Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33695 del 18/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 18/12/2019, (ud. 19/09/2018, dep. 18/12/2019), n.33695

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21434/2014 proposto da:

P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PARAGUAY 5,

presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO RIZZO, che la rappresenta e

difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

ALITALIA LINEE AEREE ITALIANE S.P.A., IN AMMINISTRAZIONE

STRAORDINARIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANGELO SECCHI 9, presso lo

studio dell’avvocato ATTILIO ZIMATORE, che la rappresenta e difende

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 349/2014 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il

06/08/2014 R.G.N. 38874/2012.

Fatto

RILEVATO

che, con decreto depositato il 6.8.2014, il Tribunale di Roma, Sezione Fallimentare, definitivamente pronunziando sull’opposizione allo stato passivo di Alitalia-Linee Aeree Italiane S.p.A., proposta da P.M., ha rigettato l’opposizione ed ha condannato la P. alla rifusione delle spese di lite, in favore della società;

che avverso tale sentenza P.M. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi contenenti una pluralità di censure; che Alitalia-Linee Aeree Italiane S.p.A. in Amministrazione Straordinaria ha resistito con controricorso;

che sono state depositate memorie nell’interesse della società;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “la violazione e falsa applicazione del principio di disponibilità della prova (art. 115 c.p.c.); del principio di disponibilità e di valutazione della prova secondo il prudente apprezzamento del giudice (artt. 115 e 116 c.p.c.); dei principi sull’onere della prova (art. 2697 c.c.); del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (artt. 99 e 112 c.p.c.); delle norme sulla valutazione della volontà risolutiva per mutuo consenso (artt. 1321 e 1372 c.c.) e sull’interpretazione del contratto (artt. 1362 c.c. e segg.); dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e di esecuzione di buona fede del contratto (art. 1375 c.c.) e si assume che il decreto del Tribunale Fallimentare di Roma vada cassato per avere erroneamente ritenuto che i rapporti a termine stipulati tra essa ricorrente e la società Alitalia S.p.A. si sono risolti per mutuo consenso, in considerazione del decorso di più di dieci anni tra la stipulazione del primo contratto di lavoro e la richiesta di in situazione al passivo e che tale comportamento sarebbe stato immotivatamente inerte, senza considerare che il 25.11.2008 la società datrice ha collocato in CIGS a zero ore tutto il personale di terra e di volo, in vista della programmata cessazione dell’attività operativa, con pagamento a carico dell’INPS della relativa indennità; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, perchè il Tribunale non avrebbe considerato che vi era stata la proposizione del tentativo di conciliazione in sede amministrativa dinanzi alla D.P.L. di Roma con lettera del 13.2.2008, con contestuale messa in mora della società; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità del decreto e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale omesso qualsiasi decisione in merito alla prima domanda subordinata proposta dall’esponente;

che il primo motivo – che presenta numerosi profili di inammissibilità non è fondato; le molteplici censure, alcune delle quali tendono, nella sostanza, ad ottenere un nuovo esame del merito, non consentito in questa sede, sono comunque incentrate sulla doglianza relativa alla risoluzione del contratto per mutuo consenso stabilita con il decreto oggetto del giudizio di legittimità. Al riguardo, il Tribunale ha correttamente rilevato che la risoluzione per mutuo consenso può essere rilevata d’ufficio; per la qual cosa, non si ravvisa alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c.; ed invero, perchè possa utilmente dedursi in sede di legittimità la violazione dell’art. 112 c.p.c. – fattispecie riconducibile ad una ipotesi di error in procedendo ex art. 360 c.p.c., n. 4 – sotto il profilo della mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunziato, deve prospettarsi, in concreto, la pronunzia su una domanda non proposta; la qual cosa non si profila nel caso di specie, in cui, nella sostanza, non viene neppure in considerazione l’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza della domanda; attività, quest’ultima, che integra un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in Cassazione, se non sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (cfr., tra le molte, Cass. nn. 7932/2012; 20373/2008). Il giudice, infatti, ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente l’azione e di attribuire al rapporto dedotto in giudizio un nomen iuris diverso da quello indicato dalle parti, purchè non sostituisca la domanda proposta con una diversa, modificando i fatti costitutivi e fondandosi su una realtà fattuale non dedotta e allegata in giudizio. Nel caso di specie, i giudici di secondo grado non hanno introdotto nel processo una causa petendi diversa da quella enunciata dalla parte a sostegno della domanda, ma hanno proceduto correttamente a vagliare le istanze istruttorie e la documentazione prodotta dalle parti e, all’esito di tale procedimento delibatorio, hanno rilevato d’ufficio che, dato il decorso di oltre 10 anni tra la stipula del primo contratto e la richiesta di insinuazione al passivo da parte della opponente, si fosse in presenza di una risoluzione del rapporto per mutuo consenso. Al riguardo, deve premettersi che la Corte di legittimità ha, in più occasioni, precisato che, “affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro” (così, testualmente, Cass. n. 20605/2014; cfr., pure, nella materia, ex plurimis, Cass. nn. 11262/2013; 5887/2011, 23319/2010, 26935/2008, 20390/2007, 23554/2004). Orbene, nella fattispecie, il Tribunale si è attenuto a tale consolidato principio e, con una motivazione condivisibile – basata, appunto, sul computo degli anni trascorsi tra la stipula del primo contratto di lavoro e la richiesta di insinuazione al passivo e sulla valutazione dell’intervallo temporale intercorso tra la conclusione del contratto a tempo indeterminato e l’insinuazione al passivo – e scevra da vizi logico-giuridici, ha reputato che la condotta tenuta dalla P. fosse incompatibile, sotto il profilo obiettivo, con la ripresa della funzionalità del rapporto di lavoro; cfr. Cass. n. 29781/17.

che, inoltre, è ius receptum che il difetto di motivazione su un’istanza di ammissione di mezzo istruttorio o sulla valutazione di un documento o di risultanze probatorie o processuali denunciabile in sede di legittimità – peraltro nel rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione, come definito da Cass., S.U. n. 22726/2011 – deve riguardare specifiche circostanze oggetto della prova e del contenuto del documento trascurato o erroneamente interpretato dal giudice di merito, sulle quali il giudice di legittimità può esercitare il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse (arg. ex Cass. nn. 21486/2011; 17915/2010); nella specie, si rileva che i giudici di merito hanno operato una valutazione delle prove documentali fornite dalle parti, spiegando quali prove hanno ritenuto pregnanti per giungere alla decisione impugnata in questa sede; la qual cosa rientra nella valutazione discrezionale demandata agli stessi; che il secondo motivo è inammissibile, in quanto, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poichè il decreto oggetto del giudizio di legittimità è state depositato, come riferito in narrativa, in data 6.8.2014, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale non indica il fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, fa riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare” in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015) che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale, come osservato in precedenza, con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata;

che il terzo motivo non è fondato, in quanto il Tribunale non è incorso nel vizio di “omessa pronunzia”, poichè il cumulo dei periodi di lavoro a termine finalizzato al riconoscimento degli scatti di anzianità presuppone, all’evidenza, il riconoscimento di un rapporto di lavoro unitario dal 2000 al 2008 senza soluzione di continuità; ed al riguardo, il Tribunale ha reputato correttamente che i rapporti di lavoro inter partes si siano risolti per mutuo consenso. Pertanto, tale decisione rappresenta l’antecedente logico-giuridico per l’implicito rigetto anche della domanda subordinata, disattesa a causa del rigetto della principale;

che il ricorso va dunque respinto, non risultando i motivi articolati idonei a scalfire le puntuali argomentazione della Corte di merito;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019

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