Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3385 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 12/02/2020, (ud. 02/12/2019, dep. 12/02/2020), n.3385

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 8021/2012 R.G. proposto da:

G.R., rappresentato e difeso, per procura speciale in atti,

dall’Avv. Rosamaria Fiandaca, con domicilio eletto presso lo studio

dell’Avv. Maria Grazia Sgrò in Roma, via Flaminia, n. 342/B;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con

domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia-sezione staccata di Caltanissetta, n. 97/21/11, depositata

il 7 febbraio 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 2 dicembre 2019

dal Consigliere Dott. Michele Cataldi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott.ssa Paola Mastroberardino, che ha concluso chiedendo

il rigetto del ricorso;

udito l’Avv. dello Stato Laura Cherubini per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’Agenzia delle Entrate ha emesso nei confronti di G.R., titolare dell’omonima ditta individuale che esercita la produzione e la vendita di prodotti di panetteria, avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, in materia di Ires, Irap ed Iva, con il quale, all’esito della verifica fiscale effettuata con accesso nei locali di esercizio dell’attività, e del relativo processo verbale di constatazione, ha rettificato, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), i relativi imponibili, recuperando a tassazione sia costi non deducibili, in quanto non di competenza dell’anno d’imposta accertato; sia ulteriori costi non deducibili, perchè non inerenti, relativi a compensi per collaboratori occasionali; sia ricavi non contabilizzati e non dichiarati. Pertanto, l’Amministrazione ha imputato al contribuente le maggiori imposte dovute, con i relativi interessi e le corrispondenti sanzioni.

2. Avverso l’avviso d’accertamento il contribuente ha proposto ricorso dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Caltanissetta, che lo ha parzialmente accolto, riducendo i ricavi non dichiarati, rispetto a quelli accertati; annullando il recupero a tassazione relativo all’indeducibilità dei costi rappresentati dai compensi per collaboratori occasionali; e riducendo inoltre, in conseguenza dell’accoglimento parziale dei predetti rilievi, le relative sanzioni, confermando l’applicazione del cumulo giuridico.

3. Il contribuente ha proposto appello principale avverso tale sentenza di primo grado e l’adita Commissione tributaria regionale della Sicilia-sezione staccata di Caltanissetta, con la sentenza n. 97/21/11, depositata il 7 febbraio 2011, lo ha respinto.

Con la medesima sentenza, la stessa CTR ha invece accolto l’appello incidentale dell’Ufficio, riformando in parte qua la sentenza di primo grado e confermando l’indeducibilità dei compensi per collaboratori occasionali, già rilevata dall’accertamento controverso.

4. Il contribuente propone ricorso, affidato a tre motivi, per la cassazione della predetta sentenza della CTR.

5. L’Ufficio si è costituito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo, complesso, motivo, il contribuente denuncia “Motivazione omessa, insufficiente e/o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,” e “violazione e falsa applicazione di norme di diritto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, art. 2729 c.c., artt. 113,115 e 116 c.p.c., (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

1.1. Nella sostanza, per quanto può ricavarsi dalla lettura complessiva del motivo, il ricorrente si duole che la ricostruzione induttiva dei ricavi non dichiarati, fondata sulle dichiarazioni (in ordine sia alla quantità ed alla qualità delle farine usate quotidianamente nella produzione, sia alla resa di tale materia prima in termini di prodotti finiti) rilasciate ai verbalizzanti dallo stesso contribuente e trasfuse nel processo verbale posto a base dell’accertamento, risulti notevolmente superiore rispetto a quella ricavabile invece dalle scritture contabili della medesima ditta. Tale contrasto tra i due dati sarebbe inconciliabile con la natura analitico-induttiva dell’accertamento controverso, che non potrebbe prescindere dalle risultanze della contabilità. Inoltre, sempre a detta del ricorrente, l’impianto indiziario dell’accertamento analitico-induttivo praticato sarebbe logicamente in contraddizione con il contestuale parziale accoglimento, da parte della CTP, della censura dello stesso contribuente, relativa alla percentuale di ricarico utilizzata per quantificare i maggiori ricavi accertati e non dichiarati, che costituirebbe un “correttivo giudiziale per mitigare gli effetti” di “un così rilevante incremento dei ricavi” conseguente alla “forzatura delle elaborazioni presuntive”.

1.2. Preliminarmente, il motivo è inammissibile, a causa della contemporanea ed indistinta prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, separate dal ricorrente solo nella formale rubricazione del mezzo d’impugnazione, atteso che la lettura dell’intero corpo di quest’ultimo evidenzia piuttosto una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che conduce all’inammissibile prospettazione delle medesime questioni sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).

Pertanto, i distinti motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 ed 5, sebbene distinti formalmente nella rubrica del primo motivo di ricorso, risultano, nel contenuto di quest’ultimo, censure cumulative ed indistinte dallo stesso ricorrente e quindi non autonomamente individuabili, se non con un inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione ad opera di questa Corte, che prescinderebbe dalla volontà espressa della parte.

1.3. Tanto premesso, il motivo è peraltro anche infondato, considerato che, in tema di contenzioso tributario, le dichiarazioni rese in sede di verifica dal legale rappresentante di una società integrano una confessione stragiudiziale, atteso il rapporto di immedesimazione organica tra il rappresentante legale e la società rappresentata (Cass. 24/10/2014, n. 22616) e costituiscono pertanto prova non già indiziaria, ma diretta, del maggior imponibile eventualmente accertato nei confronti della società, non abbisognevole, come tale, di ulteriori riscontri (Cass. 21/12/2005 n. 28316), sebbene, nel caso di specie, ad abundantiam corroborata anche dalle gravi incongruenze menzionate nel penultimo cpv. della terza pagina della sentenza impugnata.

Tali conclusioni in ordine alla rilevanza delle dichiarazioni del ricorrente tanto più si adattano al caso sub iudice, nel quale esse sono state rese dallo stesso contribuente persona fisica (e quindi senza neppure l’intermediazione del rapporto organico), per l’occasione anche assistito dal suo difensore tecnico, come sottolinea la sentenza impugnata, senza contestazioni sul punto.

Fermo restando pertanto il valore di prova legale delle predette dichiarazioni confessorie, rese dal contribuente all’Amministrazione finanziaria, neppure si comprende come ii loro utilizzo, ai fine di dimostrare l’esistenza di ricavi non dichiarati, si ponga, come assunto dal ricorrente, in contrasto con l’accertamento analitico -induttivo di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), il quale non impedisce, pure in presenza di contabilità formalmente regolare, l’accertamento in rettifica, che presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti (ex plurimis, Cass. 24/10/2014, n. 22616, cit.; Cass. 18 maggio 2012, n. 7871; Cass. 5 ottobre 2007, n. 20857; Cass. 15 dicembre 2006, n. 26919).

Quanto poi al parziale accoglimento, da parte della CTP, della critica del contribuente avverso la percentuale di ricarico utilizzata dall’Amministrazione dell’accertamento, deve premettersi che si tratta di un capo di sentenza, non impugnato dall’Ufficio, favorevole allo stesso ricorrente, che quindi non potrebbe dolersene, se non invocando un’ulteriore riduzione della relativa aliquota ed allegandone i presupposti, ciò che difetta nel motivo in esame. Nè peraltro vi è alcuna necessaria contraddizione logica tra l’accertamento dell’esistenza di ricavi non dichiarati e la successiva loro quantificazione attraverso una percentuale di ricarico minore di quella sostenuta dall’Ufficio.

2. Con il secondo, complesso, motivo, il contribuente denuncia “Motivazione omessa, insufficiente e/o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,” e “violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.”.

Nella sostanza, per quanto può ricavarsi dalla lettura complessiva del motivo, il ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia confermato la riduzione della percentuale di ricarico sulla merce venduta, già adottata dal giudice di prime cure, in quanto tale pronuncia sarebbe: contrastante con la ritenuta attendibilità della ricostruzione induttiva relativa all’esistenza di maggiori ricavi non dichiarati; incoerente con l’accertamento, che già aveva considerato lo “sfrido”, ulteriormente valutato dalla CTP e dalla CTR come concausa dell’ulteriore riduzione del ricarico; meramente forfettaria e basata su pretese massime di comune esperienza, che non sarebbero tali rispetto alla redditività dell’impresa in questione.

2.1. Anche il secondo motivo è inammissibile a causa della contemporanea ed indistinta prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, separate dal ricorrente solo nella formale rubricazione del mezzo d’impugnazione, atteso che la lettura dell’intero corpo di quest’ultimo evidenzia piuttosto una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che conduce all’inammissibile prospettazione delle medesime questioni sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).

Peraltro, il motivo è ulteriormente inammissibile, poichè attinge, un capo della decisione – relativo alla conferma in appello della riduzione della percentuale di ricarico sulla merce venduta – che non è stato impugnato dall’Ufficio ed è favorevole allo stesso ricorrente, che quindi non potrebbe dolersene, se non invocando un’ulteriore riduzione della relativa aliquota ed allegandone i presupposti, ciò che difetta nel motivo in esame. Il ricorrente, quindi, non ha interesse alla mera censura dei presupposti dell’an della riduzione della percentuale di ricarico, la cui pretesa carenza e fallacia si dovrebbero, in ipotesi, tradurre nella negazione di una decisione favorevole sostanzialmente al medesimo impugnante.

Quanto poi all’ulteriore parte del secondo motivo (di cui al p. B) che inizia a pag. 27 del ricorso), nella quale il ricorrente censura la sentenza di primo grado per le “modalità giuridico-contabili con le quali è stata effettuata la riduzione degli imponibili accertati” (con specifico riferimento all’applicazione di quest’ultima ai ricavi o all’imponibile estensione ed alla sua estensione ai fini Iva), e a sentenza di appello perchè avrebbe ignorato tali “evidenti vizi contenuti nella sentenza impugnata”, giova aggiungere che la proposizione di uno specifico motivo d’appello del contribuente sul punto non risulta dalla stessa descrizione del contenuto dell’impugnazione di merito riprodotta nel ricorso (da pag. 6) per il quale si procede, oltre che dalla sentenza della CTR. Si configura pertanto un ulteriore profilo di inammissibilità del secondo motivo di ricorso.

3. Con il terzo, complesso, motivo, il contribuente denuncia “Motivazione omessa, insufficiente e/o contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5,” e “violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., art. 2697 c.c., nonchè del combinato disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 58, e art. 345 c.p.c., comma 3”.

Nella sostanza, per quanto può ricavarsi dalla lettura complessiva del motivo, il ricorrente si duole che la sentenza impugnata abbia accolto l’appello incidentale dell’Ufficio, relativamente alla ritenuta indeducibilità dei costi rappresentati dai compensi erogati dal contribuente a terzi per collaborazioni occasionali, nonostante la relativa documentazione probatoria sia stata depositata dall’Amministrazione, alla quale competerebbe l’onere della prova dell’indeducibilità, solo nel giudizio d’appello.

3.1. Anche il terzo motivo è inammissibile a causa della contemporanea ed indistinta prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, separate dal ricorrente solo nella formale rubricazione del mezzo d’impugnazione, atteso che la lettura dell’intero corpo di quest’ultimo evidenzia piuttosto una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che conduce all’inammissibile prospettazione delle medesime questioni sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793). Anzi, nel caso di specie, l’inammissibilità è aggravata dalla circostanza che il motivo si estende anche alla contemporanea denuncia di un vizio processuale, relativo alla pretesa violazione delle norme di rito che disciplinano l’istruzione nell’appello tributario.

3.2. Peraltro, il motivo è comunque infondato, laddove si consideri in rito che nell’ambito del processo tributario, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti posti dall’art. 345 c.p.c., (Cass. 13/11/2018, n. 29087, ex plurimis), purchè nel rispetto delle preclusioni interne al medesimo grado di giudizio (la cui violazione non è dedotta in questa sede); ed in merito che l’onere della prova della deducibilità di un costo, ed in generale di tutti i componenti negativi del reddito, grava comunque sul contribuente (Cass. 09/11/2018, n. 28671, ex plurimis).

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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