Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33537 del 27/12/2018

Cassazione civile sez. un., 27/12/2018, (ud. 06/11/2018, dep. 27/12/2018), n.33537

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCHIRO’ Stefano – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sez. –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15865-2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliatasi in ROMA, VIA MANLIO

TORQUATO 10, presso lo studio dell’avvocato MARIA SCOPELLITI,

rappresentata e difesa dall’avvocato DOMENICO CARUSO;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA

GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 52/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA

MAGISTRATURA, depositata il 9/04/2018.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/11/2018 dal Consigliere Dott. ANGELINA-MARIA PERRINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per l’accoglimento, p.q.r., del

ricorso;

udito l’Avvocato Domenico Caruso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

M.S., nella qualità di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani, è stata incolpata degli illeciti disciplinari previsti dal D.Lgs. 23 febbraio 2009, n. 106, art. 2, comma 1, lett. c) e d), per aver omesso di astenersi nel procedimento indicato in atti, concernente un grave disastro ferroviario, benchè fosse in rapporto confidenziale e di amicizia, reso pubblico sulla stampa, con l’avv. D.C.L., difensore di uno degli indagati in quel procedimento, per poi procedere ad astenersi soltanto il 6 agosto 2016, a seguito delle proteste sollevate dai parenti delle vittime del disastro ferroviario oggetto del procedimento e al colloquio col Procuratore della Repubblica; per avere, in relazione al medesimo procedimento, rilasciato dichiarazioni a un giornalista del (OMISSIS) gravemente scorrette nei confronti delle parti offese, qualificando come “pettegolezzi e chiacchiericcio da mercato” le riserve espresse dai parenti delle vittime nei suoi confronti dopo la pubblicazione delle foto che la ritraevano in atteggiamento confidenziale col suddetto difensore; infine, per avere omesso di astenersi nei tre procedimenti penali indicati nel capo d’incolpazione, nei quali l’avvocato in questione compariva rispettivamente come difensore di fiducia o comunque estensore di una memoria difensiva.

La sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha ritenuto l’incolpata responsabile degli addebiti ascrittile e le ha inflitto la sanzione della censura.

Ha fatto leva in sentenza sugli inequivocabili atteggiamenti ritratti nelle foto acquisite agli atti: “ed infatti, oltre alla fotografia del bacio al piede, è stata oggetto di pubblicazione una immagine che, in una diversa occasione, riprende l’avvocato De Cesare nell’atto di prendere in braccio la dott.ssa M. cingendole la pancia con la mano. In una ulteriore foto, scattata in un contesto ancora diverso, il professionista abbraccia la PM ponendosi alle sue spalle e poggiandole sopra il proprio viso”.

Ha inoltre riferito il contenuto delle dichiarazioni del collega Ruggiero, dalle quali era emersa l’assiduità della frequentazione della dr. M. con l’avvocato in questione negli anni immediatamente precedenti, che si era andata diradando, ma che persisteva all’epoca dell’assegnazione dei procedimenti, sia pure con carattere di occasionalità, in base a quanto riferito dalla stessa incolpata. Sicchè si è ritenuto provato “un rapporto di grande confidenza e complicità tra il PM e l’avvocato”, reso pubblico sulla stampa, al cospetto del quale l’incolpata, in luogo di astenersi, come richiestole dal capo dell’Ufficio, si è rifiutata di rimettere la delega, sino a quando non sono sopraggiunte le proteste dei parenti delle vittime, seguite alla pubblicazione delle foto e le insistenze del Procuratore della Repubblica.

Il giudice disciplinare ha sottolineato altresì la grave scorrettezza dell’incolpata nei confronti dei parenti delle vittime, insita nelle dichiarazioni da lei rese alla stampa, concernenti il riferimento ai “pettegolezzi e al chiacchiericcio da mercato”, sebbene il capo dell’Ufficio, nel rendere pubblica l’astensione dell’incolpata nel frattempo intervenuta, le avesse raccomandato di tenere un atteggiamento riservato, evitando appunto ogni contatto con la stampa.

In sentenza si sono anche rimarcate le particolarità del contesto ambientale, in cui opera un Ufficio di Procura composto all’epoca di soli dodici magistrati, e il clamore sorto intorno al procedimento e alle foto di cui si è riferito.

Contro questa sentenza propone ricorso M.S. per ottenerne la cassazione, che affida a quattro motivi, cui non v’è replica.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Il primo motivo di ricorso, col quale si denuncia, in relazione al primo degli addebiti disciplinari, ossia a quello concernente l’omessa astensione, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c), è infondato.

La censura si articola in due profili:

il primo, secondo il quale l’obbligo di astensione del pubblico ministero va circoscritto alle ipotesi di sussistenza del conflitto d’interessi, giacchè l’art. 52 c.p.p. va interpretato alla luce dell’art. 323 c.p.; e, nel caso in esame, nessun conflitto d’interessi sussisterebbe;

il secondo, in base al quale, di là da queste ipotesi, la facoltà di astensione prevista dall’art. 52 c.p.p. si traduce nell’obbligo di valutazione delle gravi ragioni di convenienza idonee a suggerire l’astensione; e, nel caso in esame, l’incolpata avrebbe osservato l’obbligo, valutando le gravi ragioni di convenienza.

1.1.- Queste sezioni unite hanno già avuto occasione di osservare (Cass., sez. un., 5 dicembre 2012, n. 21853; 11 marzo 2013, n. 5942) che il magistrato del pubblico ministero ha l’obbligo, disciplinarmente rilevante, di astenersi ogni qual volta la propria attività possa risultare infirmata da un interesse personale o familiare. L’art. 52 c.p.p., che ne prevede la facoltà di astensione per gravi ragioni di convenienza, va difatti interpretato alla luce dell’art. 323 c.p. (il quale prevede e punisce il delitto di abuso d’ufficio), in seno al quale il riferimento all'”interesse proprio o di un prossimo congiunto” è posto a base del dovere generale di astensione; e ciò in coerenza col principio d’imparzialità dei pubblici ufficiali ex art. 97 Cost. e con la necessità di equiparare il trattamento del magistrato del P.M. -il cui statuto costituzionale partecipa dell’indipendenza del giudice- al trattamento del giudice penale, obbligato ad astenersi per gravi ragioni di convenienza ai sensi dell’art. 36 c.p.p..

L’art. 323 c.p., nel contemplare l’obbligo di astensione, ha dettato una norma di carattere generale, che ha coordinato con quelle speciali che prevedono casi diversi; sicchè il richiamo -esteso, secondo lo schema della norma penale in bianco, anche alle norme speciali di futura emanazione- delinea un sistema in cui l’ipotesi di carattere generale e quelle particolari risultano armonizzate grazie a un effetto parzialmente abrogante che esclude ogni possibile contrasto.

Il risultato, per quanto riguarda l’art. 52 c.p.p., consiste nell’abrogazione della facoltà, sostituita dall’obbligo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto, che rientra con ogni evidenza nelle gravi ragioni di convenienza.

1.2.- Il pubblico ministero ha senz’altro veste e ruolo di parte, ma di parte pubblica, tenuta, proprio perchè tale, ad agire esclusivamente in funzione del perseguimento dei fini istituzionali assegnati dall’ordinamento.

E’ per conseguenza da escludere che il magistrato incaricato di svolgere le funzioni di pubblico ministero possa ispirare la propria condotta a fini diversi da quelli istituzionali propri dell’ufficio di appartenenza e perseguire, o anche soltanto dare l’impressione di voler perseguire, obiettivi e scopi personali, ingenerando così una situazione tale da indurre a sospetti di compiacenza nei confronti di taluna delle altre parti, private, del procedimento o di uno dei difensori di esse.

Il magistrato che svolge le funzioni di pubblico ministero nel processo penale ha quindi il dovere di essere, e di far tutto il necessario per apparire, imparziale; e tale dovere si sostanzia nell’obbligo di comportarsi in modo da rendere indubitabile che l’azione da lui svolta non sia influenzata da interessi personali e che, quindi, non si prospetti un conflitto d’interessi.

2.- Il conflitto può essere configurabile allorchè, per un verso, l’interesse, anche solo potenziale, abbia carattere di attualità e di oggettiva, concreta rilevabilità, non sia cioè puramente congetturale o remoto (Cass., sez. un., n. 21853/12, cit.); per altro verso, occorre che l’interesse personale sia tale, da ingenerare nella pubblica opinione sospetti, pur se infondati, di mancanza di serenità d’animo e di compiacenza nei confronti di taluno dei soggetti interessati al procedimento del quale il magistrato è istituzionalmente chiamato ad occuparsi (Cass., sez. un., 26 febbraio 1999, n. 106).

2.1.- La valutazione relativa rientra nell’apprezzamento del giudice di merito.

E, nel caso in esame, si riscontra nella sentenza impugnata l’accertamento della sussistenza di tale conflitto, che non è stato adeguatamente aggredito col motivo di ricorso in esame.

Va anzitutto rilevato che il motivo è intitolato a violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c).

A ogni modo, anche le considerazioni svolte in relazione alle circostanze di fatto si rivelano inconferenti: pur dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dovuta alla L. 20 febbraio 2006, n. 46, al giudice di legittimata e inibita la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, poichè gli è estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass., sez. un., 18 aprile 2018, n. 9557; sez. un., 2 novembre 2018, n. 28056).

2.2.- Nel caso in esame, difatti, la sezione disciplinare ha dato conto, in maniera non illogica, dell’oggettiva, concreta rilevabilità di “un rapporto di grande confidenza e complicità tra il PM e l’avvocato”, emergente, oltre che dalle foto delle quali si è riferito in narrativa, altresì “dalle notizie apprese dalla collega dr.ssa C.S. la quale, avendo visionato la pagina Facebook della dr.ssa M., aveva constatato che vi erano numerose foto espressive di un rapporto altamente confidenziale della stessa con l’avvocato D.C.”, nonchè dell’attualità del rapporto, “evidenziata dalla stessa incolpata”, sia pure in termini di occasionalità.

Quanto poi all’elemento soggettivo, il giudice disciplinare ha non contraddittoriamente motivato la pronuncia resa, ponendo in risalto che l’incolpata ha ignorato reiterate e argomentate segnalazioni del capo dell’Ufficio (si legge sul punto in sentenza che “l’incolpata, nonostante fosse stato reso pubblico il rapporto con l’avvocato, aveva continuato a sminuire le eclatanti criticità che avrebbero imposto la sua astensione rifiutandosi di rimettere la delega come le era stato richiesto dal Capo dell’Ufficio”).

2.3.- Adeguatamente e non illogicamente sviluppata è per conseguenza la valutazione concernente l’insorgenza, nel caso in esame, di condizioni idonee a ingenerare il sospetto di una volontà, foriera di un pregiudizio per l’Ordine giudiziario di connotare personalisticamente il ruolo dell’accusa; sospetto, tanto più grave in quanto correlato a vicenda processuale di notorietà nazionale, con riferimento alla quale le rimostranze delle persone offese avevano trovato vasta risonanza negli organi di informazione (per analoghe considerazioni, vedi Cass., sez. un., n. 106/99, cit.).

Il motivo va quindi respinto.

3.- Infondato è altresì il secondo motivo di ricorso, col quale la ricorrente si duole, in relazione al secondo addebito disciplinare, ossia quello riguardante il contenuto delle dichiarazioni rese alla stampa dopo l’astensione, della violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. d), e dell’omesso esame di fatti decisivi.

La ricorrente sostiene che la frase da lei pronunciata nel corso dell’intervista, con riguardo ai “pettegolezzi e al chiacchiericcio di mercato”, non si riferisse ai parenti delle vittime, bensì alla situazione determinatasi a seguito del clamore scaturente dalla pubblicazione delle foto.

3.1.- Questa ricostruzione ancora propone una diversa lettura del contenuto delle dichiarazioni da lei rese, che si giustappone, ma che non scalfisce la valutazione contenuta in sentenza, in cui si legge: “che tale apprezzamento fosse rivolto anche ai familiari delle vittime del disastro emerge dall’intero contesto dell’articolo -in cui è posta in rilievo proprio l’indignazione dei familiari delle 23 vittime del disastro per quanto emerso dalle fotografie che palesavano un rapporto di grande confidenza e complicità tra il PM e l’avvocato-nonchè dalle ulteriori dichiarazioni rese dalla dr.ssa M. e riportate nello stesso articolo di stampa “spero che almeno i familiari delle vittime siano contenti hanno chiesto che facessi un passo indietro ed io l’ho fatto””.

3.2.- Condotta, questa, giudicata, con valutazione congruamente espressa, di sicura gravità, in considerazione dell’invito rivolto all’incolpata dal capo dell’Ufficio di evitare qualsivoglia contatto con la stampa.

Anche questo motivo va per conseguenza respinto.

4.- Fondato è, invece, il terzo motivo, col quale si propongono le medesime censure di violazione di legge e di omesso esame di fatti decisivi con riguardo al terzo addebito disciplinare, ossia a quello relativo all’omessa astensione dell’incolpata in tre ulteriori procedimenti, poichè effettivamente manca ogni valutazione dei fatti addotti dall’incolpata, cioè della circostanza che in relazione a uno dei tre procedimenti non vi fosse traccia della nomina dell’avv. D.C., che riguardo a un altro dei procedimenti l’avvocato in questione non figurasse come difensore, ma si fosse limitato a depositare, unitamente al difensore costituito, una memoria in favore degli indagati e che, quanto al terzo, la nomina quale difensore fosse stata depositata dall’avv. D.C. dopo la proposizione da parte dell’incolpata della relativa richiesta di archiviazione, ossia in una fase in cui la dr. M. non poteva venire a conoscenza della nomina.

4.1.- Sul punto la sentenza si risolve nell’affermazione che “l’esistenza di un rapporto di assidua frequentazione…avrebbe, a questo punto, dovuto indurre l’incolpata ad astenersi dal trattare i procedimenti elencati al capo C) dell’incolpazione…”.

5.- Occorre quindi che la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura riesamini quest’addebito.

Ne deriva l’accoglimento del terzo motivo, che comporta l’assorbimento dell’ultimo, che concerne l’applicabilità del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3-bis, demandato alla valutazione del giudice disciplinare, all’esame del quale va rimesso il giudizio, previa cassazione, in relazione al profilo accolto, della sentenza impugnata.

5.1.- Nulla per le spese, in mancanza di attività difensiva.

P.Q.M.

rigetta il primo e il secondo motivo di ricorso, accoglie il terzo, assorbito il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione al profilo accolto e rinvia alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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