Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33751 del 18/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/12/2019, (ud. 23/10/2019, dep. 18/12/2019), n.33751

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8671-2017 proposto da:

TELCOM SPA, in persona del Presidente del C.d.A. e legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE XXI APRILE

11, presso lo studio dell’avvocato CORRADO MORRONE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITO D’AMBRA, giusta

procura a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI OSTUNI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2188/2016 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

LECCE, depositata il 20/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/10/2019 dal Consigliere Dott. CAPRIOLI MAURA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato D’AMBRA che ha chiesto il rinvio

per termini per rinnovo della notifica.

Fatto

Con sentenza nr 2188/2016 la CTR di Bari, sez. distaccata di Lecce, rigettava l’appello proposto da Telcom avverso la sentenza nr. 93/2010 della CTP di Brindisi con cui era stato rigettato il ricorso della società nei confronti degli avvisi di pagamento emessi dal Comune di Ostuni per omesso dichiarazione della Tarsu per gli anni 2006/2007/2008 in relazione al complesso industriale sito nel menzionato Comune.

In particolare in ordine ai profili in discussione la CTR escludeva che l’atto impugnato potesse ritenersi un duplicato dell’avviso di accertamento in assenza di adeguati riscontri probatori.

Riteneva corretto l’utilizzo del rilevamento in loco effettuato nell’anno 2008 per accertare anche periodi di imposta precedenti e l’assoggettamento a Tarsu dei locali adibiti a magazzino in quanto inidonei a produrre rifiuti speciali

Avverso tale sentenza Telcom s.p.a. propone ricorso per cassazione affidato a 13 motivi di ricorso cui resiste con controricorso n. Comune di Ostuni.

Diritto

In via preliminare va rigettata l’eccezione inammissibilità del ricorso sollevata dal Procuratore generale in relazione alla supposta mancata produzione della cartolina di ricevimento.

Dall’esame degli atti emerge che la ricorrente ha prodotto in originale la prova dell’avvenuta regolare notifica del ricorso per cassazione al Comune di Ostuni. Con il primo motivo e secondo denuncia la violazione e falsa applicazione del principio di doppia imposizione previsto nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene in particolare che detto principio avrebbe assunto valore di principio generale nel diritto tributario e sarebbe applicabile anche a quelle imposte per le quali non sarebbe espressamente previsto.

Afferma che nel caso concreto vi sarebbe una duplicazione dell’avviso avente ad oggetto la stessa imposta e i medesimi anni e che di essa aveva fornito riscontro documentale.

Con un secondo motivo deduce l’illegittimità dell’utilizzazione del rilevamento effettuato nel 2008 per accertare periodi precedenti.

Con il terzo e quarto motivo la ricorrente si duole della violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, attuativo dell’art. 15 della Direttiva Cee nr. 75/442, come modificato dall’art. 1 della Direttiva CEE nr. 91/156.

La contribuente critica l’interpretazione data dalla CTR alle norme comunitarie sostenendo che dalla lettura complessiva delle previsioni vincolanti per l’Amministrazione si ricaverebbe il principio per il quale il pagamento richiesto per la raccolta dei rifiuti costituirebbe un corrispettivo per la prestazione di un servizio e che tale qualificazione porterebbe ad escludere ogni regime di esclusiva a favore del Comune stesso che non potrebbe applicare il tributo nei casi in cui il produttore abbia provveduto in proprio o attraverso un raccoglitore privato allo smaltimento dei rifiuti.

Con il quinto motivo la società lamenta la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 73, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Osserva che il Comune non avrebbe mai inviato alla Telcom un motivato invito D.Lgs. n. 507 del 1993 ex art. 73 all’esibizione di atti e di documenti sicchè l’accesso ai locali per la misurazione delle superfici e per il rilevamento delle loro destinazione sarebbe illegittimo.

Sostiene altresì che secondo l’orientamento espresso dalla S.U. con la sentenza nr. 19667/2014 il Comune avrebbe avuto l’obbligo per tutti quei provvedimenti che incidono negativamente sui diritti e sugli interessi dei contribuenti di attivare il contraddittorio.

Con il sesto motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione alla lamentata violazione delle procedure previste dalla legge in tema di rilevazione in loco D.Lgs. n. 507 del 1993 ex art. 73.

Sostiene che l’accesso sarebbe stato fatto dai vigili urbani privi della prescritta autorizzazione e senza il rispetto dei termini previsti per la comunicazione dell’avviso.

Con il 7 motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Osserva infatti che nei locali di cui si discute si svolgono fasi della lavorazione industriale e di non essere pertanto tenuta al pagamento dell’imposta trattandosi di rifiuti speciali rientranti nell’esenzione prevista nel D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3.

Con l’VIII motivo la ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 21.

Sostiene che, contrariamente a quanto affermato dalla CTR, i rifiuti prodotti dai locali in questione avrebbero dovuto essere qualificati speciali sicchè per essere assoggettati ad imposta avrebbero dovuto essere assimilati agli urbani con apposita delibera nella specie mancante per quel che attiene ai criteri quantitativi di assimilazione.

Con il IX motiva la ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. con riguardo all’esame di un punto decisivo della controversia dolendosi che la CTR non si sarebbe pronunciata su tali aspetti dedotti in relazione ai locali di cui si discute. Con il X motivo lamenta che la sentenza impugnata avrebbe omesso di esaminare un punto decisivo della controversia in relazione alla denunciata inidoneità del servizio pubblico di raccolta come dimostrato dalla perizia di parte prodotta in causa.

Con XI motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 59, comma 4.

La ricorrente critica la decisione della CTR nella parte in cui non considera che il menzionato art. 59, comma 4, prevede che la tassa sia dovuta in misura non superiore al 40% della tariffa da determinare in relazione alla distanza dal più vicino punto di raccolta rientrante nella zona perimetrata o di fatto servita.

Con il XII la società denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta la ricorrente che la decisione della CTR si sarebbe limitata a motivare in maniera criptica senza prendere in considerazione talune censure avanzate in prime cure.

Da ultimo la ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, sostenendo che i richiamati vizi motivazionali non consentirebbero di effettuare un adeguato controllo di legittimità sull’operato del giudice.

Il primo motivo è infondato.

Va in primo luogo ricordato che la duplicità di tassazione – che può riguardare anche tributi diversi, ma dipendenti dal medesimo presupposto – è configurabile soltanto quando l’Amministrazione reclami il pagamento di un tributo dopo aver esercitato ed esaurito il potere impositivo rispetto allo stesso o ad altro tributo Il motivo, non si confronta con la motivazione della CTR la quale nel vagliare il materiale probatorio ha rilevato che non vi era fra la documentazione in atti alcun duplicato dell’avviso ed ha altresì sottolineato l’inidoneità delle copie di avvisi prodotte a dare corpo alla tesi della contribuente sia perchè carente di relata di notifica e di data sia perchè riferiti ad una diversa superficie rispetto a quella considerata nel provvedimento impugnato.

Tale valutazione costituisce oggetto di apprezzamento di merito e come tale non è insindacabile in sede di legittimità.

Per quanto riguarda le denunciate irregolarità procedurali afferenti al rilevamento in loco (motivi 5 e 6 del ricorso) va osservato innanzitutto che la procedura prevista dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 73, viene attivata con accesso autorizzato dal sindaco ed obbligo di cinque giorni di preavviso – sol quando, non rispondendo spontaneamente il contribuente alla richiesta d’informazioni, il Comune abbia pertanto la necessità, come nella specie, di controllare dati già in suo possesso.

La norma prevede che l’amministrazione possa rivolgere al contribuente motivato invito ad esibire o trasmettere atti e documenti, comprese le planimetrie dei locali e delle aree scoperte, ed a rispondere a questionari.

Si tratta di una facoltà per il Comune il cui mancato esercizio non condiziona la regolarità dell’accesso.

Va poi rilevato che l’inosservanza degli adempimenti preliminari descritti dalla norma sopra richiamata non sono previsti a pena di nullità sicchè il mancato rispetto degli stessi non inficia la validità dell’accertamento eseguito dagli agenti operanti.

Per quanto riguarda la prospettata violazione del contraddittorio la CTR ha evidenziato l’infondatezza del rilievo alla luce della documentazione prodotta e del verbale redatto dagli agenti del quale ha trascritto il passaggio più significativo.

Si tratta di una valutazione che non può essere sindacata in sede di legittimità in quanto afferente al merito.

Inoltre, la circostanza che l’avviso riguardasse annualità di imposta antecedenti all’ispezione effettuata nel 2008 sul cespite di proprietà della società, risulta carente di decisività, atteso che la società ricorrente non ha allegato l’esistenza di mutamenti successivi all’ispezione che abbiano determinato una diversa tassabilità delle superfici per tutte le annualità, antecedenti e successive, all’ispezione.

Con riguardo ai motivi 3, 4, 7, 8 che vanno trattati congiuntamente per l’intima connessione se ne deve rilevare l’infondatezza.

Va premesso che la Tarsu, come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale (2009 nr. 238), rappresenta una prestazione di natura fiscale che ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma cioè anche “esterni”(“rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico”) ed ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente.

Il presupposto della tassa di smaltimento dei rifiuti ordinari solidi urbani è infatti l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibito e nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali o per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali.

E’ poi consolidato il principio che l’esenzione per le aree ove si producono rifiuti speciali sia subordinata all’adeguata delimitazione di tali spazi nonchè alla presentazione di documentazione idonea a dimostrare le condizioni dell’esclusione o dell’esenzione; e che il relativo onere della prova incombe al contribuente (Cass. n. 11351/2012; Cass. n. 9214/2018; Cass. 13997/2016). Ha stabilito Cass.n. ord. 21250/17 che: “Spetta al contribuente l’onere di fornire all’amministrazione comunale i dati relativi all’esistenza e alla delimitazione delle aree in cui vengono prodotti rifiuti speciali non assimilabili a quelli urbani (da lui smaltiti direttamente, essendo esclusi dal normale circuito di raccolta), che pertanto non concorrono alla quantificazione della superficie imponibile, in applicazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, posto che, pur operando anche nella materia in esame il principio secondo il qual spetta all’amministrazione provare i fatti che costituiscono fonte dell’obbligazione tributaria per quanto attiene alla quantificazione del tributo, grava sull’interessato (oltre all’obbligo di denuncia ai sensi del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 70) un onere d’informazione, al fine di ottenere l’esclusione delle aree sopra descritte dalla superficie tassabile, ponendosi tale esclusione come eccezione alla regola generale, secondo cui al pagamento del tributo sono astrattamente tenuti tutti coloro che occupano o detengono immobili nel territorio comunale” (v. anche Cass. 4 aprile 2012, n. 5377/2012; Cass. n. 7647/2018).

Ciò posto la questione all’esame della Corte verte essenzialmente sulla tassabilità ai fini TARSU di locali adibiti a magazzino e a deposito, ritenuti dalla società contribuente esente da imposta, perchè produttivi di rifiuti speciali connessi al ciclo produttivo, che la società avvia al recupero a proprie spese.

Il quadro normativo nel quale va ricondotta la fattispecie in esame (anno 2006, 2007 e 2008) è costituito dal D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, capo 3 e dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (decreto Ronchi) e successive modifiche. Circa il presupposto della tassa, il D.Lgs. n. 507 del 1993 ha stabilito che stessa “è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli artt. 58 e 59” e che “nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Ai fini della determinazione della predetta superficie non tassabile il comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto alla intera superficie su cui l’attività viene svolta” (art. 62, commi 1 e 3).

La tariffa deve essere pertanto applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, salva l’applicazione sulla stessa di un “coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi” e chiaramente presuppone l’assoggettamento all’imposta dei soli rifiuti urbani e salvo il diritto ad una riduzione della tassa in caso di produzione di rifiuti assimilati “smaltiti in proprio” (Cass. n. 6359 del 2016).

In tale materia grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare dell’esenzione, atteso che, pur operando il principio secondo il quale è l’Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell’obbligazione tributaria, esso non può operare con riferimento al diritto ad ottenere una riduzione della superficie tassabile, o addirittura l’esenzione, costituendo questa, un’eccezione alla regola del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale (Cass. n. 9731 del 2015; Cass. 22130/2017).

Questa Corte ha precisato che: “i residui prodotti in un deposito o magazzino non possono essere considerati residui del ciclo di lavorazione, per cui risulta ininfluente che possano essere qualificati o meno come rifiuti assimilati agli urbani. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la esenzione o riduzione delle superfici tassabili deve intendersi limitata a quella parte di esse su cui insiste l’opificio vero e proprio, perchè solo in tali locali possono formarsi rifiuti speciali, per le specifiche caratteristiche strutturali relative allo svolgimento dell’attività produttiva, mentre in tutti gli altri locali destinati ad attività diverse, i rifiuti devono considerarsi urbani per esclusione, salvo che non siano classificati rifiuti tossici o nocivi, e la superficie di tali locali va ricompresa per interno nell’ambito della superficie tassabile (uffici, depositi, servizi ecc.), inoltre tale classificazione costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice del merito” (Cass. n. 26725 del 2016).

L’impossibilità di produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di utilizzazione dei locali. Questa Corte ha precisato che: “La situazione che legittima l’esonero si verifica allorquando l’impossibilità di produrre rifiuti dipende dalla natura stessa dell’area o del locale, ovvero dalla loro condizione di materiale ed oggettiva inutilizzabilità ovvero dal fatto che l’area ed il locale siano stabilmente, e cioè in modo permanentemente e non modificabile, insuscettibili di essere destinati a funzioni direttamente o indirettamente produttive di rifiuti. La funzione di magazzino, deposito o ricovero è invece una funzione operativa generica e come tale non rientra nella previsione legislativa” (Cass. n. 19720 del 2010).

Per i produttori di rifiuti speciali non assimilabili agli urbani non si tiene altresì conto della parte di area dei magazzini, funzionalmente ed esclusivamente collegata all’esercizio dell’attività produttiva, occupata da materie prime e/o merci, merceologicamente rientranti nella categoria dei rifiuti speciali non assimilabili, la cui lavorazione genera comunque rifiuti speciali non assimilabili. Resta pertanto fermo l’assoggettamento dei magazzini destinati, come nella specie, allo mero deposito di prodotti finiti connessi a lavorazioni produttive (Cass. 2019 nr. 12979).

Da tanto discende che correttamente la CTR ha interpretato la normativa in esame ritenendo sulla base delle risultanze processuali che i locali in questione proprio per la loro destinazione non rientrassero nella fattispecie di esonero contemplate dalla legge.

Quanto alla compatibilità con la disciplina comunitaria (Direttiva CEE nr. 75/442, modificata dall’art. 1 della Direttiva nr. 91/156) si osserva che la stessa, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l’istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico (cfr. Corte Cost. 2009 nr. 238).

Con riguardo ai motivi 9, 10, 11 con cui ci si duole della grave carenza del servizio e dell’omessa considerazione degli elementi probatori portati a sostegno della denuncia (consulenza di parte) se ne deve rilevare l’inammissibilità.

Va ricordato che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”. (cfr. Cass. 2493/2018, 27415/2018, 8053/2014). Si è inoltre affermato che: “Il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa” (Cass. n. ord. n. 16812 del 26/06/2018; così Cass. 19150/16). Non è quindi invocabile il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie; nè sono stati dedotti elementi volti a dimostrare che la considerazione della risultanza pretermessa avrebbe certamente determinato – alla luce del più complesso ed articolato quadro istruttorio considerato dal giudice di merito – un esito differente della lite (Cass. 2019 nr. 22231).

Relativamente ai pretesi vizi di nullità della sentenza dedotti nei rimanenti motivi occorre ricordare che sussiste la nullità della sentenza per motivazione solo apparente quando essa risulta fondata su una mera formula di stile, riferibile a qualunque controversia, disancorata dalla fattispecie concreta e sprovvista di riferimenti specifici, del tutto inidonea dunque a rivelare la ratio decidendi e ad evidenziare gli elementi che giustifichino il convincimento del giudice e ne rendano dunque possibile il controllo di legittimità, ovvero caratterizzata da un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e da “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. Un. 8053/2014). E’ allora necessario che il “decisum” sia supportato dalla compiuta esposizione degli argomenti logici che hanno sostenuto il giudizio conclusivo, in modo da consentire la verifica “ab externo” dell’esame critico svolto dal giudice di appello sulla censura mossa dall’appellante alla sentenza impugnata (Cass. 5 Aprile 2017, n. 10998; Cass. 11 Marzo 2016, n. 4791).

Non può poi trascurarsi la copiosa giurisprudenza secondo la quale la conformità della sentenza al modello di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, e l’osservanza degli artt. 115 e 116 c.p.c., non richiedono che il giudice del merito dia conto di tutte le prove dedotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente e necessario che egli esponga in maniera concisa gli elementi in fatto e in diritto posti a fondamento della sua decisione (v. tra numerosissime altre Cass. n. 22801 del 2009), dovendo reputarsi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata (tra le moltissime v. Cass. nn. 17145 del 2006 e 2272 del 2007), nonchè la giurisprudenza secondo la quale anche la motivazione in forma sintetica è idonea a suffragare il convincimento in fatto, non costituendo vizio di omessa o insufficiente motivazione deducibile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la ridotta estensione della sentenza ed essendo sufficiente che nella motivazione del provvedimento risulti esplicitato, ancorchè sinteticamente, l’iter logico-giuridico seguito dal giudice per pervenire alla decisione (v. Cass. S.U. 2015 nr. 642).

Va altresì aggiunto che la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto della decisione, richiesta dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, rappresenta “un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione della intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui mancanza costituisce motivo di nullità della sentenza solo quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione”, stante il principio della strumentalità della forma, per il quale la nullità non può essere mai dichiarata se l’atto ha raggiunto il suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 3), e tenuto altresì conto del fatto che lo stesso legislatore, nel modificare l’art. 132, citato per mezzo della L. n. 69 del 2009, art. 45, comma 17, ha espressamente stabilito un collegamento di tipo logico e funzionale tra l’indicazione in sentenza dei fatti di causa e le ragioni poste dal giudice a fondamento della decisione (Cass. nn. 22346/15, 920/15, 22845/15). Ciò posto l’enucleazione dei motivi posti a base del ricorso dimostrano che la ricorrente è stata in grado di cogliere le ragioni sulle quali la decisone si è fondata e di svolgere ad esse adeguate critiche con ciò sanando ogni eventuale irregolarità in cui fosse incorsa la CTR.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese in assenza della costituzione da parte del Comune.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese;

dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019

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