Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33771 del 19/12/2019

Cassazione civile sez. III, 19/12/2019, (ud. 16/10/2019, dep. 19/12/2019), n.33771

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefamp Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21892-2018 proposto da:

COMUNE CATANIA, in persona del Sindaco Rappresentante legale pro

tempore, domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA

CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato RUSSO

ROSARIO MAURIZIO PAOLO;

– ricorrente –

contro

ARCIDIOCESI CATANIA, in persona di S.E. MONS. G.S.

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli

avvocati ROSARIO GIUSEPPE GRASSO, GIUSEPPE BARLETTA CALDARERA,

ROSARIO ARCIFA;

– controricorrente –

e contro

N.V.R., F.C.A., F.C.C.,

C.R.A., REALE MUTUA ASSICURAZIONI, COMITATO

ORGANIZZATORE PER LE FESTE AGATINE, MINISTERO DELL’INTERNO

(OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

ARCIDIOCESI CATANIA, in persona di S.E. MONS. G.S.

legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli

avvocati ROSARIO GIUSEPPE GRASSO, GIUSEPPE BARLETTA CALDARERA,

ROSARIO ARCIFA;

– ricorrente incidentale –

contro

REALE MUTUA ASSICURAZIONI, COMITATO ORGANIZZATORE PER LE FESTE

AGATINE, MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS), C.R.A.,

F.C.C., F.C.A., N.V.R.,

COMUNE CATANIA;

– intimati –

Nonchè da:

F.C.A., N.V.R., F.C.C.,

domiciliati ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI

CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato SALVATORE RAGUSA;

– ricorrente incidentale –

contro

COMITATO ORGANIZZATORE PER LE FESTE AGATINE, REALE MUTUA

ASSICURAZIONI, ARCIDIOCESI CATANIA, COMUNE CATANIA;

– intimati –

Nonchè da:

C.R.A., in proprio e nella qualità di genitore

esercente la potestà sul figlio minore F.C.F.,

FE.CA.FR., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

SALVATORE RAGUSA;

– ricorrente incidentale –

contro

COMITATO ORGANIZZATORE PER LE FESTE AGATINE, REALE MUTUA

ASSICURAZIONI, ARCIDIOCESI CATANIA, COMUNE CATANIA;

– intimati –

Nonchè da:

C.R.A., F.C.F., F.C.A.,

N.V.R., F.C.C., domiciliati ex lege in

ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati

e difesi dall’avvocato SALVATORE RAGUSA;

– ricorrente incidentali –

avverso la sentenza n. 1024/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 05/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/10/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto di tutti i ricorsi;

udito l’Avvocato ROSARIO GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato GIUSEPPE BARLETTA CALDERARERA;

udito l’Avvocato SALVATORE RAGUSA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Comune di Catania ricorre, avvalendosi di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 1024/2018 della Corte d’Appello di Catania, pubblicata il 5 maggio 2018 e notificata tramite Pec il 7 maggio 2018.

Resistono e propongono autonomi ricorsi incidentali l’Arcidiocesi di Catania, basandosi su cinque motivi, N.V.R. e A. e F.C.C., invocando due motivi, C.R.A., in proprio e quale genitore titolare della responsabilità genitoriale nei confronti di F.C.F., e Fe.Ca.Fr., avvalendosi di due motivi.

Tutti i ricorrenti incidentali replicano con controricorso agli altri ricorsi incidentali.

Il Comune di Catania, ricorrente principale, espone in fatto che il (OMISSIS), durante la processione con le reliquie di Sant’Agata trasportate dallo storico fercolo, i devoti che si trovavano in mezzo ai due cordoni, costituiti da cime di canapa, che trascinavano, come da tradizione, con passo di corsa il fercolo, perdevano l’equilibrio, cadevano a catena sulla salita di (OMISSIS) e calpestavano alcuni fedeli; in aggiunta, nonostante l’azionamento del freno di emergenza, il fercolo percorreva altri 15 metri e gli assi lunghi posti sul lato anteriore sovrastavano i devoti già caduti per terra, calpestandone alcuni. Nella calca F.C.R. finiva a terra, riportava un trauma toracoaddominale e, trasportato d’urgenza in ospedale, vi decedeva il giorno seguente.

I congiunti della vittima, N.V.R., A. e F.C.C., rispettivamente, madre, padre e sorella, convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania l’Arcidiocesi di Catania, il Comune di Catania, la Questura di Catania e il Comitato organizzatore per le feste agatine, attribuendo loro, a titolo diverso, la responsabilità della morte di F.C.R. e chiedendone la condanna al risarcimento dei danni che quantificavano in Euro 510.000,00.

Successivamente si costituivano anche C.R.A., in proprio e quale genitore dei figli, allora minori, F. e Fr., reclamando un risarcimento complessivo di Euro 450.000,00.

Il Tribunale di Catania, con sentenza n. 2105/2014, accertava la responsabilità dell’Arcidiocesi di Catania, del Comitato organizzatore e del Ministero dell’interno e li dichiarava responsabili, la prima nella misura del 50%, gli altri due nella misura del 15% ciascuno, del fatto che il movimento del fercolo fosse avvenuto senza prima accertarne le condizioni di sicurezza, in – assenza di valutazione della percorribilità della via di Sangiuliano, nonostante la presenza di un’impalcatura per il rifacimento della facciata di un palazzo che restringeva l’area di transito del fercolo e dei fedeli e che era prevedibile che sarebbe stata usata imprudentemente dai devoti per arrampicarvisi e godere della vista dell’evento, senza previamente allontanare le persone all’interno ed all’esterno dei cordoni, senza tener conto dell’assenza di un impianto frenante idoneo ad arrestare immediatamente il fercolo, senza adeguare la velocità del fercolo alle condizioni della strada.

Tenuto conto della corresponsabilità della vittima nella misura del 20%, li condannava in solido al risarcimento di Euro 195.692,00 a favore di ciascuno dei genitori, di Euro 66.088,00 a favore della sorella, di Euro 150.000,00 a favore della moglie e di Euro 150.000,00 in favore di ciascuno dei due figli; accoglieva la domanda del Comitato organizzatore e condannava la Reale Mutua Assicurazioni S.p.A. a garantirlo e manlevarlo.

L’Arcidiocesi interponeva appello, in va principale, lamentando, tra l’altro, la mancata condanna del Comune di Catania in proprio e non solo come componente del Comitato organizzatore dei festeggiamenti.

Anche i danneggiati impugnavano in via incidentale la sentenza, lamentando, a loro volta, il mancato riconoscimento della responsabilità anche del Comune di Catania.

L’ente Comunale non dispiegava appello incidentale e si limitava a costituirsi in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello per quanto di interesse.

Il Tribunale aveva, infatti, riconosciuto che il Comune di Catania aveva garantito il proprio apporto economico e provveduto ad ogni necessità materiale, compresa la manutenzione del fercolo. Ne aveva riconosciuto la responsabilità ex art. 41 c.c., in quanto componente del Comitato, ma aveva negato la sua responsabilità ex art. 2054 c.c., non essendo stato provato che il fercolo fosse di proprietà del comune ed essendo dimostrato, tramite CTU, che non poteva essere considerato un veicolo.

La Corte d’Appello, con la sentenza qui impugnata, accoglieva parzialmente l’appello principale e quello incidentale e, per l’effetto, riteneva corresponsabile il Comune di Catania, condannandolo in solido con l’Arcidiocesi, con il Comitato organizzatore dei festeggiamenti e con il Ministero dell’interno al risarcimento dei danni nella misura liquidata dal giudice di prime cure; rideterminava, di conseguenza, le spese di lite e di CTU di entrambi i gradi di giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Ricorso principale del Comune di Catania.

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 115,167 e 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la Corte d’Appello accolto l’eccezione di inammissibilità dell’impugnazione nella parte in cui l’Arcidiocesi aveva chiesto l’accertamento della sua responsabilità in via diretta ed autonoma.

Secondo il Comune, l’Arcidiocesi, costituendosi nel giudizio di primo grado, non aveva chiesto di accertare la responsabilità del Comune nè in relazione all’organizzazione della festa nè in relazione alla condotta in processione, tanto in via riconvenzionale quanto in via di eccezione.

L’assenza di responsabilità del Comune avrebbe dovuto considerarsi fatto non contestato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 115 e 167 c.p.c., e la richiesta di condanna in via diretta e non quale componente del Comitato organizzatore, non essendo stata formulata già all’atto della costituzione in giudizio, doveva considerarsi colpita dal divieto di ius novorum, ex art. 345 c.p.c., comma 2.

2. Con il secondo motivo il Comune lamenta l’omessa, l’insufficiente e la contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Secondo il Comune, la Corte d’Appello avrebbe attribuito la responsabilità dell’evento alla Questura di Catania, per non avere adottato i rimedi necessari per regolamentare la processione e tutelare l’ordine pubblico, e contraddittoriamente, per le medesime ragioni, all’Ente comunale che nulla avrebbe potuto fare, in base alle regole di comune esperienza, oltre a ciò che aveva fatto, servendosi dei propri operatori di polizia municipale.

Nè la sentenza d’appello avrebbe considerato che il giudice di prime cure aveva riconosciuto, senza contestazione sul punto, che la scelta di consentire – l’uscita del fercolo era stata adottata dal Comitato, dall’Arcidiocesi e dall’Autorità di pubblica sicurezza.

3. Con il terzo ed ultimo motivo il Comune, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, censura la violazione degli artt. 2043,2054 e 2697 c.c., per non avere il giudice a quo individuato il criterio di imputazione del fatto illecito ascrittogli: una volta pacificamente esclusa la responsabilità ai sensi dell’art. 2054 c.c. e, in difetto di prova degli elementi costituitivi della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c., sarebbe stata applicata nei suoi confronti una responsabilità atipica non consentita dalle norme in vigore.

Ricorso incidentale dell’Arcidiocesi di Catania.

4. Ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’Arcidiocesi di Catania lamenta la violazione degli artt. 99,100,132,163 e 164 c.p.c., degli artt. 1362-1371 c.c., dell’art. 24 Cost., commi 1 e 3, relativamente al rigetto dell’eccezione di difetto di legittimazione passiva.

Secondo la ricorrente incidentale gli attori si sarebbero limitati ad affidare l’edictio actionis ad un giudizio, la mera affermazione della responsabilità del Ca., che, siccome valutativa, avrebbe richiesto indicazione del fatto quale atto processuale da deliberare. In nessuna delle esposizioni della domanda era stato prospettato o allegato un collegamento tra l’incapacità del Ca. e l’Arcidiocesi, nè le erano state attribuite condotte specifiche quale responsabile od organizzatrice dell’evento.

In sostanza all’Arcidiocesi era stato imputato di essere organizzatrice e responsabile del sinistro, senza dedurre condotte o fatti a supporto di tale affermazione, e la Corte territoriale, sovrapponendo insiemi disomogenei, legittimazione e titolarità, avrebbe rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione passiva non sulla base della prospettazione attorea, ma sulla scorta delle successive valutazioni di merito afferenti la titolarità della posizione sostanziale, “in violazione dei principi di democraticità e di ragionevolezza che reggono la motivazione e delle norme rubricate”.

5. Con il secondo motivo l’Arcidiocesi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, denuncia la violazione degli artt. 2049 e 2729 c.c., degli artt. 132,163 e 165c.p.c. e degli artt. 24,1,3 Cost., perchè negli scritti introduttivi i danneggiati non avevano ipotizzato che l’Arcidiocesi potesse avere avuto alcun ruolo nella nomina del Ca. e, successivamente, quando la sentenza aveva per la prima volta introdotto in giudizio tale questione quale titolo di responsabilità, l’Arcidiocesi aveva dedotto di non aver proceduto a tale nomina, perchè essa spettava al Capitolo della cattedrale, ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, diverso e distinto da sè. La Corte d’Appello erroneamente aveva ritenuto che il Capitolo, pur se dotato di personalità giuridica, fosse un ente sottoposto, per controllo ed ingerenza, all’Arcivescovo, confondendo la gerarchia ecclesiastica con i vincoli di subordinazione propri del diritto civile.

6. Con il terzo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’Arcidiocesi assume la violazione degli artt. 41 e 2729 c.c., degli artt. 132,163 e 164c.p.c. e degli artt. 24,1 e 3 Cost., per avere la Corte d’Appello ritenuto erroneamente che l’Arcidiocesi facesse parte del Comitato organizzatore dei festeggiamenti per il 2004, traendo il proprio convincimento dall’incarico conferito dal sindaco di Catania al presidente del Comitato dei festeggiamenti, sulla scorta di un regolamento che non sarebbe mai stato oggetto di adesione o di gradimento da parte dell’Arcidiocesi.

In aggiunta, la Corte d’Appello avrebbe tratto elementi di valutazione dalla supposta condivisione del programma all’interno del quale sarebbe stato ben distinguibile il profilo religioso da quello liturgico della manifestazione civile oltre che dalla presenza del logo dell’Arcidiocesi che sarebbe servito esclusivamente ad attribuire exequatur liturgico al programma.

La Corte avrebbe dovuto, invece, tener conto che l’Arcidiocesi aveva fatto parte del Comitato d’onore, ma non di quello organizzatore, il solo cui era riferibile l’organizzazione della manifestazione.

7. Con il quarto motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, l’Arcidiocesi denuncia la violazione degli artt. 11 Cost., degli artt. 132, 163 e 164 c.p.c., degli artt. 24,1,3 Cost., perchè le azioni risarcitorie dei danneggiati erano state ricondotte all’art. 2043 c.c., salvo, poi, con le comparse conclusionali, imputare ulteriori e diversi profili di responsabilità ai sensi degli artt. 2049,2050 e 2051 c.c., senza che la Corte d’Appello rilevasse la violazione delle cadenze processuali e, anzi, qualificando fatti non allegati dai danneggiati, ma attinti da altre fonti non acquisite regolarmente al contraddittorio.

8. Con il quinto motivo l’Arcidiocesi, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, lamenta la violazione degli artt. 1227 e 2049 c.c. nonchè degli artt. 132,163 e 164 c.p.c. e degli artt. 24,1 e 3 Cost.

La Corte territoriale, pur rilevando, da parte della vittima la avvenuta violazione delle prescrizioni del Ca. e delle forze dell’ordine, la sua pregressa esperienza, l’imprudenza, l’età adulta quale elemento di valutazione del pericolo e di consapevolezza della situazione, anzichè ritenerlo l’esclusivo responsabile dell’evento occorsogli, lo aveva giudicato responsabile solo nella misura del 20% del danno subito; in aggiunta, non aveva tenuto conto che in sede penale F.C.R. era stato ritenuto responsabile nella misura del 50%, violando così il principio dell’unità della giurisdizione e quello della libera valutazione della prova atipica, applicabili in ragione del sovraordinato principio di ragionevolezza.

9. Con il sesto ed ultimo motivo, data la straordinarietà del fatto, il contesto e il rilevante concorso del danneggiato, l’Arcidiocesi lamenta la mancata compensazione delle spese di lite.

Ricorso incidentale di N.V.R., F.C.A. e F.C.C..

10. Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, asserendo che la Corte d’Appello avrebbe dovuto tener conto che la vittima non avrebbe potuto prevedere che la salita sarebbe stata fatta di corsa invece che al passo e che nella situazione concreta, cioè nel caos determinato dal tumulto della calca dei fedeli sia all’interno che all’esterno dei cordoli, sarebbe stato dato l’ordine di partire; perciò, avrebbe dovuto ritenere l’incidente mortale interamente imputabile ai danneggianti e, dunque, verificatosi esclusivamente per cause indipendenti dalla percezione del rischio da parte della vittima.

11. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 2056 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui la Corte d’Appello non ha liquidato la somma risarcitoria nel valore massimo tabellare a loro favore, tenuto conto della giovane età della vittima, 22 anni, del particolare legame affettivo con i congiunti, dell’innaturalezza per un genitore della morte dell’unico figlio maschio.

Ricorso incidentale di C.R.A. e F.C.F..

12. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione dell’art. 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, asserendo che la Corte d’Appello avrebbe dovuto tener conto che la vittima non avrebbe potuto prevedere che la salita sarebbe stata fatta di corsa invece che al passo e che nella situazione concreta, cioè nel caos determinato dal tumulto della calca dei fedeli sia all’interno che all’esterno dei cordoli, sarebbe stato dato l’ordine di partire perciò, avrebbe dovuto ritenere l’incidente mortale interamente imputabile ai danneggianti e, dunque, verificatosi esclusivamente per cause indipendenti dalla percezione del rischio da parte della vittima.

13. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 2056 c.c.

La Corte territoriale non avrebbe tenuto conto della risarcibilità del danno patrimoniale futuro, contravvenendo alla giurisprudenza di legittimità che, nel caso di morte del congiunto, riconosce il pregiudizio derivante dal venir meno delle prestazioni aggiuntive anche su base presuntiva. Non potendosi dubitare che la vittima avrebbe destinato tutto il proprio futuro reddito al mantenimento della famiglia, il giudice a quo avrebbe dovuto provvedere a liquidare in via equitativa ex art. 2056 c.c. il danno patrimoniale futuro.

Inoltre, la Corte d’Appello avrebbe dovuto procedere alla rivalutazione monetaria delle somme liquidate e non anche alla devalutazione, in considerazione della funzione ripristinatoria del risarcimento del danno e del principio per cui la durata del processo non può risolversi a danno della parte che nel quantificare il danno fa riferimento ai valori monetari esistenti al momento del sinistro.

15. Vanno in via preliminare esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso principale formulate da C.R.A. e F.C.F. e da N.R.V., A. e F.C.C., nei loro controricorsi.

La prima riguarda l’invalidità della procura speciale allegata al ricorso per assenza di autenticazione da parte del difensore, risultando la procura speciale autenticata dal Segretario Generale del Comune di Catania.

L’eccezione non merita accoglimento.

Ricordato che questa Corte è pervenuta ad elaborare principi interpretativi restrittivi delle norme processuali, in base al canone ermeneutico secondo il quale è necessario dare alle norme processuali una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia che è istituzionalmente propria del processo e, però, consenta, per quanto possibile, di limitare al massimo l’operatività di irragionevoli sanzioni di inammissibilità in danno delle parti che di quella garanzia dovrebbero giovarsi (Cass. 08/09/2004, n. 18088), è da ritenere infondata l’eccezione di nullità della procura ad litem con riferimento alla mancanza dell’attestazione di autenticità da parte del difensore della firma apposta dalla parte, poichè tale aspetto non è requisito posto a pena di nullità dell’atto; la mancata certificazione, da parte del difensore, dell’autografia della firma del ricorrente, apposta sulla procura speciale in calce o a margine del ricorso per cassazione costituisce una mera irregolarità, che non comporta la nullità del mandato ad litem, poichè tale nullità non è comminata dalla legge nè la predetta formalità incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato, salvo che la controparte non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l’autografia della firma non autenticata (Cass., Sez. Un., 06/05/1996, n. 4191).

La seconda riguarda l’eccezione di passaggio in giudicato della sentenza impugnata con riferimento all’appello incidentale proposto dai resistenti, essendo l’impugnazione del Comune rivolta esclusivamente nei confronti delle statuizioni della sentenza relative al parziale accoglimento dell’appello proposto dall’Arcidiocesi.

Anche tale eccezione non merita accoglimento perchè il Comune di Catania ha impugnato la sentenza d’Appello per essere stato condannato, a seguito di impugnazione principale dell’Arcidiocesi di Catania e di impugnazione incidentale dei danneggiati, in proprio – e non come componente del Comitato organizzatore – in solido con gli altri danneggianti al risarcimento del danno ed al pagamento alle spese processuali ed a quelle di CTU, perciò sulle statuizioni indicate dagli odierni resistenti non vi è stata alcuna acquiescenza da parte del Comune, atta a giustificare la formazione di un giudicato interno con effetti preclusivi, come invocato dai resistenti.

16. Si può dunque passare allo scrutinio del ricorso principale, il quale risulta inammissibile.

17. L’eventuale accoglimento del primo motivo di ricorso non sarebbe di alcuna utilità per il Comune ricorrente, perchè anche le parti danneggiate – N.R.V., A., F.C.C., con il secondo motivo di Appello, e C.R.A., F.C.F., con il terzo – avevano impugnato la sentenza di prime cure per non aver riconosciuto la responsabilità del Comune di Catania in proprio e non solo come componente del comitato per i festeggiamenti. E sul punto il Comune di Catania non prospetta alcuna censura. In altri termini, anche ammettendo che quella dell’Arcidiocesi fosse una domanda nuova che la Corte d’Appello non avrebbe dovuto esaminare, il petitum del giudizio di appello era stato comunque esteso alla responsabilità diretta del Comune dall’appello incidentale delle parti danneggiate.

Per di più, la Corte d’Appello ha precisato che l’Arcidiocesi, a differenza delle parti danneggiate, non aveva espressamente chiesto la condanna del Comune, pur avendo lamentato il mancato accertamento della responsabilità, concludendo, tuttavia, che la domanda risarcitoria poteva facilmente dedursi dal contesto dell’intero atto di citazione e dalla doglianza relativa alla mancata valutazione della violazione degli obblighi posti a carico dell’ente pubblico a differenza di quanto avvenuto con riferimento alla sua posizione.

18. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Il ricorrente ha sì dedotto il vizio di motivazione, ma nella sostanza, al di là del nomen iuris utilizzato, le sue doglianze si riducono ad una asserita contraddittorietà della motivazione che deriverebbe solo dal fatto che la Corte territoriale abbia ritenuto più soggetti corresponsabili del medesimo evento. Non c’è un ragionamento perplesso o incomprensibile che si traduca in una non motivazione su una queastio facti decisiva, il cui esame sia stato omesso, ma un mero confronto tra due diverse valutazioni: quella del giudice di prime cure favorevole al ricorrente e quella della Corte distrettuale che invece lo aveva ritenuto responsabile, oltre che come componente del Comitato organizzatore anche direttamente, ex art. 2049 c.c.

Il ricorrente pretende, infatti, di desumere la contraddittorietà della motivazione dal fatto che la sentenza impugnata abbia ritenuto più soggetti corresponsabili dello stesso evento di danno, senza esporre il fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume contraddittoria o delle ragioni per le quali la motivazione è inidonea a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale).

Non solo il ruolo della autorità di pubblica sicurezza non sostituisce infatti nè quello della polizia locale nè il ruolo dell’amministrazione locale quale responsabile della sicurezza stradale, sociale e di pronto intervento, ma è del tutto irrilevante, onde escludere la responsabilità del Comune, che la decisione di consentire l’uscita del fercolo sia stata assunta dal Comitato organizzatore, dall’Arcidiocesi e dall’autorità di pubblica sicurezza, perchè la morte della vittima non fu causata solo dalla uscita del fercolo, ma da un insieme di concause, rappresentate dalla scelta del percorso della processione lungo una strada ove era presente un’ingombrante impalcatura, dalla velocità non adattata allo stato dei luoghi – strada in salita e carreggiata ristretta dalla presenza di un ostacolo – dal mancato rispetto, da parte dei devoti, del divieto – di collocarsi davanti al fercolo tra i cordoni, dall’inadatto sistema di frenata del fercolo quando era in corsa, dalla presenza di un’immensa folla proveniente da tutta la Sicilia, in assenza di misure di contenimento della calca, oltre che dall’imprudenza e dall’avvedutezza della vittima.

19. Il terzo motivo di ricorso non coglie la ratio decidendi della pronuncia gravata. Il che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, rende il mezzo impugnatorio inammissibile, poichè il motivo d’impugnazione è rappresentato dall’enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d’impugnazione, la decisione è erronea; ne consegue che, in quanto, per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere. Il motivo che non rispetti tale requisito si deve considerare nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un non motivo, è espressamente sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4 e nell’art. 375 c.p.c. con il riferimento alla mancanza dei motivi.

Nel caso di specie, il ricorrente ipotizza che gli sia stata ascritta una sorta di responsabilità atipica sicuramente non consentita dalle norme in vigore (p. 15 del ricorso), con ciò alludendo verosimilmente al fatto che la Corte distrettuale non gli abbia imputato la responsabilità nè ai sensi dell’art. 2054 c.c. nè ai sensi dell’art. 2051 c.c. – infatti, a p. 38, la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante individuare chi fosse tenuto alla manutenzione del fercolo così come ha ritenuto non conducente accertare chi ne fosse il proprietario – come era stato chiesto dagli attori in citazione.

La responsabilità atipica di cui parla il ricorrente non è altro che la responsabilità di cui all’art. 2043 c.c., la quale, infatti, è ontologicamente atipica.

Ciò che la Corte territoriale ha rilevato è la ricorrenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento, ritenendolo rilevante evidentemente ex art. 2043 c.c. sotto il profilo della imputabilità della condotta omissiva all’agente, la quale, peraltro, non presuppone necessariamente una fonte legale o negoziale, ma può derivare anche da una specifica situazione che esiga una determinata attività a tutela di un diritto altrui, là dove vi sia un rapporto anche di fatto con la fonte di pericolo, tale per cui risulti nella possibilità del soggetto, con un minimo di diligenza, elidere le sue potenzialità dannose, ovvero là dove vi sia un principio di affidamento nell’intervento del soggetto da cui è ragionevole attendersi, per posizione e ruolo, l’assunzione di uno specifico comportamento.

L’unica argomentazione difensiva formulata dal ricorrente è una censura generica e non circostanziata relativa all’asserito difetto di prova degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità.

Sul ricorso incidentale dell’Arcidiocesi di Catania.

20. I primi tre motivi, il secondo dei quali è articolato in due parti contrassegnate dalla lett. A e lett. B. che sono stati considerati motivi autonomi, sono inammissibili.

Sbaglia l’Arcidiocesi nell’attribuire alla Corte d’Appello la confusione della titolarità della legittimazione passiva ad causam, derivante dalla deduzione di fatti in astratto idonei a fondare la richiesta risarcitoria, con la questione inerente la contestazione della titolarità dal lato passivo del rapporto controverso che si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio del convenuto e, di conseguenza, è in errore quando perviene alla conclusione che gli attori si fossero limitati a prospettare dei fatti inidonei a condurre all’imputazione a sè della responsabilità ex art. 2049 c.c., perchè un conto sono i requisiti di cui all’art. 163 c.p.c. altro è l’asserita infondatezza delle pretese attoree.

Spettava al giudice qualificare sulla scorta dei fatti allegati la domanda degli attori e procedere alla ricostruzione dei fatti in base agli elementi di prova acquisiti.

Contrariamente a quanto ritenuto dall’Arcidiocesi, il principio di atipicità della prova – fondato sulla mancanza nell’ordinamento civilistico di una norma generale come quella prevista nell’ambito del processo penale (art. 189 c.p.p.) di chiusura, nel senso dell’indicazione del numerus clausus delle prove, nonchè sul correlativo principio del libero convincimento del giudice – consentiva al giudice, tenuto a rivalutare integralmente i fatti di causa, di tener conto, ai sensi degli artt. 651,652 e 654 c.p.p., pur senza attribuire alla sentenza penale effetti vincolanti nel giudizio civile, delle acquisizioni probatorie del processo penale senza che nessuna lesione del diritto di difesa potesse ipotizzarsi a carico dell’Arcidiocesi. Quest’ultima, infatti, aveva beneficiato, già nel giudizio penale, della facoltà di contestare la legittima effettuazione delle prove nel giudizio civile ed il loro contenuto oltre che di quella di dedurre e produrre mezzi di prova in senso contrario.

Nel giudizio civile, infatti, le prove raccolte nel processo penale assumono valore di elementi indiziari, come tali liberamente valutabili dal giudice, ai fini del proprio convincimento sui fatti di causa, sulla base delle regole che disciplinano le prove per presunzioni.

In virtù della facoltà di apprezzamento del rilievo del quadro probatorio, il giudice d’Appello aveva, dunque, correttamente rivalutato l’intero compendio, senza limitarsi a recepire le conclusioni del giudice penale, ed aveva preso in considerazione anche le prove addotte dall’Arcidiocesi per confutare – sulla scorta dell’argomento che il Ca. fosse stato scelto dal Capitolo della Cattedrale e quindi da un soggetto giuridico distinto sottoposto al controllo del vescovo diocesano – il fatto di essere titolare della situazione controversa ed in particolare per negare di avere avuto alcun ruolo nella nomina del Ca., della cui condotta era stata chiamata a rispondere, in sede civile, ai sensi dell’art. 2049 c.c.

In sintesi, come riconosciuto dalla Corte territoriale, i fatti di causa avevano consentito di ravvisare la legittimatio ad causam dell’Arcidiocesi e, quindi, di ritenere soddisfatto l’onere a carico degli attori in citazione di allegazione dei fatti individuanti la responsabilità della convenuta a titolo risarcitorio, a prescindere dal titolo di responsabilità invocato nei suoi confronti, il quale non vincolava il giudice, cui spettava, in base ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, definire la natura del rapporto controverso al fine di precisarne il contenuto, gli effetti e le norme applicabili. Perciò è del tutto irrilevante che gli attori avessero invocato la ricorrenza di una responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. e che il giudice, esaminata la domanda e i fatti allegati, abbia concluso, diversamente, che il rapporto controverso fosse riconducibile ad altro titolo di responsabilità.

A conti fatti, le articolate prospettazioni dell’Arcidiocesi si traducono, senza dedurre distintamente doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed ai profili attinenti invece alla ricostruzione del fatto, in una critica all’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo ed in genere al merito della causa che, oltre a non essere correttamente veicolata attraverso la deduzione dei canoni interpretativi asseritamente violati, risulta sostenuta ed argomentata solo attraverso la contrapposizione della propria diversa ed a sè favorevole ricostruzione ed interpretazione alla conclusione della Corte territoriale; quest’ultima, peraltro, oltre che logicamente argomentata si dimostra anche suffragata da due deposizioni testimoniali rese nel processo penale, sulla cui eccezione di inutilizzabilità, ai sensi dell’art. 246 c.p.c. – a mente del quale nel processo civile è fatto divieto di assumere come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che ne potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio – il giudice a quo si è espresso con una motivazione non efficacemente attinta da censura da parte dell’Arcidiocesi. E, comunque, deve ritenersi che il giudice civile possa trarre elementi di convincimento – sempre che li sottoponga ad adeguato vaglio critico – anche dalle dichiarazioni c.d. autoindizianti rese da un soggetto in un procedimento penale, non potendo la sanzione di inutilizzabilità prevista dall’art. 63 c.p.p., posta a tutela dei diritti di difesa in quella sede, spiegare effetti al di fuori del processo penale. L’utilizzabilità, difatti, è categoria del solo rito penale, ignota al processo civile, e le prove precostituite entrano legittimamente nel processo, attraverso la loro produzione, e nella decisione in virtù di un’operazione di logica giuridica, e tali risultanze probatorie appaiono contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono (in termini: Cass. 25/06/2019, n. 16916).

Perciò, l’argomentazione difensiva incentrata sulla asserita arbitraria lettura della Corte della deposizione del sacerdote R. Cu., peraltro, neppure riportata nel ricorso, che non avrebbe, a differenza di quanto sostenuto dalla Corte territoriale, mai affermato che la nomina del C. era una prerogativa dell’arcivescovo nè che il C. fu nominato dal suo predecessore unitamente all’Arcivescovo precedente, perchè invece la nomina sarebbe stata fatta dal Priore del Capitolo che non rivestiva l’ufficio di Parroco della Cattedrale, la diversa interpretazione del contratto con cui era stato nominato il C. stipulato e sottoscritto dal Priore del Capitolo e dal Maestro del fercolo, con la sottoscrizione del delegato arcivescovile che, però, non sarebbe stato parte del contratto, ma sarebbe intervenuto esclusivamente a salvaguardia del principio di unità e coerenza dell’attività pastorale, costituiscono il risultato di una diversa valutazione dei fatti accertati dal giudice, riportata nel ricorso del tutto assertivamente e neppure dotata dei caratteri proprio del vizio cassatorio. Lo stesso ricorrente incidentale allude a p. 27 ad un errore di percezione dei fatti; errore di percezione che a certe condizioni avrebbe potuto giustificare semmai la revocazione della sentenza perchè sostanziatosi nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto la cui verità risulti, invece, in modo indiscutibile, esclusa o accertata in base al tenore degli atti o dei documenti di causa, sempre che il fatto oggetto dell’asserito errore non abbia costituito materia del dibattimento processuale su cui la pronuncia contestata abbia statuito.

Lo stesso tipo di critiche si attagliano alla questione relativa alla mancata partecipazione dell’Arcidiocesi al Comitato esecutivo dei festeggiamenti, introdotta nel giudizio per cassazione anch’essa attraverso una censura di errata percezione dei fatti nella loro sussunzione all’art. 41 c.c. e di erronea applicazione dell’art. 2729 c.c., fondata sull’ipotizzata violazione del carattere di specialità della L. n. 222 del 1985 rispetto alle norme civilistiche in tema di enti collettivi, sull’assenza di rilievo giuridico di espressioni, quale quella di gradimento pastorale, che non implicherebbero alcuna responsabilità e conseguenza, sulla degradazione dell’apposizione del logo dell’Arcidiocesi al programma della cerimonia religiosa ad un exequatur liturgico, carente di implicazioni giuridiche, sulla ipotizzata mera partecipazione dell’Arcidiocesi al Comitato d’onore, ma non a quello esecutivo, fondata un’argomentazione illogica e comunque contraddittoria: mancherebbe, secondo il ricorrente incidentale, la prova che l’Arcidiocesi abbia mai partecipato al Comitato esecutivo previsto dal Regolamento comunale del 2003, perchè tale partecipazione sarebbe stata desunta dalla Corte d’Appello sulla scorta di una presunzione, per giunta di secondo livello; tuttavia, l’Arcidiocesi pretende, invocando una presunzione a suo vantaggio, di dimostrare che essa al più avrebbe fatto parte del comitato d’onore, privo di responsabilità.

21. Il motivo numero quattro è infondato, perchè la quantificazione in misura percentuale del contributo colposo della vittima alla verificazione del danno è rimessa all’accertamento del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se correttamente motivato (Cass. 30/01/2019, n. 2531; Cass. 11/03/2004), n. 4993).

A tal riguardo sono destituiti di fondamento i rilievi secondo cui il giudice d’Appello avrebbe dovuto tener conto che in sede penale era stata accertata una responsabilità del C. nella misura del 50%.

La tesi dell’Arcidiocesi, peraltro, è basata anche su un principio non più vigente, quello dell’unità della giurisdizione (p. 37 del ricorso incidentale) f, fondato su una concezione del processo di matrice punitiva e su un sistema processuale inquisitorio, il quale, disponendo delle tecniche adeguate per ricercare la verità, era ineludibilmente individuabile quale sede elettiva ed esclusiva per l’accertamento dei fatti storici posti alla base del reato, anche quando gli stessi fatti avessero avuto rilievo extrapenale. Il sistema oggi vigente è ispirato all’opposto principio del favor separationis e ad un nuovo modo di intendere i rapporti tra giudizio civile e giudizio penale (cfr., di recente, Cass. 12/06/2019, n. 15859 e la giurisprudenza conforme successiva – fa leva su un contrasto tra giudicati, ai sensi dell’art. 651 c.p.p. e ss., che la Corte d’Appello ha negato con una motivazione non efficacemente censurata.

Gli artt. 651 c.p.p. e ss. riguardano solamente l’accertamento della sussistenza o della non sussistenza degli elementi di fatto che, integrando la fattispecie di reato per cui si procede, sono, al tempo stesso, costitutivi di una fattispecie civilmente rilevante. Queste disposizioni che, avendo contenuto derogatorio del principio di autonomia e separazione tra giudizio penale e civile, non sono suscettibili di applicazione analogica, operano sul piano dell’accertamento fattuale (c.d. “verità materiale”) e, in sostanza, come prevede la norma generale di chiusura dettata dall’art. 654 c.p.p., attribuiscono effetto preclusivo alla sentenza irrevocabile di condanna o di assoluzione nel giudizio civile solo quando in questo si controverta di un diritto, il cui riconoscimento dipende dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale.

La Corte territoriale, come si è anticipato, ha ben chiarito che il processo penale aveva riguardato solo l’accertamento della responsabilità diretta di R.A., il Ca., e non delle altre condotte illecite eventualmente poste in essere da soggetti non presenti in quel giudizio.

Ricorso incidentale di N.R., A. e F.C.C., rispettivamente, madre, padre e sorella della vittima.

22. Il primo motivo è inammissibile.

La censura si risolve nella richiesta di un diverso esito degli accertamenti di fatto che hanno condotto la Corte d’Appello a ritenere che la vittima con il proprio comportamento avesse, ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, concorso a cagionare il danno occorsogli – pregressa esperienza, posizionamento dinanzi al fercolo in mezzo ai cordoni, violando le prescrizioni del C. e delle forze dell’ordine, lo stato dei luoghi, l’invito ad allontanarsi dell’amica che lo accompagnava -.

23. Il secondo motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha fatto applicazione di un corretto criterio di liquidazione del danno, individuando gli elementi che l’hanno guidata nella sua determinazione: criteri che sono in linea con la giurisprudenza di questa Corte. Infatti, ai congiunti è riconoscibile il risarcimento del danno non patrimoniale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima (Cass. 27/05/2019, n. 14392). La motivazione del Giudice di merito dà per assunto che il fatto illecito, costituito dalla morte del congiunto, abbia dato luogo ad un danno non patrimoniale, consistente nella perdita del rapporto parentale, allorchè colpisce soggetti legati da uno stretto vincolo di parentela, la cui estinzione lede il diritto all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che caratterizza la vita familiare nucleare, ed ha dato rilievo ai fini della determinazione del quantum debeatur ad un elemento, quello della convivenza quale connotato attraverso il quale si esteriorizza l’intensità della relazione affettiva con la vittima. Pertanto ha proceduto equitativamente alla determinazione del danno – proprio come invocato dai ricorrenti incidentali – tenendo conto degli elementi oggettivi nella sua disponibilità, perchè offerti dai danneggiati, i quali, a parte il rapporto con la vittima e la giovane età di quest’ultima, non hanno offerto circostanze volte a dimostrare che, ad esempio, nonostante la mancanza di convivenza e la possibilità per i genitori superstiti di contare sull’assistenza morale e materiale dell’atra figlia per superare il trauma, vi fossero una abitudine di vita ed un – legame più inteso di quello presuntivamente rilevato dal giudice.

Ricorso incidentale di C.R.A., in proprio e nell’interesse di F.C.F., e Fe.Ca.Fr., moglie e figli della vittima.

23. Il primo motivo coincide con il primo motivo del ricorso incidentale dei genitori e della sorella della vittima e va incontro, quindi, allo stesso giudizio di inammissibilità.

24. Quanto al secondo motivo, la Corte d’Appello ha ritenuto la somma complessivamente liquidata superiore a quella richiesta dalla moglie della vittima per sè e per i figli con la comparsa di intervento in giudizio (p. 39).

Tale statuizione collegata a quella contenuta a p. 32 riferita al fatto che la moglie della vittima avesse quantificato il danno, partendo dall’accertamento in sede penale della misura del 50% di corresponsabilità di F.C.R., è stata censurata a p. 17 del ricorso incidentale ove si assume che l’indicazione da parte del Tribunale di una richiesta di risarcimento al 50% era stata specificamente impugnata attraverso l’Appello incidentale nell’ambito del quale aveva provveduto a richiedere il ristoro di tutti i danni patiti.

Fondata o meno che sia tale censura, il difetto di interesse ad impugnare la liquidazione costituisce un’autonoma ratio decidendi, che lascia in piedi l’altra motivazione con cui il giudice a quo ha negato il risarcimento del danno patrimoniale rappresentata dal difetto di prova del reddito del de cuius.

E’ vero che questa Corte ha ripetutamente affermato che “i danni patrimoniali futuri risarcibili sofferti dal coniuge di persona deceduta a seguito di fatto illecito, ravvisabili nella perdita di quei contributi patrimoniali o di quelle utilità economiche che, sia in relazione ai precetti normativi (artt. 143 e 433 c.c.) che per la pratica di vita improntata a regole etico – sociali di solidarietà e di costume, il defunto avrebbe presumibilmente apportato, assumono l’aspetto del lucro cessante, ed il relativo risarcimento è collegato ad un sistema presuntivo a più incognite, costituite dal futuro rapporto economico tra i coniugi e dal reddito presumibile del defunto, ed in particolare dalla parte di esso che sarebbe stata destinata al coniuge; la prova del danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità del coniuge o avrebbe apportato al medesimo utilità economiche anche senza che ne avesse bisogno” (Cass. 06/12/2018, n. 31549); nondimeno, l’invocazione di tale presunzione implica che si parta da un fatto certo e cioè che il de cuius percepisse un reddito.

Deve ritenersi, dunque, non erronea la decisione con cui la Corte d’Appello ha negato il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante richiesto dalla moglie della vittima per sè e per i figli, perchè, appunto, la possibilità di invocare la liquidazione del danno sulla base di una valutazione equitativa circostanziata, a carattere satisfattivo, che tenga conto della rilevanza del legame di solidarietà familiare, da un lato, e delle prospettive di reddito professionale avrebbe richiesto la prova di una base reddituale che, nel caso di specie, è, invece, mancata.

Quanto alla rivalutazione ed agli interessi, la sentenza impugnata ha calcolato la devalutazione delle somme liquidate alla data del sinistro e gli interessi sulle somme anno per anno rivalutate. Deve ritenersi dunque che abbia tenuto conto del pregiudizio subito per la ritardata liquidazione del debito di valore, perciò si pone in sintonia con il consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo il quale per il debito di valore si deve innanzitutto procedere alla aestimatio in moneta relativa all’epoca del sinistro, rivalutare il credito risarcitorio al momento della liquidazione e tenere conto dell’ulteriore danno da ritardato adempimento, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte (Cass. 19/07/2019, n. 19503).

E’ del tutto assertiva l’affermazione secondo cui gli importi liquidati a titolo di danno non patrimoniale erano stati espressi al valore monetario all’epoca del sinistro e che perciò non dovessero essere devalutati. Proprio il riferimento alla devalutazione depone semmai in senso contrario.

Perciò, il mezzo è, in parte, inammissibile, in parte, infondato.

24. In conclusione, il ricorso principale è da considerarsi inammissibile; i ricorsi incidentali sono giudicati infondati.

25. Tenuto conto della complessità della vicenda, le spese di lite sono interamente compensate tra le parti.

26. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico del ricorrente principale e di quelli incidentali l’obbligo di pagamento del doppio del contributo unificato.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e giudica infondati i ricorsi incidentali. Dispone la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Terza civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2019

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