Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33869 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. I, 19/12/2019, (ud. 11/11/2019, dep. 19/12/2019), n.33869

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PERRICONE Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 32071/2018 R.G. proposto da:

M.F., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Roppo, con

domicilio eletto presso il suo studio, sito in Forlì, via

Matteotti, 105;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna, n. 3271/2018, depositato

l’11 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– M.F. propone ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bologna, depositato l’11 ottobre 2018, di reiezione dell’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione di Forlì-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria;

– dall’esame del decreto impugnato emerge che a sostegno della domanda il richiedente aveva allegato che era originario della (OMISSIS), e che era fuggito per il timore di essere ucciso da un uomo, appartenente alla gendarmeria della città, il quale aveva avuto una relazione con sua moglie, in epoca antecedente al matrimonio, e della quale asseriva essere ancora innamorato;

– aveva, in particolare, riferito che, prima della sua fuga dal paese di origine, era stato aggredito e minacciato e che, senza alcun esito, si era rivolto sia alla polizia, sia alla gendarmeria;

– il giudice ha disatteso l’opposizione evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento delle protezioni internazionale e umanitaria richieste;

– il ricorso è affidato a due motivi;

– in relazione ad esso non spiega alcuna attività difensiva il Ministero dell’Interno;

– il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 3, comma 5 e D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi;

– evidenzia, in particolare, che il Tribunale aveva ritenuto inattendibile il suo racconto in ragione della rilevata divergenza tra quanto riferito dinanzi alla Commissione Territoriale e quanto dichiarato in sede giudiziaria senza prendere in considerazione lo stato psicologico del richiedente e il fatto che, che in sede amministrativa, le dichiarazioni erano state rese senza assistenza tecnica di un difensore o, comunque, di un fiduciario;

– osserva, inoltre, che il giudizio sulla credibilità del dichiarante doveva essere condotta alla luce delle informazioni sul paese di provenienza, da acquisire anche d’ufficio, nel rispetto dell’obbligo di collaborazione istituzionale;

– il motivo è inammissibile;

– il giudice di primo grado ha escluso l’attendibilità del ricorrente avuto riguardo sia all’incoerenza del racconto, in quanto divergente rispetto a quello reso in sede amministrativa, con particolare riferimento alla circostanza, riferita in sede giudiziaria, della protrazione della relazione tra la moglie e l’uomo appartenente alla gendarmeria anche in costanza di matrimonio, sia alla non plausibilità del racconto medesimo, giungendo, conseguentemente, ad escludere che sussistesse il timore posto a fondamento della domanda;

– lungi dall’attribuire efficacia fidefacente alle dichiarazioni rese dinanzi alla Commissione territoriale, il Tribunale ha proceduto ad una valutazione unitaria di tali dichiarazioni e di quelle rese dinanzi a sè, pervenendo ad un giudizio di inattendibilità del racconto, sia in ragione della incoerenza delle dichiarazioni stesse, sia della loro implausibilità;

– la doglianza si risolve, dunque, in una censura della valutazione degli elementi probatori operata dal Tribunale, nella parte in cui quest’ultimo ha ritenuto il richiedente non credibile;

– una siffatta censura non può trovare ingresso in questa sede in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale e non può riesaminare e valutare autonomamente il merito della causa (cfr. Cass. 28 novembre 2014, n. 25332; Cass., ord., 22 settembre 2014, n. 19959);

– sotto altro aspetto, deve osservarsi che in materia di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794);

– tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dall’art. 14 stesso D.Lgs.;

– ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096);

– con il secondo motivo la parte deduce la violazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6 e art. 19, nonchè l’errato e omesso esame di fatti, per aver il Tribunale escluso che ricorressero i presupposti per la concessione della protezione umanitaria, benchè il paese di origine versasse in una difficile situazione politica e sociale, caratterizzata da scontri politici tra varie fazioni e dalla violazione dei diritti umani anche dalla parte delle autorità governative, sussistesse il pericolo di un suo arresto, in caso di rimpatrio, e si fosse realizzata la sua integrazione in Italia anche sotto il profilo lavorativo;

– il motivo è infondato;

– orbene, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (così, Cass., ord., 22 febbraio 2019, n. 5358);

– la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 15 maggio 2019, n. 13079; Cass., ord., 3 aprile 2019, n. 9304);

– con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

– infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva,ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (così, Cass., ord., 28 giugno 2018, n. 17072);

– orbene, il giudice ha escluso la sussistenza di siffatta condizione di vulnerabilità all’esito di una siffatta valutazione comparativa, ponendo in rilievo l’assenza “di peculiari fattori indicativi di una situazione di violazione o di impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili in caso di rientro nel paese di origine”, nonchè “di ulteriori e specifici indicatori di necessità di protezione, dal punto di vista soggettivo e oggettivo”, ed aggiungendo che “l’avere il ricorrente intrapreso lo studio della lingua italiana ed un’attività di formazione, prima, e poi lavorativa in Italia… non costituisce ostacolo al suo rientro in patria, non essendo elemento, di per sè, tale da consentire di ritenere integrati i seri motivi che possono fondare il riconoscimento della protezione umanitaria, come tali ostativi al rimpatrio…”;

– così argomentando, ha fatto corretta applicazione dei suesposti principi di diritto;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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