Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33758 del 18/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 18/12/2019), n.33758

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

ricorso n. 26648/2014 R.G. proposto da:

P.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimo Pistilli e

dall’avv. Stefania Reho del Foro di Viterbo, con domicilio eletto in

Roma, via Nazario Sauro n. 16, presso il loro studio;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato,

domiciliata ope legis in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– resistente –

AGENZIA DELLE ENTRATE, Direzione Provinciale di Viterbo;

– intimata –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio

n. 252/29/13 pronunciata il 17.4.2013 e depositata il 31.7.2013;

Udita la relazione svolta in Camera di Consiglio del 24.9.2019 dal

consigliere Dott. Saieva Giuseppe.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con ricorso proposto dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo, P.E. impugnava l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti dall’Agenzia delle Entrate in relazione ad IRPEF e addizionali per l’anno 2004, ritenendo di dovere disconoscere la detrazione della somma di Euro 20.000,00 versata in un’unica soluzione al coniuge divorziato, (ma in realtà in cinque versamenti in due anni), a seguito di atto di transazione sottoscritto dai coniugi in data 5.12.2003.

2. La Commissione tributaria Provinciale accoglieva il ricorso ritenendo che l’atto di transazione stipulato dal contribuente con l’ex coniuge a chiusura delle pendenze economiche derivanti dal mancato versamento dell’assegno periodico disposto nella sentenza di divorzio non costituiva una dazione una tantum avendo comunque natura di assegno divorzile.

3. Avverso detta sentenza proponeva appello l’Ufficio, assumendo che le norme sulla deducibilità sono di stretta interpretazione, talchè non era possibile ritenere deducibili somme versate una tantum con effetto transattivo.

4. Con sentenza n. 252/29/13 pronunciata il 17.4.2013 e depositata il 31.7.2013 la Commissione Tributaria Regionale del Lazio accoglieva il ricorso dell’Agenzia.

5. Il contribuente proponeva quindi ricorso per cassazione affidandolo a sette motivi.

6. L’agenzia delle entrate, ritualmente intimata, non ha presentato alcun controricorso e si è costituita in giudizio ai soli fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa ex art. 370 c.p.c..

7. Il ricorso è stato fissato per l’adunanza camerale del 24.9.2019, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 5 “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, lamentando che con la sentenza impugnata i giudici di appello avrebbero omesso “integralmente di disaminare e motivare, nonchè decidere sulla questione dell’ammissibilità o meno dell’appello” proposto dall’Ufficio.

1.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 4 “nullità della sentenza e del procedimento ai sensi dell’art. 112 c.p.c.”, assumendo che correlativamente a quanto esposto nel motivo precedente, la sentenza di secondo grado nel non pronunciarsi sull’eccezione di inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate sarebbe nulla per omessa pronuncia su una delle domande.

1.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce ancora ex art. 360 c.p.c., n. 4 “violazione dell’art. 112 c.p.c.”, sempre in relazione alla questione che la sentenza non si sia pronunciata sull’eccezione di inammissibilità del gravame proposta dal ricorrente per violazione delle norme procedurali che impongono la specifica censura della sentenza appellata, atteso l’ufficio si era limitato a riproporre le eccezioni svolte in primo grado.

1.4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 3 “violazione dell’art. 342 c.p.c. e norme collegate” essendosi l’Agenzia limitata a ripresentare in secondo grado i motivi già esposti in primo grado a (preteso) fondamento delle proprie ragioni.

2.1. Detti motivi, suscettibili di trattazione unitaria in quanto strettamente connessi, si appalesano inammissibili non essendo assistite dal prescritto carattere di autosufficienza e di specificità.

2.2. Le doglianze con cui il ricorrente lamenta i vizi dedotti e l’omesso esame da parte dei giudici di appello non risultano infatti compiutamente riportate nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di valutarne la fondatezza, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (v. Cass. n. 17049/2015; n. 29368/2017).

2.3. Invero, l’atto di impugnazione deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a permettere la valutazione della fondatezza delle ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito.

2.4. Il ricorrente ha perciò l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (Cass. n. 17198/2016; n. 14182/2016; n. 14784/2015).

2.5. L’opinione reiteratamente espressa da questa Corte è nel senso che “L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la statuizione di inammissibilità di un motivo di appello, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea la statuizione dei giudice di appello e sufficientemente specifico, invece, il motivo di gravame sottoposto a quel giudice, e non può limitarsi a rinviare all’atto di appello, ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziarne la pretesa specificità.” (Cass. n. 20405/2006).

2.6. Nel caso di specie, il ricorrente avrebbe dovuto far emergere, in questa sede di legittimità, come il requisito di specificità dei motivi di appello sia stato soddisfatto, riportando le argomentazioni all’uopo svolte, correlandole con le motivazioni della sentenza gravata, in tal modo offrendo dimostrazione di aver adeguatamente contestato il fondamento logico-giuridico della decisione a lui sfavorevole.

2.7. Sotto altro profilo va comunque rilevato che “l’omesso esame di una questione puramente processuale non integra il vizio di omessa pronuncia, configurabile soltanto con riferimento alle domande ed eccezioni di merito, dovendosi escludere che l’omesso esame di un’eccezione processuale possa dare luogo a pronuncia implicita, idonea al giudicato, venendo in rilievo la diversa questione della riproposizione dell’eccezione in appello” (v. Cass. n. 21809/2019). Invero, come osservato da questa Corte la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte, può semmai configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. solo se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata (v. Cass. n. 6174/2018; Cass. n. 321/2016).

3.1. Con il quinto motivo (erroneamente indicato come quarto) il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 3 “violazione degli artt. 1965 c.p.c. e ss. in materia di transazione con particolare riferimento all’art. 1976 c.c. in combinato disposto con l’art. 1230 c.c. in materia di novazione, nonchè violazione dell’art. 1362 c.c. e sui canoni legali di ermeneutica contrattuale”, ritenendo che la C.T.R. abbia errato nel ritenere che l’importo per cui è causa, versato dal P. all’ex coniuge, non avesse più natura di assegno di mantenimento essendo stato lo stesso corrisposto a seguito di transazione e che quindi di novazione del rapporto. Nella specie viceversa secondo il ricorrente la transazione sottoscritta dai coniugi non avrebbe comportato alcuna novazione avendo le parti rinegoziato unicamente l’ammontare e le modalità di versamento dell’originario assegno di mantenimento e null’altro. A dire del ricorrente le parti avrebbero semplicemente convenuto la modificazione quantitativa della precedente obbligazione ed il differimento della scadenza per il suo adempimento, talchè in mancanza di novazione, l’originaria obbligazione non si sarebbe estinta. Nella specie mancherebbe infatti l”animus novandi”, ossia l’inequivoca, comune, intenzione di entrambe le parti di estinguere l’originaria obbligazione, sostituendola con una nuova.

3.2. Con il sesto motivo (erroneamente indicato come quinto) il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 3 “violazione dell’art. 160 c.p.c. in combinato disposto con la L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6, nonchè di ogni norma in materia di assegno di mantenimento, atteso che i coniugi non avrebbero mai potuto addivenire ad una transazione, tanto più con effetti novativi, in quanto l’assegno divorzile è un diritto di credito imprescrittibile, irrinunciabile e indisponibile che un ex coniuge vanta nei confronti dell’altro, come si evince dalla normativa di cui alla L. n. 898 del 1970 e dall’art. 160 c.c. secondo cui gli sposi non possono derogare nè ai diritti nè ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio, talchè un’eventuale transazione sarebbe comunque rimasta indifferente ai fini tributari, in senso migliorativo o peggiorativo.

3.3. Con il settimo ed ultimo motivo (erroneamente indicato come sesto) il ricorrente deduce ex art. 360 c.p.c., n. 3 “violazione del T.U.I.R. n. 917 del 1986, art. 10, nonchè artt. 3 e 8, asserendo che la soluzione cui sono pervenuti i giudici di appello contrasterebbe con quelle disposizioni tributarie che prevedono espressamente la deducibilità dal reddito complessivo del contribuente degli assegni periodici corrisposti al coniuge, ad esclusione di quelli destinati al mantenimento dei figli, in conseguenza di separazione legale ed effettiva, di scioglimento o annullamento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

4.1. Detti motivi, suscettibili di trattazione unitaria in quanto strettamente connessi, si appalesano inammissibili.

4.2. Invero, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016). Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi a questa Corte di verificare il fondamento della lamentata violazione.

4.3. Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola preliminare indicazione della norma che si ritiene violata, ma non dimostrati per mezzo di una circostanziata critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016). Ciò in quanto, il controllo affidato alla Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, il motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che afferiscono all’apprezzamento delle risultanze istruttorie motivatamente svolto dalla corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

4.4. Nel caso di specie la C.T.R. tenuto conto del fatto che con la transazione sottoscritta dai coniugi il 5.12.2003 le stesse avevano “inteso regolare reciprocamente non solo le situazioni di debito e credito derivanti dal mancato versamento degli assegni (che si sarebbero allora mantenuti entro i limiti previsti dalla norma di agevolazione), ma anche diverse situazioni patrimoniali e segnatamente quelle relative alla quota della metà della casa coniugale, alla riconsegna della stessa, alla regolazione della proprietà dei beni mobili ivi contenuti” ha ritenuto che con l’atto transattivo “la causa giuridica costituita dall’obbligo alimentare fosse stata novata dalla causa giuridica del rilascio oneroso del possesso dell’immobile. Non quindi in virtù del fatto che il versamento sia stato eseguito una tantum, ma in funzione della natura novativa della transazione, la somma versata non poteva essere assimilata agli assegni periodici deducibili”.

4.5. Dette considerazioni afferenti al merito della questione appaiono senz’altro idonee a suffragare il convincimento dei giudici di merito, il cui apprezzamento non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni della propria decisione, senza essere tenuti a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

4.6. Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonchè la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, la soluzione adottata cui il Giudice di secondo grado sia pervenuto in base ad un giudizio logicamente motivato, diverso da quello formulato dal primo Giudice (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

4.7. Le censure in esame si risolvono, in sostanza, nella sollecitazione ad effettuare un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dai Giudici appello non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (Cass. n. 5939 del 2018). Ma, come questa Corte ha più volte sottolineato, compito della Cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che nel caso di specie è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

5. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore dell’Agenzia delle Entrate che liquida in 2.300,00 Euro, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Cosi deciso in Roma, in Camera di Consiglio, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019

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