Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33540 del 28/12/2018

Cassazione civile sez. II, 28/12/2018, (ud. 21/09/2018, dep. 28/12/2018), n.33540

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29075-2017 proposto da:

G.A., rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI

TARQUINI;

– ricorrente –

contro

ORDINE PSICOLOGI EMILIA ROMAGNA, in persona del suo Presidente e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio dell’avvocato

ALFREDO PLACIDI, rappresentato e difeso dall’avvocato FEDERICO

GUALANDI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1851/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 11/08/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/09/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per improcedibilità in sub rigetto

del ricorso;

udito l’Avvocato TARQUINI Giovanni difensore del ricorrente che si

riporta agli atti depositati;

udito l’Avvocato GUALANDI Federico, difensore del resistente che si

riporta agli atti depositati.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso del 20 aprile 2013, il dott. G.A. adiva il Tribunale di Bologna chiedendo l’annullamento della Delib. 26 marzo 2013, n. 21 del 2013, con cui il Consiglio dell’ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, ad esito di un procedimento disciplinare, aveva irrogato, all’iscritto, la sanzione della sospensione dall’esercizio della professione per un anno, formulando le seguenti conclusioni: 1) in via principale accertare la nullità, l’annullabilità, ovvero, l’illegittimità della deliberazione impugnata, ovvero, rimuoverne gli effetti, per tutti i motivi esposti, in quanto adottata in violazione delle norme procedurali che regolano il procedimento disciplinare; poichè si riferisce ad asseriti fatti che sarebbero, comunque, ad oggi, ampiamente, prescritti; per assenza incoerenza ed illogicità della motivazione; 2) in via subordinata, dichiarare eccessiva la sanzione comminata.

Con memoria difensiva depositata in data 24 giugno 2013, si costituiva l’Ordine degli Psicologi della Regione Emilia-Romagna, chiedendo il rigetto del ricorso.

Il Tribunale di Bologna rigettava il ricorso. Il Tribunale riteneva infondate le censure formali relative alla violazione del regolamento disciplinare; nel merito, sussistente la contestata violazione dell’art. 28 Codice ontologico degli Psicologi Italiani, per avere il dott. G. violato il divieto di commistioni tra professione e vita privata e per avere tratto indebiti vantaggi, diretti o indiretti, di carattere patrimoniale della professione. Riteneva infine congrua la sanzione applicata. Avverso questa sentenza interponeva appello per diversi motivi ma sostanzialmente riproponendo le domande e le eccezioni già proposte nel giudizio di primo grado, chiedendo la riforma integrale della sentenza impugnata.

Si costituiva l’Ordine dei Psicologici dell’Emilia-Romagna chiedendo il rigetto dell’appello.

La Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 1851 del 2017, rigettava l’appello e condannava l’appellante al pagamento delle spese del giudizio. Secondo la Corte distrettuale, le condotte illecite contestate sono state poste in essere fino all’anno 2008 e, perciò, non sono prescritte considerato che ai sensi dell’art. 2 comma 5 del Regolamento Disciplinare dell’Ordine degli Psicologici dell’Emilia-Romagna, l’illecito disciplinare si prescrive nel termine di cinque anni dalla commissione del fatto. Le dichiarazioni rese dai testimoni, in sede penale, hanno confermato i fatti oggetto del procedimento disciplinare e segnatamente la rete di rapporti amicali instaurata dal dott. G. con i propri pazienti e di questi tra loro. L’ordine professionale ha condivisibilmente affermato che le illegittime condotte poste in essere dal dott. G. sono state dannose per i pazienti e lesive dell’immagine sociale della professione. La sanzione disciplinare di sospensione dall’esercizio professionale per un periodo di un anno doveva ritenersi adeguata vista la gravità dei fatti commessi, del numero dei pazienti coinvolti della reiterazione delle condotte e della prolungata durata nel tempo delle stesse.

La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da G.A. con ricorso affidato a quattro motivi, illustrati con memoria. L’Ordine degli psicologici dell’Emilia-Romagna ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via preliminare, il Collegio osserva che non sussite improcedibilità per mancanza dell’attestazione di conformità della copia della sentenza notificata telematicamente perchè non risulta contestata la conformità all’originale.

1.= Con il primo motivo di ricorso, G.A. lamenta la falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in particolare, dell’art. 9 del regolamento, adottato dall’Ordine degli Psicologici dell’Emilia-Romagna. Sospensione del procedimento disciplinare in attesa dell’esito del giudizio penale sugli stessi fatti. Secondo il ricorrente, la Corte di Appello di Bologna avrebbe rigettato l’istanza di sospensione del procedimento ex art 9 Reg. Disc. su un presupposto non veritiero e cioè che i fatti oggetto del procedimento disciplinare erano diversi dai fatti del procedimento penale in corso, non tenendo conto che le circostanze portate a sostegno dell’accusa di violenza sessuale ed, in particolare, di abuso dell’asserita condizione di inferiorità psichica della D.L., erano esattamente quelle stesse oggetto, anche, del procedimento disciplinare, vale a dire asserite interferenze nella vita privata dei pazienti, decisioni sulle scelte personali, partecipazioni a battesimi, organizzazione di vacanze, collocamento in appartamenti di proprietà di parenti del dr. G.. Senza dire, secondo il ricorrente, che la Corte distrettuale, avrebbe dovuto considerare che il concetto di identità di fatti tra l’oggetto di un procedimento disciplinare e quello di un giudizio penale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 9 Reg. Disc., comprenderebbe non solo l’ipotesi di una perfetta coincidenza dei comportamenti oggetto di incolpazione e di imputazione, ma, anche, i casi in cui si debbano trattare e verificare nel procedimento disciplinare circostanze comportamentali facenti capo all’indagato/incolpato che nel giudizio penale sono poste a fondamento di un presupposto essenziale del reato contestato, dunque, suscettibili di essere oggetto di accertamento giudiziale in tale sede.

1.1.= Il motivo è infondato.

Pur tralasciando di dar conto dei profili di genericità del motivo, in esame, dato che il ricorrente omette di riportare, quantomeno, il contenuto della denuncia-querela della D., nonchè “la lunga ed articolata imputazione formulata dal Pubblico Ministero a carico del G. a seguito della denuncia della D.” posti a fondamento dell’affermazione di una perfetta coincidenza dei fatti, oggetto del procedimento penale e del procedimento disciplinare, oggetto del presente giudizio, tuttavia, emerge con chiarezza dalla sentenza impugnata la non coincidenza tra i fatti oggetto del procedimento penale e quelli posti a fondamento del procedimento disciplinare. Come ha affermato la Corte distrettuale (pag. 3 della sent.) “I fatti di cui al menzionato procedimento penale non sono oggetto del procedimento disciplinare che riguarda altri e diversi fatti conclusosi con la Delib. n. 21 del 2013 impugnata avanti al Tribunale civile di Bologna e oggetto del presente gravame. Di ciò vi è esplicita conferma nella Delib. n. 21 del 2013, nella quale, a pag. 10, si legge che della vicenda relativa alla D. (denuncia violenza sessuale) in questo procedimento non si terrà alcun conto perchè ancora in fase di accertamento giudiziale (…”.). E, comunque appare, abbastanza, chiaro che oggetto del presente procedimento disciplinare sono le cc.dd. “commistioni” tra la vita professionale e la vita privata del G. ovvero l’aver instaurato “(….) relazioni significative di natura personale, in particolare, di natura affettivo sentimentale e/o sessuale (…)” con propri clienti e “(…) nel corso del rapporto professionale (…)” o aver svolto attività che, in ragione del rapporto professionale, abbiano fatto conseguire al dott. G. “(…) indebiti vantaggi, diretti o indiretti, di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito”. Come ha avuto cura di evidenziare, la Corte distrettuale “(….) Serra e Fanti hanno indicato l’imposizione da parte del dott. G. delle persone da frequentare e inviti più o meno espliciti ad abbandonare le amicizie precedenti, l’indicazione sui luoghi di vacanza, la creazione di gruppi di controllo sui pazienti. E’ indicato anche che il dott. G. era solito svolgere il ruolo di testimone di nozze dei suoi pazienti e di padrino di loro figli (…)”. Ora, queste condotte, come è evidente, sono assolutamente diverse dai fatti esposti dalla D. nella querela-denuncia e oggetto del procedimento penale, relativo ad una presunta violenza sessuale consumata dal G. a danno della D..

1.2.= Va, altresì, osservato che i fatti oggetto del presente procedimento disciplinare non possono neppure essere ricondotti nell’alveo, entro il quale andrebbero ricondotti i fatti del procedimento penale, perchè si tratta di comportamenti diversi e diversificati, anche, se commessi nell’ambito dell’esercizio dell’attività professionale, così come diversi sono i fatti che possono dar vita ad un procedimento disciplinare, indicati dall’art. 28 del codice deontologico dell’Emilia-Romagna che non necessariamente integrano gli estremi di un reato “(…) Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione. Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale (…)”.

1.3. = A parte queste considerazioni, va, comunque, osservato che l’art. 9 del Regolamento disciplinare del Consiglio dell’Ordine della Regione Emilia Romagna, richiamato dal ricorrente, e secondo il quale “(…) il Consiglio dell’Ordine, una volta aperto il procedimento disciplinare, in qualsiasi momento, può disporne la sospensione, in caso di pendenza di procedimento penale a carico del medesimo soggetto per gli stessi fatti, in attesa dell’esito di tale giudizio (….)”) prevede non un obbligo di sospensione, ma, una possibilità del Consiglio dell’Ordine di valutare l’opportunità di sospendere il procedimento disciplinare in caso di pendenza di un procedimento penale sugli stessi fatti, nella piena consapevolezza che tra i due procedimenti (penale e disciplinare) non sussiste una necessaria pregiudizialità. Il procedimento disciplinare, pertanto, non necessariamente andava sospeso in pendenza del giudizio penale, anche quando fosse stato accertato che i fatti dell’uno e dell’altro giudizio fossero uguali.

2.= Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in particolare dell’art. 2 del regolamento Disciplinare adottato dall’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna e principi generali (analogia iuris con gli altri ambiti professionali), in tema di prescrizione dell’azione disciplinare. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe errato nel ritenere che l’illecito disciplinare non si fosse prescritto non avendo considerato che il procedimento disciplinare si era aperto il 30 giugno 2011 e, stando alle deposizioni testimoniali, tutti i fatti contestati sarebbero risalenti a prima dell’anno 2006. Dagli esposti, sempre secondo il ricorrente, si evincerebbe che se si eliminano i riferimenti all’asserita relazione tra la D. ed il dott. G. tutto il resto sarebbe da ricondurre alle sole dichiarazioni dell’esponente F.S., dichiarazioni che tuttavia riguardano fatti che sono in ogni caso ampiamente prescritti. Piuttosto, la Corte distrettuale, sempre secondo il ricorrente, non distinguerebbe i periodi di terapia dei pazienti e i fatti/comportamenti, oggetto di contestazione disciplinare in rapporto all’esaurita violazione dell’art. 28 Codice deontologico e non considerando che avrebbe dovuto riferirsi solo a queste ultime date.

2.1.= Il motivo è infondato, perchè si risolve nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali, non proponibile nel giudizio di cassazione e soprattutto se, come nel caso in esame, la valutazione effettuata dalla Corte distrettuale sia puntuale chiara e priva di vizi logici e/o giuridici. Come ha avuto modo di chiarire la Corte distrettuale “(…) risulta che le condotte contestate sono state poste in essere fino all’anno 2008.

E di più, la Corte specifica “(….) il ricorrente ed appellante sostiene infondatamente che tutti i fatti contestati sarebbero anteriori al 2005 e, quindi, prescritti. Come si è detto gli esposti sono stati presentati nell’anno 2009 e fanno riferimento a fatti avvenuti fino al 2008 (….)”. Come è evidente la Corte distrettuale ha esaminato la stessa eccezione oggi formulata con il motivo in esame e valutata l’interezza delle risultanze processuali ha escluso consapevolmente e dopo aver verificato le date in cui sarebbero stati commessi i comportamenti vietati, che fosse decorso il tempo di prescrizione dei cinque anni, così come prescritto dall’art. 2 e 5 del Regolamento Disciplinare del Consiglio dell’ordine degli psicologi dell’Emilia-Romagna.

A ben vedere, il ricorrente non offre valide ragioni per disattendere quanto accerto dalla Corte distrettuale, anzi, inammissibilmente, parcellizza le risultanze processuali considerato che si limita ad evidenziare soli alcuni dati e solo alcuni elementi di una prova testimoniale che, a suo giudizio, dimostrerebbero che i fatti contestati sarebbe stati posti in esser in un tempo anteriore al 2005, non tenendo conto che la Corte distrettuale riferisce di esposti al plurale presentati nel 2009, che “(….) fanno riferimento a fatti avvenuti fino al 2008 (…)”.

3.= Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio resi oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale non solo non avrebbe, correttamente, valutato le dichiarazioni dei testimoni, ma, soprattutto, avrebbe fondato la propria decisione su fatti privi di specificità e precisione, tanto è vero che il Tribunale di Bologna in sede penale ha ritenuto provati i rapporti sessuali tra il dott. G. e D.L., ma, ha escluso che quest’ultima versasse in uno stato di inferiorità psichica e che vi sia stata violenza o abuso di autorità.

3.1. = Il motivo è infondato. E’ sufficiente osservare che compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza – nonchè di individuare le fonti del proprio convincimento scegliendo tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti – spetta in via esclusiva al giudice del merito; di conseguenza la deduzione con il ricorso per Cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, restando escluso che le censure concernenti il difetto di motivazione possano risolversi nella richiesta alla Corte di legittimità di una interpretazione delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito.

E, nel caso in esame, la Corte distrettuale facendo proprio il contenuto della Delib. Consiglio dell’ordine n. 21 del 2013 ha chiarito che “(….) da tutte le citate diposizioni testimoniali risulta, comunque, un’inaccettabile intreccio relazionale tra tutti i pazienti del G. e che trova nello stesso G. il punto comune di contatto e di convergenza di relazione stessa cosicchè gli stessi diventano amici tra loro, talvolta si sposano, diventano amici dell’iscritto sono affittuari delle case di proprietà dei suoi familiari e li finiscono a convivere (…)”.

4.= Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), in particolare, della L. n. 56 del 1989, art. 26, comma 1, Ordinamento della professione di Psicologo e dell’art. 13 del Regolamento Disciplinare adottato Dall’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, eccesiva entità della sanzione inflitta. Secondo il ricorrente, la sanzione (inibizione sia pure temporanea della professione) inflitta nella misura massima prevista dalla norma apparirebbe del tutto eccesiva in rapporto sia all’oggettività dei fatti attribuiti al dott. G. che alla condizione soggettiva di quest’ultimo il quale non sarebbe stato mai prima d’ora raggiunto da un pur minimo rilievo di natura disciplinare.

4.1. = Il motivo è inammissibile, perchè il ricorrente non censura l’effettiva ratio decidendi, dovendo considerare che la Corte distrettuale ha ritenuto la sanzione inflitta adeguata alla gravità dei fatti commessi in considerazione del numero dei pazienti, della reiterazione delle condotte e della prolungata durata nel tempo delle stesse, accertamenti, questi, che non sembrano siano stati correttamente censurati. A ben vedere, il ricorrente si limita ad evidenziare che dalla “(…) sentenza non si capisce quali e quanti siano i fatti commessi chi e quanti siano i pazienti coinvolti cosa si intenda per reiterazione delle condotte (…)” non tenendo conto che la Corte distrettuale ha evidenziato: a) che trattavasi di più pazienti (sent. pag. 5) “(…) intrattenendo significative relazioni personali con più pazienti (…)” e, comunque, dei soggetti che avevano presentato l’esposto: ( F., D., R., Z.); b) fatti e comportamenti prolungatesi fino al 2008 quasi ad indicare che il dott. G. avesse acquisito quel modus vivendi che comporta, comunque, una commistione tra la vita privata e la vita professionale, c) che per comune riconoscimento, una qualsiasi commistione tra ruolo professionale e vita privata, nell’attività dello psicologo, può comportare gravi rischi per la salute psichica del paziente oltre che prevedibili conflitti e distorsioni dell’immagine dello psicologo.

In definitiva il ricorso va rigettato e il ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c., condannato a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione. Il Collegio dà atto che, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente, a favore di parte controricorrente, al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 4.200 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% del compenso e accessori come per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 21 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 dicembre 2018

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