Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3371 del 12/02/2020

Cassazione civile sez. III, 12/02/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 12/02/2020), n.3371

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10710-2018 proposto da:

F.D., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OSLAVIA 30,

presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO GIZZI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CARLO ZAULI;

– ricorrente –

contro

M.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2938/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 11/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE IGNAZIO, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

il rigetto;

udito l’Avvocato FABRIZIO GIZZI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.-La ricorrente ha agito in giudizio nei confronti di M.F., sua vicina di casa, lamentando danni patrimoniali e morali conseguenti alla condotta di quest’ultima, che, degenerati i rapporti di vicinato, ed allo scopo di intimidire la ricorrente, o comunque di farle dispetto, avrebbe danneggiato le piante, spaventati i cani, divelti apposta i tergicristalli delle vettura, costringendo la ricorrente ad installare sul confine una telecamera che riprendesse le malefatte della vicina, a scopo di prova.

Nel giudizio di primo grado la M. si è costituita formulando una domanda riconvenzionale, per danni da violazione della privacy, a causa della telecamera puntata nella sua proprietà.

Entrambe le domande sono state rigettate in primo grado.

Nello stesso tempo, le denunce sporte dalla F., odierna ricorrente, hanno avuto esito negativo, con l’assoluzione della M., e rigetto dell’azione civile esercitata nel processo penale da parte di quest’ultima.

La F. ha proposto appello ribadendo che i fatti di vandalismo costituivano astrattamente reato e dunque ne dovesse derivare danno morale risarcibile, dolendosi altresì della mancata assunzione di alcune prove richieste.

L’impugnazione è stata rigettata a sua volta.

2.- Ricorre la F. con undici motivi, che ribadiscono le doglianze già fatte in appello e soprattutto denunciano erronea valutazione della rilevanza penale dei fatti subiti.

3.- Non v’è costituzione della M., cui il ricorso risulta regolarmente notificato.

La ricorrente ha depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.- La ratio della decisione.

La corte di appello sostanzialmente ritiene che non sia stata fornita adeguata prova della rilevanza penale degli atti “vandalici”, meglio, che il giudice di primo grado ha correttamente escluso che quegli atti integrassero reati, e che tale asserzione del giudice di primo grado neanche è stata censurata dalla F..

Inoltre, difetterebbe altresì la prova che quei fatti hanno provocato un turbamento esistenziale apprezzabile; e che, infine, corretta è stata la decisione di primo grado di non ammettere le prove richieste dalla F..

5.- I motivi di ricorso sono undici.

Con il primo motivo ed il decimo motivo, la ricorrente assume violazione dell’art. 2059 c.c., nonchè degli artt. 635 e 660 c.p.: sostiene che la corte ha errato nel ritenere che i danni morali non fossero risarcibili perchè non derivanti da reato, meglio, perchè non sussistente alcun reato.

La ricorrente ricorda come presupposto al fine di accertare se un danno morale è derivato da reato, non è necessario che quest’ultimo sia concretamente accertato o punito, essendo sufficiente che sia astrattamente configurabile. Invece, la corte avrebbe preteso che il reato fosse accertato e ritenuto in concreto sussistente.

I motivi sono infondati.

Intanto essi non colgono la ratio della decisione impugnata, la quale non nega che il risarcimento del danno morale possa invocarsi in presenza di un fatto astrattamente riconducibile ad un reato, anche se in concreto non accertato; piuttosto ritiene che il tribunale ha correttamente escluso proprio l’astratta configurabilità di un qualche reato nei fatti addotti dalla ricorrente come lesivi dei suoi interessi.

Fatta a parte la menzione della non punibilità per irrilevanza dei fatti, che ovviamente non incide sulla configurabilità dei medesimi come reati, ma solo sulla loro punibilità; fatta eccezione di questa affermazione, la decisione sul punto va confermata.

Vanno intanto ribadite alcune regole.

E’ senz’altro vero che la risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell’art. 2059 c.c., in relazione all’art. 185 c.p., non richiede che il fatto illecito integri in concreto un reato, nè occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia astrattamente previsto come reato, sicchè la mancanza di una pronuncia del giudice penale non costituisce impedimento all’accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza dei suoi elementi costitutivi (Cass. 13085/ 2015); ma è altresì vero che, in tale accertamento il giudice civile deve procedere ad una valutazione “incidenter tantum” dell’esistenza del reato non solo nel suo elemento materiale, ma anche nell’elemento psicologico, negli esatti termini in cui è previsto della legge penale (Cass. 7110 del 2017).

Questo accertamento è riservato al giudice di merito, ossia: è questione di merito stabilire quali siano i fatti lamentati e se essi si risolvano, anche solo astrattamente, in uno o più reati.

Del resto, la corte di merito ha sottolineato che questa operazione, questo accertamento, fatto dal giudice di prime cure e risolto da costui negativamente, non è stato contestato in appello dalla F., la quale non ha in sostanza indicato le ragioni per le quali era invece da darsi rilevanza penale ai fatti da lei denunciati (“L’appellante insiste nell’affermare la predetta rilevanza penale, e dunque, la sicura risarcibilità del danno morale secondo la previsione di cui all’art. 2059 c.c., ma omette di censurare la sentenza nella parte in cui viene affermata l’insussistenza della richiamata rilevanza”).

Va da sè che il motivo si rivela altresì di difficile accesso nella parte in cui omette peraltro di descrivere le condotte lesive, e dunque rende impossibile la loro qualificazione, pur se fosse compito di questo giudice farla nei termini richiesti. Il che vale anche per la seconda parte del motivo che denuncia trascuratezza della regola per cui il danno morale non presuppone necessariamente un reato, potendo derivare da lesioni di interessi costituzionalmente inviolabili, anche senza che abbiano rilevanza penale.

Non è dato intendere, infatti, se e quali interessi siano stati lesi, dovendosi escludere che la lesione della proprietà per danneggiamento rientri tra quelli costituzionalmente inviolabili. E’ un diritto sui beni, espropriabile, dunque violabile, funzionalizzato (art. 41 Cost.), oggetto supino di poteri conformativi pubblici, e dunque difficilmente concepibile come un diritto che la Costituzione stessa impedisce di violare in vista della soddisfazione di altri beni.

Per contro, la corte di merito ha escluso una violazione del domicilio (p. 4) accertamento, questo che riguardando il fatto, va tenuto fermo, e che comunque porterebbe sempre alla conclusione della irrilevanza di tale eventuale lesione ai fini del danno morale, in quanto l’inviolabilità qui non attiene all’interesse, ma allo spazio fisico costituito dal domicilio.

5.- Con il secondo, il settimo e l’ottavo motivo la ricorrente lamenta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Secondo la ricorrente i giudici di merito non avrebbero tenuto conto delle ammissioni fatte dalla convenuta, che, se adeguatamente considerate, avrebbero portato a ritenere provati i fatti lesivi fonte del danno lamentato. Secondo la ricorrente l’ammissione dei fatti lesivi sarebbe insita nella stessa domanda riconvenzionale con la quale la convenuta M. lamentava violazione del suo diritto alla privacy, diritto leso dalla installazione della videocamera ad opera della ricorrente, fatta allo scopo di riprendere i vandalismi della sua vicina. I motivi sono infondati.

Correttamente la corte di appello ha ritenuto che nella affermazione di aver spostato l’orientamento della videocamera per impedire che riprendesse nel proprio dominio, la convenuta non ha affatto ammesso di averla danneggiata nè di avere commesso le angherie attribuitele. Nè tale ammissione può essere insita nella denuncia della illiceità di quella installazione.

In sostanza, la corte ha correttamente escluso che l’affermazione di quei fatti potesse integrare una ammissione, dal momento che per tale si intende l’affermazione di fatti sfavorevoli a sè, che non è di certo ravvisabile nè nella richiesta di danni per violazione della privacy, nè nell’affermazione di aver spostato manualmente l’orientamento della videocamera allontanandolo dal proprio dominio.

6.- Con il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo, si lamenta violazione dell’art. 2059 c.c. attribuendo alla corte di merito di non aver riconosciuto il danno esistenziale, e quello biologico, pur in presenza della violazione di diritti fondamentali assoluti, e pur in presenza di una CTP che illustrava ripercussioni negative sull’assetto psico-fisico della danneggiata; inoltre di non avere ammesso le prove testimoniali, ed una CTU a dimostrazione delle ripercussioni negative sulla sua persona.

I motivi sono infondati.

Le decisioni del giudice di merito sulla rilevanza delle prove sono rimesse alla discrezionalità di quel giudice, censurabile in Cassazione solo ove si ravvisi un errore percettivo o l’attribuzione ad una prova di un valore diverso da quello ricondottole dalla legge (ad esempio valore legale ad una prova che ne difetta e viceversa), oppure ancora nell’aver deciso in base a prove inesistenti, e viceversa.

Non è invece censurabile la valutazione compiuta dal giudice di merito circa la rilevanza della prova richiesta.

Si aggiunga che la corte di appello ha ritenuto altresì che l’impugnazione fatta sul punto (sul capo di sentenza che ribadiva l’irrilevanza delle prove), non era neanche specifica, nel senso che l’appellante, oggi ricorrente, si è limitata a riproporre la prova, senza censurare con motivi specifici la decisione del primo grado di non ammetterla.

Quanto al mancato rilievo offerto, di conseguenza, al danno esistenziale ed a quello biologico, da un lato, la ratio della decisione impugnata non sta nel negare astratto rilievo a tali pregiudizi, ma nel difetto di prova dei fatti costitutivi, ossia delle condotte che avrebbero causato il danno esistenziale, ed altresì nel difetto di prova che le ripercussioni negative di quei fatti abbiano avuto la consistenza di un ribaltamento dell’agenda di vita, tipico del danno esistenziale: dunque, la ratio è in una questione di fatto, che qui non può essere rivalutata.

Inoltre, come già detto, ammesso che i fatti consistano nelle condotte cui si accenna in ricorso, si tratta di lesioni di diritti di proprietà o di diritti reali, non riconducibili ad interessi inviolabili.

7.- Il nono motivo denuncia violazione dell’art. 2043 c.c.

Questa volta la ricorrente lamenta il mancato riconoscimento di un danno patrimoniale, consistito nelle spese per l’installazione della telecamera.

Ritiene errata la decisione della corte, che conferma quella identica di primo grado, di ritenere che la spesa per l’installazione della videocamera non è collegata causalmente al comportamento vandalico o vessatorio del vicino, ma è frutto di una libera scelta della ricorrente stessa, come tale non risarcibile. Secondo la ricorrente la corte non avrebbe adeguatamente considerato il nesso di causa tra i comportamenti della vicina e la necessità di riprenderli con una videocamera onde acquisirne prova, che invece è da ritenersi insito nel comportamento vessatorio della controparte.

Il danno è la modificazione peggiorativa indotta da un fatto illecito: la spesa per evitarlo e quella per rimediarvi vi rientrano; non può dirsi altrettanto per la spesa sostenuta per provare la condotta lesiva, che non è un pregiudizio provocato dal fatto illecito, ma una spesa per accertarlo nella ipotesi in cui sia commesso.

Va da sè che si tratta di una spesa che il danneggiato decide liberamente di affrontare e che potrebbe dunque evitare di sostenere, e che non ha, perciò stesso, nella condotta vandalica un antecedente necessario. Va, al proposito, ricordato che la causa è pur sempre una condicio sine qua non dell’evento, e che la regola probabilistica invocata dalla ricorrente (“più probabile che no”) attiene invece al regime probatorio.

Il ricorso va pertanto rigettato.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso. Nulla spese. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il pagamento, se dovuto e nella misura dovuta, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2020

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