Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 337 del 10/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 10/01/2017, (ud. 18/10/2016, dep.10/01/2017),  n. 337

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Muro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8597/2012 proposto da:

CASTELLO SRL, (OMISSIS), L.B. (OMISSIS), elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA LUCULLO 3, presso lo studio dell’avvocato

NICOLA ADRAGNA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato

GIAMPIERO DONATI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI SUISIO, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO

EMANUELE 18, presso lo studio dell’avvocato STUDIO GREZ E ASSOCIATI,

rappresentato e difeso dall’avvocato EMILIO DANIELE GENEROSO, in

virtù di procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1320/2011 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 01/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/10/2016 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito l’Avvocato Nicola Adragna per i ricorrenti e l’Avvocato Emilio

Daniele Generoso per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Luigi Rosario, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato il 7 giugno 2006 L.B. e la Castello srl proponevano, presso il Tribunale di Bergamo, opposizione contro l’ordinanza ingiunzione dell’11 maggio 2006 del Comune di Suisio, con la quale era stato loro imposto il pagamento di Euro 941.442,00 a titolo di sanzione amministrativa in conseguenza della coltivazione non autorizzata di sabbia a ghiaia.

Essi esponevano che:

gli illeciti erano stati commessi nel (OMISSIS), per cui era il relativo ente gestore l’unico competente a sanzionarli; la sanzione era la reiterazione di altra sanzione irrogata in precedenza;

l’illecito non ricorreva, poichè non veniva in questione una coltivazione di minerali di cava, ma l’asportazione di materiali di risulta; i quantitativi indicati nel provvedimento non erano corretti.

Il Comune di Suisio restava contumace.

Il Tribunale di Bergamo, con sentenza n. 735/2007, annullava l’ordinanza ingiunzione.

Il Comune di Suisio proponeva appello, chiedendo la riforma della sentenza impugnata.

La Corte di Appello di Brescia, nella resistenza dell’appellato, con sentenza n. 1320/2011, accoglieva il gravame.

A sostegno della decisione adottata, la corte distrettuale evidenziava che:

– la competenza a sanzionare gli illeciti in questione spettava al Comune di Suisio;

– ricorrevano i presupposti per infliggere la sanzione in esame.

Avverso la indicata sentenza della Corte di Appello di Brescia hanno proposto ricorso per cassazione la Castello srl e L.B. sulla base di tre motivi.

Il Comune di Suisio ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione della L.R. Lombardia n. 86 del 1983, artt. 26, 27, 28 e 29 e L.R. Lombardia n. 14 del 1998, artt. 4, 29 e 30, nonchè il difetto di motivazione della sentenza.

Sostengono la Castello srl e L.B. che, poichè i fatti di causa si erano verificati all’interno del (OMISSIS), l’ente competente ad applicare la sanzione era il Consorzio per la Gestione del (OMISSIS), in quanto la L.R. n. 14 del 1998, art. 29, stabiliva che, qualora l’attività estrattiva si fosse svolta in territori compresi in parchi regionali, restavano ferme le sanzioni e le relative competenze previste dalle leggi regionali vigenti che, a loro avviso, spettavano, nella specie, al summenzionato Consorzio.

Con il secondo motivo i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione e la violazione della L.R. n. 14 del 1998, artt. 12 e 29, poichè la condotta in questione era già stata sanzionata dall’ente gestore del (OMISSIS).

Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano il difetto di motivazione della sentenza, nonchè la violazione degli artt. 2699 e 2700 c.c. e degli artt. 61, 62 e 191 c.p.c., in quanto la corte territoriale aveva errato nel considerare generiche le contestazioni proposte con l’atto di opposizione e nel giudicare inammissibili le istanze istruttorie reiterate in appello sul presupposto che le specificazioni sul tipo di materiale asportato e sulla modificazione del territorio provenivano da funzionari pubblici ed avevano la conseguente efficacia probatoria.

In particolare, essi deducevano che i summenzionati accertamenti non erano stati compiuti da pubblici ufficiali, ma dalla Lithos, una società a responsabilità limitata, e contenevano valutazioni e non fatti.

2. I motivi sono infondati e devono essere rigettati.

2.1 La sentenza gravata, nell’accogliere l’appello proposto dal Comune, ha attribuito rilevanza alla previsione di cui alla L.R. n. 14 del 1998, art. 4, nella parte in cui dispone che ai Comuni siano delegate, tra l’altro, la determinazione e l’irrogazione delle sanzioni amministrative per le funzioni delegate.

Tale previsione va poi correlata con l’art. 29, comma 4, della medesima legge che, relativamente alle sanzioni, prevede che ove l’attività estrattiva si svolga in territori compresi in parchi regionali, restano ferme le sanzioni e le relative competenze sanzionatorie previste dalle leggi regionali vigenti.

La disposizione deve essere poi interpretata alla luce del successivo art. 30, il quale, al comma 1, prevede che la vigilanza sull’attività nell’ambito territoriale estrattivo, la determinazione e l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 29 spettino, per delega della Regione, al Comune territorialmente competente, mentre al secondo comma dispone che nelle zone comprese negli ambiti territoriali delle Comunità montane e dei parchi l’ente gestore del parco e le Comunità montane rispettivamente collaborano all’ attività di vigilanza di cui al presente articolo, sulla base di accordi con i Comuni interessati.

Orbene a detta degli odierni ricorrenti, tale complesso normativo non poteva prescindere dalle previsioni di cui alla diversa L.R. n. 86 del 1983 (Piano regionale delle aree regionali protette. norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonchè delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale)

precisamente da quanto prescritto dagli artt. 27, 28 e 29 che prevedono delle sanzioni amministrative correlate alle violazioni ai divieti ed alle prescrizioni obbligatorie stabilite dai provvedimenti istitutivi delle singole aree protette e dai relativi provvedimenti di attuazione e dal regolamento di cui all’art. 4, comma 6 della stessa legge.

Secondo la Corte distrettuale il richiamo al potere sanzionatorio degli enti preposti alla tutela dei parchi e delle aree protette, contenuto nella legge del 1998, non consentiva di affermare, come invece sostenuto dagli opponenti, che il Comune fosse privo della potestà sanzionatoria. A tal fine, anche ove volesse farsi richiamo al principio di specialità invocato dagli stessi trasgressori, la legge del 1998, in relazione all’illecito contestato (esercizio dell’attività di cava in assenza o oltre i limiti autorizzativi) si pone come legge speciale, destinata quindi a prevalere sulle previsioni più generali dettate in tema di tutela delle aree regionali protette.

In tal senso va però evidenziata la diversa obiettività giuridica degli interessi protetti dalle sanzioni amministrative previste nelle due leggi regionali, nel senso che quelle contemplate nella L. n. 86 del 1983, mirano a colpire l’alterazione del territorio, in quanto produttiva di danno ambientale.

Orbene sostengono i ricorrenti che tale esegesi non possa essere condivisa e che viceversa andrebbe valorizzata la previsione di cui alla L. n. 14 del 1998, art. 29, comma 4, che appunto, nel caso di attività estrattiva che si svolga in territori compresi in parchi regionali, dispone che restino ferme le sanzioni e le relative competenze sanzionatorie previste dalle vigenti leggi regionali.

2.2 Ritiene il Collegio che la tesi sostenuta in ricorso contrasti apertamente con la corretta interpretazione che deve essere fornita delle previsioni normative de quibus.

E’ indubbio che, relativamente all’attività di sfruttamento delle cave, debba ritenersi speciale la legge del 1998, destinata in ogni caso a prevalere su eventuali previsioni di segno contrario contenute nella preesistente legge del 1983, anche in ragione del solo criterio della successione delle leggi nel tempo.

In tal senso, e quanto all’individuazione dell’autorità competente ad irrogare le sanzioni amministrative per l’attività di estrazione in assenza ovvero oltre i limiti del provvedimento autorizzatorio, appare del tutto esaustiva ed inidonea a creare dubbi di sorta la previsione di cui alla L. n. 14 del 1998, art. 30, la quale ribadisce la competenza dei Comuni per le sanzioni di cui all’art. 29, premurandosi di chiarire in che rapporti si ponga tale potere con quello degli enti gestori del parco, i quali, proprio in relazione all’attività estrattiva, sono chiamati a collaborare con i Comuni nell’attività di vigilanza.

L’espresso richiamo alla irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 29 contenuto nella previsione de qua dissipa quindi ogni dubbio in ordine alla possibilità di poter ravvisare una diversa competenza degli enti gestori, il cui ruolo è appunto quello di coadiuvare i Comuni nell’espletamento dell’attività di vigilanza.

La diversa soluzione proposta dai ricorrenti, che invece mira a far prevalere la disposizione di cui dell’art. 29, comma 4, viola il criterio interpretativo sistematico all’interno della stessa legge, che, a voler dare seguito alla tesi degli opponenti, dapprima statuirebbe per la competenza sanzionatoria a favore degli enti gestori, per poi, in un articolo successivo attribuire la medesima competenza ai Comuni. Osta altresì il criterio letterale, attesa la chiara riferibilità dell’attribuzione di competenza sanzionatoria contenuta nell’art. 30, proprio con riferimento alle violazioni di cui all’art. 29 della medesima legge.

2.3 Appare in ogni caso corretto il richiamo compiuto dai giudici di merito alla necessità di dover fare riferimento, nell’esegesi delle norme, alla diversa obiettività giuridica degli interessi protetti dalle previsioni di cui alla L. n. 14 del 1998 e dalla precedente L. n. 83 del 1986, ben potendosi attuare un soddisfacente e logico coordinamento delle due diverse disposizioni normative, nel senso che, attesa anche l’assenza di specifiche previsioni in materia di cave nella L. n. 83 del 1986, il richiamo di cui dell’art. 29, comma 4 della Legge del 1998 è finalizzato a mantenere ferme le sanzioni (nonchè le relative competenze sanzionatorie) previste da altre leggi regionali (ivi inclusa anche quella del 1983), che, in relazione alla medesima vicenda fattuale, consentano di ravvisare la sua offensività rispetto ad un diverso bene giuridico.

In tal senso si è affermato che (cfr. Cass. n. 3745/2009) il concorso apparente di norme sussiste quando più leggi regolano la stessa materia, intesa come stessa situazione di fatto, ipotesi che si verifica quando il medesimo accadimento concreto, inteso come fatto storicamente determinato, possa integrare il contenuto descrittivo di diverse previsioni legislative astratte a carattere sanzionatorie. Il concorso apparente è invece escluso nel caso in cui i fatti ipotizzati dalla fattispecie astratta siano diversi nella loro materialità, nella loro oggettività giuridica, ovvero quando la norma che regola un fatto contenga una clausola di riserva o, infine, quando la norma che prevede una fattispecie di illecito faccia riferimento solo “quoad poenam” ad altra norma prevedente diversa fattispecie.

Tornando al caso in esame, e ribadita la diversa oggettività giuridica tutelata dalle norme in esame, deve piuttosto reputarsi che la previsione di cui all’art. 29, comma 4 della legge del 1998, lungi dal sottendere la volontà di dare prevalenza alle sanzioni di cui alla preesistente legge, sia espressione della chiara scelta del legislatore di escludere il concorso apparente di norme, legittimando in tal modo l’applicazione per il medesimo fatto materiale, oltre che delle sanzioni correlate all’abusiva o illegittima attività di esercizio della cava, anche di quelle correlate alla produzione del danno ambientale (cfr. Cass. n. 18055/2004, circa la valenza di una clausola di salvezza, ai fini dell’esclusione del concorso apparente di nome in tema di sanzioni amministrative).

3. Del pari infondati devono ritenersi il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che appaiono meritevoli di disamina congiunta, attesa la loro connessione.

Appare al Collegio che gli stessi, ancorchè denunzino formalmente anche la violazione di legge, si risolvano in una sostanziale, e non consentita in sede di legittimità, richiesta di rivalutazione dei fatti di causa, così come operata da parte del giudice del merito.

Quanto, infatti, alla dedotta duplicazione della sanzione amministrativa, in considerazione della precedente irrogazione di altra sanzione in data 27 dicembre 2004, quale conseguenza dello spostamento di un terrazzo sul quale poggiava un traliccio di proprietà della società Terna, la Corte distrettuale, con motivazione logica e coerente ha ribadito la diversità dei fatti contestati, individuando con precisione gli elementi probatori che permettevano di distinguere in fatto le due vicende sanzionatorie, traendo argomenti fondamentali dal tenore della relazione del servizio di vigilanza ecologica del 3/2/2005 (redatta in epoca successiva alla prima contestazione), relazione che, in evidente violazione del principio di autosufficienza, non risulta riprodotta in ricorso, impedendo in tal modo alla Corte di poter verificare l’effettiva sussistenza di illogicità o incoerenze nell’iter argomentativo della sentenza impugnata.

Analoghe considerazioni devono farsi per (pianto attiene alla contestazione circa la consistenza e natura del materiale asportato, atteso che il convincimento del giudice di merito risulta supportato dal richiamo alla relazione di servizio del 17 novembre 2004 ed alle foto allegate, dall’elaborato grafico allegato alla verifica topografica e dal computo metrico (elementi anche questi non allegati o riportati in ricorso), che hanno indotto la Corte di merito ad affermare in fatto l’impossibilità di poter identificare il materiale de quo come materiale di scarto, trattandosi a tutti gli effetti di sabbia e ghiaia, e quindi di minerale di cava.

Pertanto una volta pervenuta a tale conclusione in fatto, ed avendo ritenuto che non fosse stata dimostrata la asportazione di materiale di risulta di precedenti lavorazioni, appare altresì corretta la qualificazione ai sensi della L. n. 14 del 1998, art. 29, dell’attività posta in essere dai ricorrenti, potendosi a tal fine richiamare quanto già affermato da questa Corte (cfr. Cassazione civile sez. 2, 29 ottobre 2012 n. 18592), secondo cui, anche laddove il soggetto sia stato autorizzato ad effettuare lavori di bonifica con asportazione di materiali, ai sensi della legislazione speciale in materia introdotta dalla Regione Lombardia, ove tuttavia effettui escavazioni al di sotto della fascia di terreno) coinvolta, incidenti stabilmente e durevolmente sullo stato dell’area sia sotto il profilo ambientale e paesistico, sia sotto il profilo geofisico ed idrogeologico, si dà luogo all’apertura di una cava, che necessita della relativa autorizzazione, ponendo in essere un quid novi rispetto all’attività già autorizzata.

Trattasi di considerazioni che appunto si fondano sull’accertamento di un’attività di scavo, così come avvenuto nel caso in esame, e che rendono quindi del tutto irrilevante la circostanza, pur addotta in ricorso, secondo cui la società ricorrente avrebbe convenuto con l’ente gestore del parco, e con l’approvazione del Comune, un piano di recupero dell’area della cava degradata, posto che lo scavo di materiale minerario, come accertato dal personale di vigilanza, è cosa ben diversa dalle eventuali movimentazioni di terreno necessitate dal piano di recupero ambientale.

Quanto poi alla pretesa incongruenza della motivazione della sentenza impugnata derivante dal non avere adeguatamente preso in considerazione gli elaborati redatti dalla Gamma Progettazione Territorio S.r.l., si rileva che la Corte distrettuale ha puntualmente evidenziato le ragioni per le quali non potevano avere efficacia dirimente tali indagini, atteso che l’alterazione delle quote del piazzale (e non della collinetta sulla quale si ergeva il traliccio) era stata accertata anche visivamente dal personale addetto alla Vigilanza Ecologica, emergendo poi la quantità di materiale scavato proprio dalla successiva verifica compiuta dalla l ithos, che si era avvalsa, al fine di compiere il raffronto tra la situazione precedente, proprio dell’elaborato predisposto dallo Studio Gamma, che risaliva ad un’epoca anteriore all’esecuzione degli interventi che hanno determinato l’applicazione della sanzione per cui è causa.

Anche a tal riguardo il ricorso appare evidentemente carente del requisito di autosufficienza, in quanto le parti si limitano a riportare stralci delle relazioni predisposte dallo Studio Gamma, e collocate cronologicamente prima dei fatti interessati dall’ordinanza in questa sede opposta, omettendo però di riportare in ricorso il contenuto della relazione predisposta dalla Lithos, che pur si assume essere inattendibile.

Quanto infine alla doglianza concernente la mancata ammissione delle prove testimoniali, occorre ribadire che la valutazione delle prove, il giudizio sull’attendibilità dei testi e la scelta, tra le varie risultanze istruttorie, di quelle più idonee a sorreggere la motivazione involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale e libero di formare il suo convincimento utilizzando gli elementi che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti, essendo limitato il controllo del giudice della legittimità alla sola congruenza della decisione dal punto di vista dei principi di diritto che regolano la prova (Cfr. Cass., Sez. 1, sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014; Cass., Sez. 1, sentenza n. 42 del 7 gennaio 2009; Cass., Sez. L., sentenza n. 2404 del 3 marzo 2000).

Ne consegue che non appare censurabile in questa sede la valutazione espressa sul punto dalla Corte distrettuale che ha esplicitamente affermato che la prova della natura del materiale asportato emergeva chiaramente dai sopralluoghi effettuati dal personale di vigilanza, ed avendo invece la richiesta di CTU una finalità meramente esplorativa.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al rimborso in favore della controparte delle spese del presente giudizio, come da dispositivo che segue.

PQM

La Corte, rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al rimborso in favore del Comune di Suisio delle spese del giudizio che liquida in Euro 15.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi, ed accessori come per legge.

Si dà atto che la sentenza è stata redatta con la collaborazione dell’assistente di studio Dott. C.D..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 18 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2017

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