Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33720 del 18/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 18/12/2019, (ud. 25/09/2019, dep. 18/12/2019), n.33720

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29855-2017 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

PIERO EUGENIO VIGHETTI;

– ricorrente –

Contro

CONDOMINIO CORSO REGINA MARGHERITA 86 TORINO, in persona

dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DELLA GIULIANA 44, presso lo studio dell’avvocato MARCO DE FAZI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO MARIA

COMMODO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1037/2017 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 10/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO

ROSSETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.M. ha impugnato per cassazione, con ricorso fondato su tre motivi, la sentenza 10.5.2017 n. 1037 della Corte d’appello di Torino, reiettiva dell’appello da lui proposto contro la sentenza 12.1.2015 n. 106 pronunciata dal Tribunale di Torino.

2. Ha resistito con controricorso il condominio del fabbricato sito a

(OMISSIS).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Inammissibilità del ricorso.

1.1. Il ricorso è inammissibile per plurime ed indipendenti ragioni.

1.2. In primo luogo è inammissibile perchè in esso manca una chiara ed ordinata esposizione dei fatti di causa, richiesta a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 3.

In particolare, alle pp. 4-6 del ricorso non si indica affatto:

-) chi abbia introdotto la lite;

-) quale domanda abbia formulato;

-) come sia stata decisa in primo grado;

-) che rapporto esista tra la “querela di falso” cui si fa ripetutamente riferimento nell’incipit del ricorso, e la procedura esecutiva (non è dato sapere da chi introdotta, per quale credito, in danno di chi) cui ripetutamente il ricorso si richiama.

Tali indicazioni, ad ogni buon conto, oltre che mancare nella parte iniziale del ricorso, non sono nemmeno desumibili, in modo chiaro ed inequiroco, dalla illustrazione dei motivi.

1.3. Sebbene il rilievo che preceda sia di per sè sufficiente alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso, non sarà superfluo aggiungere che il ricorso sarebbe altresì inammissibile ai sensi dell’artt. 366 c.p.c., nn. 4 e 6.

1.3.1. Quanto al primo aspetto, tutti e tre i motivi di ricorso sono inammissibili per totale mancanza d’una intelligibile illustrazione. Gioverà ricordare, al riguardo, che un ricorso per cassazione è un atto nel quale si richiede al ricorrente di articolare un ragionamento sillogistico così scandito:

(a) quale sia stata la decisione di merito;

(b) quale sarebbe dovuta essere la decisione di merito;

(c) quale regola o principio sia stato violato, per effetto dello scarto tra decisione pronunciata e decisione attesa.

Nel nostro caso, a parte qualsiasi considerazione sulla chiarezza e sulla coerenza logica della tecnica scrittoria adottata dalla difesa del ricorrente, resta il fatto che nelle deduzioni svolte alle pp. 7-15 del ricorso per cassazione non è ravvisabile alcuna chiara censura.

Sul piano contenutistico, il ricorrente dà per presnpposti i Ja. tti che era suo onere indicare, e in particolare le domande proposte, le decisioni adottate dal giudice di merito, e gli errori di diritto da questi commessi; limitandosi poi a giustapporvi generiche doglianze incomprensibili a questa Corte, se non ricorrendo all’esame della sentenza impugnata e del fascicolo d’ufficio dei gradi di merito.

Sul piano della logica formale, poi, il ricorrente non espone chiaramente in alcun punto del suo ricorso in cosa sia consistito l’errore, e quale la diversa regola da applicare.

Un ricorso così concepito non può che dirsi inammissibile per totale aspecificità.

Questa Corte, infatti, può conoscere solo degli errori correttamente censurati, ma non può rilevarne d’ufficio, nè può pretendersi che essa intuisca quale tipo di censura abbia inteso proporre il ricorrente, quando questi esponga le sue doglianze con tecnica scrittoria oscura, come si è già ripetutamente affermato (da ultimo, in tal senso, Sez. 3, Sentenza n. 21861 del 30.8.2019; Sez. 3, Ordinanza n. 11255 del 10.5.2018; Sez. 3, Ordinanza n. 10586 del 4,5.2018; Sez, 3, Sentenza 28.2.2017 n. 5036). E non sarà superfluo aggiungere che la coerenza dei contenuti e la chiarezza della forma degli atti processuali costituiscono una delle declinazioni, e non l’ultima, del dovere di lealtà di cui all’art. 88 c.p.c., ed è prescritta dalle legislazioni di tutti gli ordinamenti economicamente avanzati: basterà ricordare a tal riguardo, exceipta multorum, l’art. 3, comma 2, del codice del processo amministrativo (d. lgs. 2.7.2010 n. 104), il quale impone alle parti di redigere gli atti “in maniera chiara e sintetica”; il p. 14, lettera “A”, della Guida per gli avvocati” approvata dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ove si prescrive che il ricorso dinanzi ad essa debba essere redatto in modo tale che “una semplice lettura deve consentire alla corte di cogliere i punti esseri Tali di fatto e di diritto”; o la Rule 8, lettera (a), n. 2, delle Federal Rules of civii Procedures statunitensi, la quale impone al ricorrente “una breve e semplice esposkione della domanda” (regola applicata così rigorosamente, in quell’ordinamento, che nel caso Stanard v. Nygren, 19.9.2011, n. 091487, la Corte d’appello del VIII Circuito U.S.A. ritenne inammissibile per lack of punctuation un ricorso nel quale almeno 23 frasi contenevano 100 o più parole, ritenuto “troppo confuso per stabilire i fatti allegati” dal ricorrente).

1.3.2. Quanto al secondo aspetto (l’onere imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6), infine, rileva la Corte che il ricorrente fa ripetutamente riferimento ad atti, istanze, documenti, dei quali non riassume nè trascrive il contenuto, nè indica quando siano stati prodotti, a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione: oneri tutti, questi ultimi, richiesti dalla norma appena indicata a pena di inammissibilità (in tal senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. L, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. I, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

2. La responsabilità aggravata.

2.1. Il presente giudizio è iniziato in primo grado nel 2013, ed il ricorso per cassazione è stato proposto nel 2017.

Ad esso pertanto è applicabile l’art. 96 c.p.c., comma 3, nel testo aggiunto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 12, il quale stabilisce che “quando pronuncia sulle,pese ai sensi dell’art. 91, il giudice, anche d’ufficio può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Questa Corte ritiene che il ricorrente nel caso di specie abbia effettivamente agito quanto meno con colpa grave.

Agire con mala fede o colpa grave vuol dire infatti azionare la propria pretesa, o resistere a quella avversa, con la coscienza dell’infondatezza della domanda o dell’eccezione; oppure senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’ammissibilità e della fondatezza della propria posizione;

Nel caso di specie, per quanto detto, il ricorrente ha proposto un ricorso per cassazione totalmente privo dei requisiti minimi ed indefettibili richiesti dall’art. 366 c.p.c., per l’ammissibilità del ricorso.

E poichè si tratta di requisiti richiesti dalla legge con termini inequivoci; e ripetutamente ribaditi dalla giurisprudenza consolidatissima di questa Corte, deve concluderei che delle due l’una: o il ricorrente (e per lui il suo difensore, del cui operato ovviamente il cliente deve rispondere nei confronti della controparte, ex art. 2049 c.c.) ignorava le suddette norme, ed allora ha agito con colpa grave, trattandosi di ignoranza inescusabile; oppure le conosceva, ed allora ha agito addirittura con mala fede, volutamente disattendendo precetti richiesti a pena di inammissibilità.

Il ricorrente ha dunque tenuto un contegno processuale connotato quanto meno da colpa grave, e va di conseguenza condannato d’ufficio, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, al pagamento in favore della controparte costituita, in aggiunta alle spese di lite, d’una somma equitativamente determinata a titolo di risarcimento del danno.

Tale somma viene stabilita assumendo a parametro di riferimento l’importo delle spese dovute alla parte vittoriosa per questo grado di giudizio, e nella specie può essere fissata in via equitativa ex art. 1226 c.c., nell’importo di Euro 4.000 attuali, oltre interessi legali dalla data di pubblicazione della presente ordinanza.

3. Le spese.

3.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

3.2. L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) condanna M.M. alla rifusione in favore del Condominio del fabbricato sito a (OMISSIS), delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 4.200, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) condanna M.M. al pagamento in favore del Condominio del fabbricato sito a (OMISSIS), della somma di Euro 4.000, oltre interessi come in motivazione;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di M.M. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 25 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019

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