Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33872 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. I, 19/12/2019, (ud. 11/11/2019, dep. 19/12/2019), n.33872

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PERRICONE Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 33668/2018 R.G. proposto da:

F.C., rappresentato e difeso dall’avv. Augusta Massima

Cucina, con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Roma, via

Falconieri, 55;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna, n. 3847/2018, depositato

il 22 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– F.C. propone ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bologna, depositato il 22 ottobre 2018, di reiezione dell’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione di Forlì-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria;

– dall’esame del decreto impugnato emerge che a sostegno della domanda il richiedente aveva allegato che era originario del Mali, regione di (OMISSIS), e che aveva lasciato il suo Paese a seguito dell’intimazione, accompagnata da minaccia di morte, di lasciare il villaggio, proveniente dal capo del villaggio medesimo, che non aveva gradito l’iniziativa posta in essere da esso richiedente di partecipare ad una campagna di sensibilizzazione della popolazione sulle mutilazioni genitali femminili;

– aveva aggiunto che si era dapprima recato in Algeria, quindi, in Libia e, infine, era giunto in Italia;

– il giudice ha disatteso l’opposizione evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento delle protezioni internazionale e umanitarie richieste;

– il ricorso è affidato a tre motivi;

– il Ministero dell’Interno non spiega alcuna attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1A, Convenzione di Ginevra del 1951, e D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2, comma 1, lett. e), nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e la motivazione omessa, insufficiente e contraddittoria;

– evidenzia, in particolare, l’erroneità del decreto impugnato nella parte in cui riteneva che la sua zona di provenienza fosse tranquilla, sottolineando che lo stesso ufficio giudiziario, in altro provvedimento emesso solo a poche settimane di distanza, aveva considerato la medesima regione una zona pericolosa;

– il motivo è inammissibile, in quanto presenta una mescolanza e una sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, con prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione;

– una siffatta articolazione della censura non è ammissibile in quanto, da un lato, costituisce una negazione della regola della chiarezza e, dall’altro, richiede un intervento della Corte volto ad enucleare dalla mescolanza dei motivi le parti concernenti le separate censure (cfr., Cass., ord., 23 ottobre 2018, n. 26874; Cass. 14 settembre 2016, n. 18021);

– in ogni caso, il Tribunale ha affermato che dall’esame delle fonti esaminate (risoluzioni dell’Onu, rapporti di Amnesty International, World Report e Freedom House) emergeva che nelle regioni del sud del Mali, fra le quali vi è la regione di provenienza del ricorrente, “pur verificandosi situazioni di difficoltà dell’autorità statale nel proteggere le istanze dei cittadini, non si riscontra una “situazione di violenza generalizzata e indiscriminata derivante da conflitto armato interno”…”;

– così argomentando, ha fatto corretta applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che richiede, ai fini della sussistenza del gravo danno rilevante per il riconoscimento della protezione sussidiaria, che la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivi dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale;

– sotto altro profilo, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (così, Cass., Sez.Un., 7 aprile 2014, n. 8053);

– pertanto, non è possibile il sindacato sulla coerenza della motivazione con quanto affermato in altra decisione giudiziaria, sia pure emessa dal medesimo organo giudicante;

– con il secondo motivo la parte deduce la “illegittimità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5”, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 8, 10, 13 e 27, artt. 16 e 46, Direttiva n. 2013/32/UE, artt. 6 e 13,Convenzione EDU, e art. 47, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, per aver il Tribunale ritenuto non credibile il suo racconto senza procedere all’attivazione dei poteri istruttori ufficiosi;

– il motivo è infondato;

– occorre rilevare che il Tribunale ha condiviso espressamente la argomentata valutazione operata dalla Commissione territoriale in ordine alla non credibilità del racconto del richiedente, evidenziando, in particolare, la genericità delle dichiarazioni rese, prive di elementi di riscontro, e l’incoerenza del nucleo essenziale del racconto medesimo, pervenendo alla conclusione che il richiedente non avesse compiuto “ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda”;

– orbene, in tema di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794);

– tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 stesso D.Lgs.;

– ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096);

– pertanto, la decisione del Tribunale di non attivare i poteri istruttori ufficiosi si sottrae alla censura prospettata;

– con l’ultimo motivo di ricorso il ricorrente si duole della violazione ed errata applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b), per aver il decreto impugnato escluso la ricorrenza degli estremi per il riconoscimento della protezione sussidiaria;

– il motivo è inammissibile per difetto di specificità, non contenendo l’illustrazione delle ragioni per cui il provvedimento impugnato sarebbe viziato;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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