Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33706 del 12/11/2021

Cassazione civile sez. trib., 12/11/2021, (ud. 10/03/2021, dep. 12/11/2021), n.33706

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6288/2012 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio ex lege in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

Vibrapac s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., corrente

in (OMISSIS), con gli avv.i Antonio Spadetta, Annamaria Spadetta e

Umberto Chiocci e con domicilio elettro presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, Via Rodi n. 32;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale per la

Lombardia – Milano n. 03/08, pronunciata il 24 novembre 2010 e

depositata il 19 gennaio 2011, non notificata;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 marzo 2021

dal Cons. Marcello M. Fracanzani.

 

Fatto

RILEVATO

1.La società contribuente era oggetto di verifica fiscale per l’anno d’imposta 2003 da parte della Guardia di Finanza e che si concludeva con un p.v.c. del 29 novembre 2005, con cui venivano contestati sei rilievi per costi ritenuti non deducibili, non documentati, non di competenza o non inerenti, oltre ad un rilievo per la svalutazione di una partecipazione societaria. Chiusa la verifica fiscale e riscontrata da parte della contribuente la richiesta di chiarimenti inviatale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 l’Ufficio notificava alla società Vibrapac un avviso di accertamento, con cui venivano recepiti i sei rilievi contestati dalla G.d.F..

2. Insorgeva con ricorso la società contribuente, cui resisteva l’Ufficio. La Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il gravame annullando l’avviso di accertamento relativamente al rilievo inerente l’indebita deduzione dei costi per gli stampi, perché non di competenza, e alla svalutazione della partecipazione societaria perché elusiva, confermando per il resto l’atto impositivo.

3. Proponeva appello l’Ufficio, cui reagiva la società contribuente proponendo appello incidentale per la parte di sua soccombenza, con la sola eccezione del primo rilievo, confermato dalla CTP, ma non oggetto di appello incidentale. La Commissione tributaria regionale respingeva l’appello principale dell’Ufficio e accoglieva quello incidentale promosso dalla contribuente.

4. Ricorre per la cassazione della sentenza l’Avvocatura generale dello Stato, che si affida a sei motivi di ricorso e cui resiste la società contribuente con tempestivo controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Vengono proposti sei motivi di ricorso.

1. Con il primo motivo il patrono erariale denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 66 (ora 101) e 71 (ora 106) TUIR, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 nonché omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi del giudizio in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 5. In particolare lamenta l’illegittimità della sentenza giacché la somma di Euro 48.839,43, oggetto di storno, non sarebbe qualificabile come perdita di crediti quanto come una sopravvenienza passiva così liquidata dall’autorità giudiziaria, con una sentenza depositata nel corso del 2003, a titolo di risarcimento del danno e connesse spese legali derivanti dalla soccombenza. Conseguentemente, essa non potrebbe essere oggetto di storno non essendo tale operazione consentita dagli articoli indicati in rubrica. Soggiunge che la somma in parola sarebbe una mera passività potenziale, tenuto anche conto che alla data dello storno la sentenza contenente la liquidazione del danno non era ancora passata in giudicato (circostanza verificabile solo nell’anno 2004).

1.1 Va primieramente rilevato che il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un fatto controverso è ammissibile rispetto alle sentenze depositate entro il 10 settembre 2012, quale è quella oggetto di giudizio, e ciò in forza dell’entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, convertito nella L. n. 143 del 2012.

Ciò premesso, il motivo è parzialmente fondato.

2.In ordine alla corretta applicazione dell’art. 66, n. 2, TUIR questa Corte ha infatti affermato che “Ai sensi della suddetta norma si considerano sopravvenienze passive il mancato conseguimento di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi, il sostenimento di spese, perdite o oneri a fronte di ricavi o altri proventi che hanno concorso a formare il reddito in precedenti esercizi e la sopravvenuta insussistenza di attività iscritte in bilancio nei precedenti esercizi. Ora, pacifico in atti che il costo in oggetto è rappresentato da esborsi sostenuti dalla contribuente per risarcire (come dato atto, in fatto, dalla stessa C.T.R.) l’acquirente delle spese sostenute per la riparazione di pezzi difettosi vendutile dalla M. s.n.c., non appare revocabile in dubbio che lo stesso, non possa ritenersi “costo di produzione inerente all’esercizio” ma costituisca onere collegato a ricavi precedentemente contabilizzati e, come tale, rientri nella previsione della norma indicata” (Cfr. Cass., V, n. 5672/2014).

2.1 Se, dunque, deve essere ammessa la sopravvenienza passiva in disamina, deve comunque essere ammessa anche la sua natura potenziale, per non essere la sentenza ancora passata in giudicato alla data di chiusura del periodo d’imposta.

2.2 Al riguardo la controricorrente eccepisce che la sentenza sarebbe divenuta inoppugnabile per acquiescenza delle parti, avendo la sentenza “compensato” le avverse pretese sì da divenire inoppugnabile. L’assunto non può essere condiviso: la circostanza che il Giudice abbia compensato le avverse pretese non implica acquiescenza alla sentenza, che può derivare unicamente dalla volontà di non impugnare la sentenza (art. 327 c.c.) e per volervi le parti dare spontanea esecuzione e, comunque, per non voler contrastare gli effetti giuridici della pronuncia. Se è vero infatti che l’accoglimento delle difese di merito rende ardua l’impugnazione della decisione, non è men vero che l’impugnazione può ancora essere promossa, magari sotto altri profili. Tanto premesso, la controricorrente non ha illustrato né quando, né in che termini sarebbe stata data esecuzione alla sentenza. Ne’ di tale acquiescenza pare essere stata partecipata la CTR che nulla ha recepito o richiamato sul punto.

3.A ciò aggiungasi, come affermato anche da questa Corte, che “le regole sull’imputazione temporale dei componenti del reddito, sono tassative ed inderogabili, non essendo consentito al contribuente di ascrivere a proprio piacimento un componente positivo o negativo del reddito ad un esercizio diverso da quello individuato dalla legge come “esercizio di competenza” (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 26665 del 18/12/2009, Rv. 610993-01). E’ stato considerato, con argomenti applicabili anche alle sopravvenienze passive, che l’art. 101, comma 4, t.u.i.r. (di contenuto identico al previgente art. 66, comma 2, tranne che per il riferimento all’art. 87 di nuova introduzione), che prevede la deduzione delle perdite su crediti, quali componenti negativi del reddito d’impresa, se risultano da elementi certi e precisi e, in ogni caso, se il debitore è assoggettato a procedure concorsualit “va interpretato nel senso che l’anno di competenza per operare la deduzione stessa deve coincidere con quello in cui si acquista certezza che il credito non può più essere soddisfatto, perché in quel momento si materializzano gli elementi “certi e precisi” della sua irrecuperabilità. Diversamente, si rimetterebbe all’arbitrio del contribuente la scelta del periodo d’imposta più vantaggioso per operare la deduzione, snaturando la regola espressa dal principio di competenza, che rappresenta invece criterio inderogabile ed oggettivo per determinare il reddito d’impresa” (Cfr. n. 1447/2021, n. 27296/2014).

3.1 Nel caso in commento, dunque, non pare essere stata raggiunta la prova della certezza che la passività sia divenuta definitiva nell’anno d’imposta 2003, sicché il motivo deve essere parzialmente accolto.

4.Con il secondo motivo di ricorso la parte ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 (ora 109) TUIR in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In buona sostanza l’Avvocatura dello Stato censura la sentenza nella parte in cui ha annullato la ripresa a tassazione della fattura in acconto emessa da un libero professionista. Afferma, invero, che ill compenso anticipatogli può essere dedotto come costo solo al completamento della prestazione e che a nulla rileverebbe la circostanza che la società contribuente abbia registrato la fattura sia in dare che in avere.

Il motivo è infondato.

4.1 Come fondatamente eccepito dalla contribuente, la fattura emessa in acconto era stata stornata e, quindi annullata, sicché difettava lo stesso presupposto della ripresa a tassazione.

4.2 Occorre peraltro osservare che in tema di storno di fatture, questa Corte ha anche recentemente ricordato che “la legittimità dell’operazione di storno di fatture con note di variazione dello stesso importo può ritenersi giuridicamente legittima unicamente nell’ipotesi in cui le operazioni oggetto delle fatture e delle successive note siano effettive e non pure nel caso, posto a fondamento dell’atto impositivo qui impugnato, di operazioni del tutto inesistenti, in quanto l’utilizzazione del meccanismo dell’emissione di una nota di credito è consentito solo per rimediare ad una operazione effettiva e reale (Cass., 09/01/2017, n. 10083, in motivazione; Cass., Sez. 5, Sentenza n. 12168 del 26/05/2009, n. 12168, in motivazione; Cass. 10/06/2005, n. 12353; Cass., 18/11/2011, n. 24231)” (Cfr. Cass., V. n. 20337/2019)

4.3 Nel caso di specie non è in contestazione l’inesistenza oggettiva delle operazioni fatturate, sicché non può prescindersi dall’esistenza e dalla validità della fattura stornata e dell’insussistenza di un costo da riprendere a tassazione.

Il motivo è quindi infondato.

5. Con la terza censura la parte ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 (ora 109) TUIR in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonché l’omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi del giudizio in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 5.

5.1 In buona sostanza la CTR avrebbe errato nell’annullare la ripresa a tassazione per Euro 3.500,00, quale differenza tra l’importo iscritto nel conto “Consulenze commerciali” per Euro 7.000 dovuti ad un libero professionista e quello di altrettanti Euro 3.500,00, già corrisposti a quest’ultimo e fatturati. Afferma altresì che la minor somma di Euro 3.191,65, a costui versata nel 2005, non potrebbe essere considerata a saldo dell’importo iniziale per mancata corrispondenza degli importi e della somma complessiva.

La censura va disattesa.

5.2 Occorre osservare che la CTR ha respinto il motivo d’appello quale conseguenza di una duplice omessa contestazione da parte dell’Ufficio, ossia l’attività di consulenza prestata e la circostanza che il debito iscritto in bilancio al 31.12.2003 per Euro 3.191,65 sia stato poi effettivamente saldato nel 2005.

In tale ottica, non coglie nel segno il vizio sollevato dalla parte ricorrente, che nuovamente non contesta il dictum della sentenza: la decisione di secondo grado non diviene, infatti, oggetto di una critica diretta, tanto che la difesa erariale non prende posizione alcuna sulle predette circostanze di fatto, come tali rimaste incontestate e, quindi, acquisite agli del giudizio, essendosi la parte ricorrente limitata ad una mera rinnovazione della censura svolta nei gradi di merito, come tale anche inammissibile.

6.A tacer d’altro, la decisione di secondo grado, stante le circostanze rimaste incontestate, va esente da qualsivoglia censura, anche alla luce del divieto di doppia imposizione, quale principio immanente del nostro ordinamento tributario e correttamente richiamato dalla CTR (Cfr. Cass., V, n. 18476/2017).

7. Con il quarto motivo il patrono erariale lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 (ora 109) TUIR e dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonché l’omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi del giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5. In buona sostanza afferma che la decisione dei giudici d’appello sarebbe errata giacché è il contribuente ad essere gravato dell’onere probatorio dell’inerenza dei costi e non l’Amministrazione finanziaria a dover fornire ab initio la prova contraria. Segnatamente, la sentenza sarebbe illegittima per aver ritenuto deducibili spese non imputabili alla contribuente ma tutt’al più alla società Vibrapac Roma s.r.l. che, sebbene sua soda unica, resta un soggetto giuridico diverso. Inoltre la sentenza recherebbe una insufficiente motivazione in ordine ai presupposti della deducibilità/indeducibilità del predetto costo.

Il motivo è fondato.

7.1 Questa Corte ha affermato che “affinché un costo possa essere incluso tra le componenti negative del reddito non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa” (Cfr. Cass., V, n. 6650/2006). Segnatamente, è stato affermato che per provare il requisito dell’inerenza “non è sufficiente che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa” (Cfr. Cass., V, n. 4570/2001). In ordine poi all’onere della prova dell’inerenza del costo, trattandosi di una componente negativa del reddito “la prova della sua esistenza ed inerenza incombe sul contribuente” Corte di Cassazione, sentenza n. 1709/2007) mentre spetta all’Amministrazione la prova della maggiore pretesa tributaria (Cass. n. 10269/2017; Cass. n. 21184/2014; Cass. n. 13300/2017).

7.2 Nel caso in commento, a fronte delle contestazioni dell’Ufficio era la contribuente a dover fornire la prova dell’inerenza dei costi e non l’Ufficio a dimostrare il fondamento della sua contestazione.

8. Ciò premesso, dalla lettura della sentenza non risulta che, nel corso dei precedenti gradi di giudizio, la contribuente abbia mai fornito a tal fine alcuna prova. Prova che non compare per vero nemmeno nelle argomentazioni svolte dalla difesa del contribuente, circoscritta alla mera ripetizione della propria tesi difensiva.

Il motivo è pertanto fondato.

9.Con il quinto motivo la parte ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 75 (ora 109) TUIR e del D.M. 31 dicembre 1998, che approva la tabella ministeriale dei beni ammortizzabili (gruppo VIII, specie VII, in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonché l’omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi del giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 Segnatamente la CTR non avrebbe spiegato per quale motivo aveva ritenuto di non conteggiare gli stampi tra le immobilizzazioni materiali e come tali i soggetti alla procedura di ammortamento con aliquota del 15,5%, mentre la contribuente erroneamente ne ha dedotto il costo. Inoltre sarebbe irrilevante, ai fini fiscali, la loro rapidità di deperimento e la conseguenza di non poterli, perciò solo, considerare come beni ammortizzabili.

Il motivo è infondato.

9.1 In materia questa Corte ha esaustivamente affermato che “l’ammortamento è il processo tecnico contabile attraverso il quale si ripartisce nei vari esercizi l’onere del deperimento e del consumo relativo alla utilizzazione di beni strumentali, a “fecondità ripetuta” (che non esauriscono la loro utilità in un solo esercizio e quindi partecipano al processo produttivo aziendale in più esercizi), i cui costi vengono ripartiti in quote pluriennali. Per questa Corte, con riferimento al reddito di impresa e con riguardo ai presupposti per l’ammortamento, ha ritenuto che esso può effettuarsi con beni suscettibili di deperimento e consumo dopo un certo numero di anni, sì da essere sostituiti quando non risultino più funzionali allo scopo per il quale sono stati acquistati (Cass., sez. 5, 24 maggio 2013, n. 12924). Infatti, dal reddito di impresa sono deducibili le quote di ammortamento dei beni utilizzati per un limitato periodi di tempo, perché soggetti a logorio fisico o economico, tant’e’ che la disciplina fiscale, dei diversi coefficienti di ammortamento tiene espressamente conto dell’effettivo tasso di usura al quale sono soggetti i beni strumentali in relazione all’impiego cui essi vengono singolarmente destinati (Cass., n. 22021/06; Cass., n. 1404/2013)

(…).Tali coefficienti, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 67, comma 2, sono stabiliti per classi omogenee di beni, in base al normale periodo di deperimento e consumo nei vari settori produttivi. Pertanto, le quote annue di ammortamento calcolate in base ad essi risultano più alte, se il bene (come un apparecchio meccanico) ha un tasso di deperimento più rapido rispetto ad altri (come i beni immobili). (….) V’e’ stata, poi la decisione a sezioni unite di questa Corte, (Cass. S.U. n. 10225/17) che ha chiarito i termini della questione, soprattutto in relazione all’ammortamento dei terreni su cui insiste un impianto di distribuzione di carburante. Si è chiarito che, ai sensi dell’art. 2426 c.c., comma 1, “il costo delle immobilizzazioni, materiali e immateriali, la cui utilizzazione è limitata nel tempo deve essere sistematicamente ammortizzato in ogni esercizio in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Pertanto, ai fini dell’ammortamento di un bene rileva la limitazione nel tempo della proficua “utilizzazione” produttiva del bene, non la durata della sua fisica esistenza. Ciò che rileva è l’utilità economica secondo un piano produttivo, cioè la durata della “vita utile” del bene strumentale, che va intesa come periodo di tempo nel quale ci si attende che il bene sia utilizzato produttivamente. Pertanto, l’ammortamento consiste nella ripartizione per competenza (con metodo sistematico e razionale) del costo di acquisizione di beni con riferimento alla loro “vita utile”, negli anni in cui la loro utilità funzionale ed economica si connette al processo produttivo dell’impresa partecipando al risultato dei singoli esercizi, in rapporto al deperimento fisico o tecnologico o economico di essi “in relazione con la loro residua possibilità di utilizzazione”. Il deperimento che va considerato è quello indotto dall’impiego produttivo del bene strumentale di durata pluriennale, quindi dall’utilizzo stimato del potenziale apporto fornito all’attività di impresa. Si e’, quindi, chiarito che il valore da ammortizzare va individuato nella differenza tra il valore dell’immobilizzazione ed il suo presumibile valore residuo al termine del periodo di “vita utile” e corrisponde al valore il cui ammortamento negli esercizi futuri troverà, secondo una ragionevole prognosi, adeguata copertura con i ricavi correlati all’utilizzo del bene” (Cfr. Cass., V, n. 26805/2020).

9.2. Ciò premesso, appare andare esente da censure la sentenza del giudice d’appello, risultando in atti raggiunta la prova della pressoché repentina deteriorabilità dei beni in contestazione (due mesi). Prova che, peraltro, la difesa erariale non solo non ha avuto cura di contestare, ma che anzi ha di fatto riconosciuto, essendosi limitata a ritenerla irrilevante. In sostanza è stata acquisita agli atti la prova del più inteso grado di deteriorabilità dei beni in disamina, tale da esaurirsi nell’arco di due mesi, e quindi entro l’anno, sicché corretta appare la decisione della CTR che ne ha negato l’ammortamento, riservato ai beni a fecondità ripetuta.

10. Con l’ultima censura la difesa erariale denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis e dell’art. 2446 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 nonché l’omessa o quantomeno insufficiente motivazione circa i fatti controversi e decisivi del giudizio in parametro all’art. 360 c.p.c., n. 5.

10.1 In particolare la difesa erariale prospetta l’illegittimità della sentenza per non aver la CTR accolto la tesi dell’Ufficio atta a dimostrare la condotta elusiva serbata dalla contribuente: in luogo di operazioni eseguite – a detta dell’Ufficio – antieconomiche, avrebbero infatti potuto essere eseguite altre operazioni, economicamente sostenibili, all’uopo rappresentate dall’Ufficio e su cui la CTR non si sarebbe pronunciata, con conseguente insufficienza della motivazione.

11. Ciò premesso, è orientamento di questa Corte quello secondo cui “In materia tributaria, è principio consolidato di questa Corte che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (Cass. 13 luglio 2018, n. 18632). Costituisce dunque condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. 20 giugno 2018, n. 16217 che, nella specie, ha cassato la sentenza impugnata che, senza valorizzare i diversi elementi sintomatici della sussistenza dell’abuso allegati dall’Agenzia delle entrate né affrontare le concrete ricadute dell’operazione medesima ed erroneamente configurando un risparmio fiscale solo potenziale e futuro, aveva ritenuto non elusiva la complessa operazione negoziale tra società controllate, contraddistinta dalla rinuncia ad un credito della controllante verso la controllata, con conseguente sterilizzazione, ad opera di quest’ultima, della sopravvenienza attiva, ex art. 55 T.U.I.R.; Cass. 28 febbraio 2017, n. 5090)” (Cfr. Cass., V, n. 15321/2019).

12. Nel caso in commento, la decisione della CTR pare andare esente da censure tenuto conto che essa ha fatto propri i principi commerciali previsti dall’art. 2446 e ss. c.c., nel testo ratione temporis applicabile, che prevede come extrema ratio la messa in liquidazione della società. Occorre altresì considerare che le regole dettate dagli artt. 2446 e 2447 c.c. sono strumentali alla tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche dei terzi, tanto che la relazione patrimoniale che deve essere ivi allegata è da considerare alla stregua di un vero e proprio bilancio straordinario, redatto secondo i criteri legali dettati per il bilancio d’esercizio, in termini di verità, chiarezza e precisione, avendone la stessa finalità di misurazione del patrimonio sociale (Cfr. Cass., n. 14665/2019).

13. Orbene, alla decisione della CTR il patrono erariale non imputa l’erronea interpretazione dell’art. 2446 c.c., sì come fornita dal Collegio di secondo grado e dalla contribuente: invero la parte ricorrente non contesta l’errata interpretazione da parte del giudice d’appello, non essendo in atti negato che la messa in liquidazione della società sia uno degli effetti previsti dalla normativa richiamata nella decisione impugnata.

13.1 Parimenti la CTR non rappresenta degli elementi tali di dimostrare ex sé una condotta antielusiva. Al contrario giunge a tale conclusione indicando delle diverse operazioni fiscali (ivi compresa la rinuncia ad un credito pari ad Euro 577.367,00, di cui si dubita della natura economicamente vantaggiosa) che, se effettuate, avrebbero condotto ad una situazione economicamente vantaggiosa.

14. In tale contesto non pare però che l’Ufficio abbia adempiuto al proprio onus probandi, giacché le deduzioni svolte appaiono paralizzate delle deduzioni contrarie fondatamente opposte dalla contribuente e fatte proprie dalla CTR.

Il motivo è dunque infondato.

15. In conclusione il ricorso va parzialmente accolto in relazione al primo e al quarto motivo di ricorso, respinti gli altri.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso per le ragioni attinte dal primo e quarto motivo; respinge gli altri motivi, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR per la Lombardia, Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 novembre 2021

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