Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33598 del 18/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 18/12/2019, (ud. 05/11/2019, dep. 18/12/2019), n.33598

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7268/2014 R.G. proposto da:

O.I., già titolare della ditta individuale Interauto,

cessata, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dall’Avv.

Claudio Lucisano, dall’Avv. Natale Mangano Ge dall’Avv. M. Sonia

Vulcano, elettivamente domiciliata presso lo studio del primo

Avvocato, in Roma, Via Crescenzio n. 91, giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12 è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del

Piemonte, n. 108/31/2013 depositata il 20 settembre 2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 5 novembre 2019

dal Consigliere Dott. D’Orazio Luigi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il

rigetto del ricorso

udito l’Avv. Claudio Lucisano, per la ricorrente;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Commissione tributaria regionale del Piemonte accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Torino, che aveva accolto il ricorso proposto da O.I., quale titolare della ditta individuale Interauto, esercente attività di commercio autovetture, cessata, in relazione all’Iva del 2005, avverso l’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate nei confronti della ditta individuale (per minori acquisti per Euro 1.024.297,00), per avere partecipato ad una frode carosello, con l’acquisto di numerose auto da fornitori che, in realtà, erano delle mere cartiere, mentre le auto venivano fornite da altri soggetti, diversi dagli operatori economici che emettevano le fatture. Il giudice di appello ha evidenziato che l’avviso di accertamento esponeva in modo dettagliato le motivazione della ripresa a tassazione, in quanto le vetture acquistate erano 24 nel 2004 e 26 nel 2005, che le auto venivano consegnate direttamente dai titolari “su strada”, che i pagamenti erano effettuati “a pronti” alla consegna, che i contatti erano solo con i titolari delle società emittenti, che non vi erano stati controlli del contribuente sui fornitori, tranne l’acquisizione dei certificati camerali, che il procedimento penale, terminato con l’archiviazione, era indipendente da quello tributarlo, che Marciano Martino aveva dichiarato che l’Iva delle vendite non versata veniva divisa al 50 % con il contribuente, che la mera iscrizione nel registro delle imprese e la titolarità della partita Iva non erano elementi sufficienti per dimostrare che i soggetti emittenti le fatture fossero esistenti ed effettivi, che molti fornitori erano risultati evasori ed avevano iniziato e cessato l’attività nell’arco di un paio di anni.

2.Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società.

3.Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo di impugnazione la contribuente deduce “violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, carenza di motivazione dell’accertamento e violazione del diritto al contraddittorio”, in quanto “in tutti i verbali di contraddittorio” la contribuente ha sempre dichiarato l’esistenza e l’oggetto sociale dell’attività esercitata dal fornitore attraverso le visure camerali. Le informazioni più attendibili, quindi, non potrebbero che giungere dalle visure estratte dalla camera di commercio, mentre altre ed ulteriori indagini non sarebbero possibili per un imprenditore. Per le imposta armonizzate come l’Iva è sempre necessario il contraddittorio preventivo.

1.1.Tale motivo è in parte inammissibile ed d in parte infondato.

E’ inammissibile in relazione alla censura in ordine alla motivazione dell’avviso di accertamento, in quanto la ricorrente avrebbe dovuto, per il principio di autosufficienza, riportare integralmente il contenuto di tale avviso, onde consentire a questa Corte di valutare la sufficienza e la congruità della motivazione della sentenza del giudice di appello.

Tra l’altro, la ricorrente deduce il vizio di violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, pur censurando la motivazione della sentenza del giudice di appello in ordine alla carenza di motivazione dell’avviso di accertamento.

E’ infondato, in quanto benchè sia corretto affermare che in tema di Iva, quale tributo armonizzato, è necessario il contraddittorio preventivo con il contribuente, è la stessa ricorrente ad ammettere espressamente che “in realtà in tutti i verbali di contraddittorio la contribuente ha sempre dichiarato di aver riscontrato l’esistenza e l’oggetto sociale dell’attività esercitata dal fornitore attraverso le visure camerali”. Pertanto, il contraddittorio preventivo è stato correttamente espletato.

Nè la contribuente si è lamentata di non aver avuto accesso, su sua espressa richiesta, al fascicolo dell’Agenzia delle entrate, per poter visionare tutti i documenti a suo carico (per il diritto del contribuente di accedere agli atti del fascicolo dell’Ufficio cfr. Corte di Giustizia UE16-10-2019, n. 189).

2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta “omesso esame su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sull’assenza del presupposto legittimante la pretesa accertata”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto sussistenti gli elementi che indicano l’attività di emissione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, desunti dalla consegna delle auto direttamente dai titolari, senza una attività di trasporto, dai pagamenti effettuati “a pronti” al momento della consegna, dai contatti tenuti solo con i titolari delle imprese fornitrici, dalla assenza di controlli sull’operato dei fornitori, fatta eccezione, in due casi, per l’acquisizione dei certificati camerali. Tali elementi per la ricorrente sono solo dei meri indizi, privi di qualunque riscontro. Nè sono stati operati controlli bancari sui pagamento e sulla eventuale retrocessione del denaro tra interponente e interposto.

2.1.Tale motivo è infondato.

In realtà, il giudice di appello ha indicato con precisione gli elementi di prova da cui desumere che le imprese fornitrici si limitavano ad emettere fatture per operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto le auto erano fornite da terzi soggetti.

La Commissione regionale si è basata su vari elementi presuntivi, tutti connotati dal requisito della gravità e tutti concordanti tra loro: le auto venivano consegnate direttamente dai titolari, senza alcuna attività di trasporto; i pagamenti avvenivano “a pronti” al momento della consegna; non esistevano contratti di assicurazione danni “in itinere”; i contatti erano tenuti solo con i titolari delle imprese fornitrici, senza indicazione di eventuali dipendenti o collaboratori; non vi erano stati controlli per accertare se le imprese fornitrici fossero effettivamente operanti, in quanto la contribuente si era limitata, e nemmeno in tutti i casi, ad acquisire la visura camerale da cui risultava che le imprese erano iscritte all’ufficio delle imprese della camera di commercio; il provvedimento di archiviazione penale non spiegava effetti nel processo tributario; M.M. aveva dichiarato che sia il M. che la O., soci della attuale Interauto sas, si dividevano l’Iva delle vendite non versata. Le imprese fornitrici duravano non più di due anni.

La ricorrente censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione della sentenza di appello, che è stata depositata il 20-9-2013, quindi dopo le innovazioni apportate a tale norma dal D.L. n. 83 del 2012, in vigore per le sentenze pubblicate a decorrere dall’11-9-2012.

La ricorrente, quindi, anzichè indicare l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti, si limita a chiedere una nuova valutazione degli elementi di fatto, già compiuta dal giudice di merito con congruità argomentativa, ma non consentita in questa sede.

3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “falsa applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto, benchè vi sia stato provvedimento di archiviazione in sede penale del procedimento instaurato nei confronti della contribuente, il giudice di appello ha affermato che “l’archiviazione del procedimento penale non costituisce elemento determinante nell’ambito del processo tributario, esistendo la più assoluta indipendenza fra i due procedimenti”.In realtà, il giudice di appello avrebbe dovuto tenere conto del fatto che la sentenza penale costituisce elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati, sicchè il giudice tributario può tenere conto di tali risultanze.

3.1.Tale motivo è infondato.

Invero, il giudice di appello non è incorso in alcuna violazione di legge. Infatti, in materia di contenzioso tributario, nessuna automatica autorità di cosa giudicata può attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile, di condanna o di assoluzione, emessa in materia di reati fiscali, ancorchè i fatti esaminati in sede penale siano gli stessi che fondano l’accertamento degli Uffici finanziari, dal momento che nel processo tributario vigono i limiti in tema di prova posti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 4, e trovano ingresso, invece, anche presunzioni semplici, di per sè inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna; ne consegue che il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza penale definitiva in materia di reati fiscali, recependone acriticamente le conclusioni assolutorie, ma, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c.), deve procedere ad un suo apprezzamento del contenuto della decisione, ponendolo a confronto con gli elementi di prova acquisiti al giudizio (Cass., 24 novembre 2017, n. 28174).

Peraltro, neppure la sentenza irrevocabile di assoluzione fa stato in sede tributaria. Si è, infatti, affermato che nel processo tributario, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta sentenza è destinata ad operare (Cass., 22 maggio 2015, n. 10578; Cass., 27 giugno 2019, n. 17258).

Nel caso in esame, poi, vi è stata solo l’archiviazione del procedimento penale da parte del Gip, quindi non è stata pronunciata alcuna sentenza.

Per questa Corte, quindi, il decreto di impromuovibilità dell’azione penale (adottato ai sensi dell’art. 408 e s.s. c.p.p.) non impedisce che lo stesso fatto venga diversamente definito, valutato e qualificato dal giudice civile (nella specie, del giudice tributario), poichè, a differenza della sentenza, la quale presuppone un processo, il provvedimento di archiviazione ha per presupposto la mancanza di un processo e non dà luogo a preclusioni di alcun genere (Cass., 13 aprile 2007, n. 8888; Cass., 18 aprile 2014, n. 8999).Nessun ostacolo all’accertamento dei fatti per cui è causa, dunque, può giungere da un provvedimento di archiviazione del procedimento penale, incardinato nei confronti della contribuente, in quanto tale atto non impedisce che sia valutato dal giudice civile.

Tra l’altro, nel giudizio tributario il materiale probatorio acquisito nel corso delle indagini preliminari con strumenti propri del procedimento penale è utilizzabile ai fini della prova della pretesa fiscale, in quanto l’atto legittimamente assunto in sede penale, poi trasmesso all’Amministrazione finanziaria, rientra tra gli elementi che il giudice deve valutare ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 63 (Cass., 5 aprile 2019, n. 9493).

Nella specie, il giudice di appello ha utilizzato le dichiarazioni M.M. che ha riferito della divisione delle somme relative all’Iva non versata, nella misura del 50 %, con la contribuente.

4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto nell’avviso di accertamento si evidenziava che la finalità per la quale si ricorreva agli interposti era quella di “ottenere condizioni di prezzo concorrenziali”, mentre la contribuente ha prodotto le fatture di acquisto, la fotocopia del bonifico attestante il pagamento, il libretto di vettura e la fattura di venduta, oltre alle dichiarazioni sostitutive di atto notorio dei fornitori attestanti il pagamento dell’Iva. Dalle rivista specialistiche però emergeva che i prezzi di vendita delle autovetture più significative erano simili a quelli praticati dalla ditta Interauto.

4.1.Tale motivo è infondato.

Infatti, a fronte del quadro indiziario esposto dalla Commissione regionale, la mancata indicazione delle riviste specializzate non assurge a “omesso esame di un fatto decisivo”, in assenza, appunto, della suddetta decisività.

Di nuovo la ricorrente pretende una nuova rivalutazione dei fatti di causa, già adeguatamente esaminati e valutati dal giudice del merito, non consentita in questa sede.

S.Con il quinto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. dell’art. 10 del Trattato CEE degli artt. 167, 168 lettera a e 178 della Direttiva 2006/12 sul diritto alla detrazione dell’Iva”, in quanto il giudice di appello ha ritenuto che la contribuente non è stata diligente nei rapporti con i propri fornitori. Al contrario, la ricorrente evidenzia che ha acquisito le visure camerali relative ai fornitori, per riscontrare la loro iscrizione nel registro delle imprese. L’Agenzia delle entrate, quindi, non ha in alcun modo provato che la contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che le operazioni in questione si inserivano all’interno di una evasione commessa dalle società emittenti le fatture o di altro operatore intervenuto a monte della catena delle prestazioni.

5.1.Tale motivo è infondato.

5.2.Per questa Corte, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, è onere dell’Amministrazione che contesti il diritto del contribuente a portare in deduzione il costo ovvero in detrazione PILA pagata su fatture emesse da un concedente diverso dall’effettivo cedente del bene o servizio, dare la prova che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapesse o potesse sapere (in tal senso anche Corte di Giustizia UE 22 ottobre 2015, causa C-277/14 PPUK; anche 15 luglio 2015, causa C-159/14 Koela -N; luglio 2015, causa C-123/14 Itales; 13 febbraio 2014″ in causa C-18/13 Maks Pen Eood; 21 giugno 2012, in causa C-80/11 e C-142/11, Mahageben et David;), con l’uso della diligenza media, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si è iscritta in un’evasione o in una frode. La dimostrazione può essere data anche attraverso presunzioni semplici, valutati tutti gli elementi indiziari agli atti, attraverso la prova che, al momento in cui ha stipulato il contratto (nella specie di leasing immobiliare), il contribuente è stato posto nella disponibilità di elementi sufficienti per un imprenditore onesto che opera sul mercato e mediamente diligente, a comprendere che il soggetto formalmente cedente il bene al concedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o compiuto una frode (Cass., 28 febbraio 2019, n. 5873).

Pertanto, in tema di Iva, l’Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione sì inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27566; Cass., 24 agosto 2018, n. 21104; Cass., 14 marzo 2018, n. 6291; Cass., 28 marzo 2018, n. 7613).

L’Amministrazione finanziaria non può limitarsi a dimostrare l’inidoneità operativa del cedente, ma deve dimostrare altresì che il cessionario quantomeno fosse in grado di percepire (“avrebbe dovuto”) tale inidoneità in base alla sua diligenza specifica quale operatore medio del settore (Cass., 6864/2016). Più in generale l’Amministrazione finanziaria ha l’onere di provare (in base ad elementi oggettivi, anche presuntivi; Cass., n. 155044 e n. 20059 del 2014) che il cessionario o committente si trovasse di fronte a circostanze indizianti dell’esistenza di irregolarità nell’operazione.

5.3.Per questa Corte, poi, in tema di IVA, il diritto del contribuente alla relativa detrazione costituisce principio fondamentale del sistema comune Europeo come ripetutamente affermato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea (sentenze 6 luglio 2006, in C-439/04 e C-440/04, 6 dicembre 2012, in C285/11, 31 gennaio 2013, in C-642/11) – e non è suscettibile, in linea di principio, di limitazioni. Ne consegue che l’Amministrazione finanziaria, ove ritenga che il diritto debba essere negato attenendo la fatturazione ad operazioni oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ha l’onere di provare, anche avvalendosi di presunzioni semplici, che le operazioni non sono state effettuate o, nella seconda ipotesi, che il contribuente, al momento in cui acquistò il bene od il servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si inseriva in una evasione commessa dal fornitore, fermo restando che, nelle ipotesi più semplici (operazioni soggettivamente inesistente di tipo triangolare), detto onere può esaurirsi, attesa l’immediatezza dei rapporti, nella prova che il soggetto interposto è privo di dotazione personale, mentre in quelle più complesse di “frode carosello” (contraddistinta da una catena di passaggi, in cui sono riscontrabili fatturazioni per operazioni sia oggettivamente che soggettivamente inesistenti, con strumentali interposizioni anche di società “filtro”) occorre dimostrare gli elementi di fatto caratterizzanti la frode e la consapevolezza di essi da parte del contribuente (Cass., 30 ottobre 2013, n. 24426; in tema di frodi carosello vedi Cass., 26464/2018, che richiama Cass., 9721/2018 e Cass., 9851/2018).

5.4.Nella specie, il giudice di appello ha indicato in modo chiaro e completo tutti gli elementi indiziari che deponevano per la conoscenza o conoscibilità della condotta illecita delle imprese fornitrici delle auto. Le auto venivano consegnate direttamente dai titolari senza la presenza di alcun trasportatore terzo, i pagamenti venivano effettuati “a pronti” alla consegna dell’auto o in due momenti, il primo all’atto della consegna e l’altro a pochi giorni di distanza, non esistevano accordi di assicurazione per l’danni in itinere, erano state acquistate numerose auto (24 nel 2004 e 26 nel 2005), i contatti erano tenuti esclusivamente con i titolari senza indicazione di eventuali dipendenti o collaboratori, M.M. ha dichiarato che l’Iva delle vendite non versata veniva divisa al 50 % con la contribuente.

A fronte di tale imponente quadro indiziario che, addirittura, provava la compartecipazione della contribuente alla truffa carosello, giungendo quest’ultima ad appropriarsi del 50 % dell’Iva non versata dalle imprese emittenti, la ricorrente si è limitata a riferire che provvedeva ad acquisire il certificato camerale, documento che prova soltanto che una impresa è iscritta al registro delle imprese, ma non fornisce alcun elemento in ordine alla effettiva operatività delle società fornitrici.

6.Con il sesto motivo la ricorrente si duole della “nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 112 c.p.c.”, in quanto il giudice di appello ha omesso ogni pronuncia in ordine a quanto dedotto dalla contribuente sull’illegittimità dell’accertamento concernente l’acquisto dell’auto Porche Cayenne V6 targata (OMISSIS), con valore di vendita di Euro 65.000,00, in quanto, tale vettura è stata acquistata dalla Damilano Automobili s.r.l. L’auto è stata venduta a Torino, la proprietaria è la Ge capita Servizi del’Iva risultava assolta.

6.1. Tale motivo è inammissibile ed infondato.

Invero, da un lato, il motivo non è autosufficiente in quanto la ricorrente non indica in quale atto processuale ha indicato tale circostanza.

Dall’altro, è anche infondato, in quanto la circostanza che il giudice di appello non abbia fatto riferimento espresso a tale circostanza non integra certo una omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c.. Trattasi di un mero elemento di fatto ed istruttorio che il giudice ha valutato unitamente ad altri, per disattendere le doglianze della contribuente.

Invero, la ricorrente avrebbe potuto al più censurare la motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deducendo l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti.

Peraltro, il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella versione anteriore al D.L. n. 83 del 2012, è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., n. 2272/2007).

7.Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 112 c.p.c.”, in quanto solo in sede di appello l’Agenzia delle entrate ha prodotto la copia del processo verbale di constatazione a base dell’avviso di accertamento. Per la ricorrente l’Agenzia delle entrate avrebbe potuto produrre tale documentazione sin dal primo grado di giudizio.

7.1.Tale motivo è infondato.

Invero, nel giudizio tributario il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2 consente ad entrambe le parti di produrre nuovi documenti in sede di appello.

8.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2019

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