativi al suo rientro in patria;

– anche sul punto, dunque, il decreto si sottrae alla censura prospettata;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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