Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3346 del 19/02/2016


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 3346 Anno 2016
Presidente: CURZIO PIETRO
Relatore: MAROTTA CATERINA

ORDINANZA
sul ricorso 23732-2013 proposto da:
BARBATO ESTERINO (BRBSRN14H25E054N) elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA PIETRO CAVALLINI 12, presso lo studio
dell’avvocato GIOVANNI PAOLOZZI, che lo rappresenta e difende
giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA
SOCIALE (80078750587), in persona del legale rappresentante pro
tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE

l3ECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE
DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati
CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MAURO
RICCI giusta procura in calce al controricorso;

Data pubblicazione: 19/02/2016

- controricorrente –

avverso la sentenza n. 4697/2012 della CORTE D’APPELLO di
NAPOLI del 9/7/2012, depositata il 18/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
13/01/2016 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;

che si riporta agli scritti e chiede il rinvio alla P.U.;
udito per il controricorrente l’Avvocato EMANUELA CAPANNOLO
che si riporta agli scritti.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO
1 – La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 cod. proc.
civ., a seguito di relazione a norma dell’art. 380-bis cod. proc. civ., che ha
concluso per il rigetto del ricorso, condivisa dal Collegio.
2 – La Corte di appello, giudice del lavoro di Roma, decidendo
sull’appello proposto dall’I.N.P.S., riformava la decisione del Tribunale
della stessa sede che aveva accolto la domanda di Esterino Barbato
diretta ad ottenere il ripristino della pensione di invalidità civile per i
ciechi che era stata sospesa per il superamento dei limiti di reddito e
rigettava la domanda proposta in primo grado. Riteneva la Corte
capitolina (richiamando la pronuncia di questa Corte a sez. n.
3814/2005) che la L. n. 638 del 1983, art. 8, comma 1 bis, non potesse
essere applicata anche al caso di specie e che la stessa, lungi dall’essere
espressione di un generale principio di irrilevanza del reddito nel regime
della pensione di invalidità civile, avrebbe una giustificazione solo se
intesa a conseguire l’integrazione al minimo della pensione, atteso che
solo al di sotto della misura minima si determinerebbe, con l’elusione
dei precetti costituzionali, la violazione di diritti inviolabili.

Ric. 2013 n. 23732 sez. ML – ud. 13-01-2016
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udito l’Avvocato GIOVANNI PAOLOZZI difensore del ricorrente

Per la cassazione di tale sentenza Esterino Barbato propone ricorso
affidato a due motivi.
L’I.N.P.S. resiste con controricorso.
3 – Non sono state depositate memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ..
4 – Con i motivi il ricorrente denuncia: “Omesso esame circa un

parti” nonché: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 68 della L. n.
153 del 1969, degli artt. 6 e 8 del D.L. n. 463 del 1983, convertito nella
L. n. 638 del 1983, dell’art. 12 delle preleggi”. Sostiene che la Corte
territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che la domanda proposta dal
Barbato fosse riferita ad una richiesta di “integrazione al minimo da
corrispondere ai portatori di handicap” omettendo così ogni esame circa
la sussistenza o meno del diritto al ripristino della pensione per cieco
civile assoluto, dapprima riconosciuta ed erogata e, successivamente
sospesa in forza del superamento dei limiti di reddito. In ogni caso
assume che la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare la ratio
del quadro normativo richiamato che sarebbe da rinvenirsi dell’intento
di favorire l’inserimento, o il reinserimento del pensionato cieco nel
mondo del lavoro, evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un connesso reddito – segua la mancata percezione della pensione,
ovvero la perdita di essa. Richiama la pronuncia di questa Corte a
Sezioni unite n. 3814/2005 secondo la quale il riacquisto della capacità
di guadagno non potrebbe mai incidere sul diritto di percepire il
trattamento di pensione scaturente da quella particolare invalidità
derivante dalla cecità, in quanto siffatto trattamento spetta
indipendentemente dal reddito percepito dal pensionato, essendo tale
conclusione ispirata al principio dell’affidamento che il cieco ripone
nell’ammontare del beneficio previdenziale che ha indotto il legislatore a
prevedere, in favore dei ciechi, una deroga al generale divieto di
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fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le

cumulare la pensione di invalidità civile con il reddito. Invoca, altresì, il
precedente di questa Corte n. 15646/2012 che ha affermato il seguente
principio di diritto: “La particolare disciplina prevista dalla L. 30 aprile
1969, n. 153, art. 68 – che, derogando alla generale normativa posta dal
R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10 (secondo cui la pensione di

non è più inferiore ai minimi di legge), persegue la finalità di favorire il
reinserimento sociale dell’invalido, non distogliendolo
dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa – va letta in
senso costituzionalmente orientato (artt. 2, 3, 4 e 38 Cost.), sicché la
stessa esclude che la pensione di invalidità già riconosciuta all’assicurato
in ragione della sua cecità possa essergli revocata qualora siano mutati i
suoi redditi per effetto del conseguimento di una nuova occupazione.
5 – E’ innanzitutto inammissibile il dedotto omesso esame circa un
fatto decisivo per il giudizio.
Si osserva, infatti, che la censura di omesso esame della domanda e
la pronuncia su domanda non proposta rientra nella nozione di “error in
procedendo” e quindi non può essere ricondotta ad un vizio ai sensi
dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. (ancorché nella nuova formulazione di
cui nuovo al D.L. n. 83 del 2012, convertito con modificazioni in L.
n. 134 del 2012). Peraltro, l’omesso esame di fatto decisivo previsto
dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., è costituito da quel difetto di attività
del giudice del merito che si verifica tutte le volte in cui egli abbia
trascurato, non la deduzione o l’argomentazione che la parte ritiene
rilevante per la sua tesi, ma una circostanza obiettiva acquisita alla causa
idonea di per sé, qualora fosse stata presa in considerazione, a condurre
con certezza ad una decisione diversa da quella adottata. Nel caso in
esame, quella asseritamente non presa in considerazione non è una

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invalidità è soppressa quando la capacità di guadagno del pensionato

circostanza obiettiva acquisita alla causa ma lo stesso oggetto della
domanda. Il che rende il motivo impropriamente formulato.
Si aggiunga, in ogni caso, che i richiami giurisprudenziali operati nella
decisione impugnata sono stati tali da far comunque comprendere alla
parte interessata che la domanda intesa al ripristino della prestazione già

presenza di un inesatto riferimento ad un preteso diritto all’integrazione
al minimo) non era meritevole di accoglimento. Prova ne è che la
medesima parte, con gli ulteriori rilievi, censura proprio la ricostruzione
in diritto operata dalla Corte territoriale assumendo che una corretta
disamina delle disposizioni prese in esame dal giudice di appello avrebbe
condotto ad un accoglimento della domanda.
6 – Tali rilievi sono tuttavia manifestamente infondati
conformemente alla decisione di questa Corte n. 24192/2013 che, in
consapevole dissenso con il precedente contrario costituito dalla citata
sentenza n. 15646/2012 (che fa riferimento alla prestazione assistenziale
di cui alla L. n. 66 del 1962, ma applica i principi relativi alla prestazione
previdenziale di cui alla L. n. 153 del 1969 ed al D.L. n. 463 del 1993,
art. 8, come si evince anche dal richiamo, contenuto nel principio di
diritto, all’assicurato” in luogo dell’assistito”), ha ritenuto che non sia
possibile estendere analogicamente al trattamento assistenziale previsto
dalla L. n. 66 del 1962 (e, dunque, tanto alla pensione per ciechi assoluti
quanto a quella per ciechi parziali), il beneficio riconosciuto a favore di
chi gode di trattamento previdenziale – si vedano anche nel medesimo
senso Cass. n. 8752/2014 e numerose altre successive tra cui le più
recenti Cass. 7289/2015; Cass. nn. 8436, 8437, 8438 del 2015, Cass. n.
8133/2015, Cass. n. 8066/2015, Cass. n. 19150/2015 -.
Come è noto, la pensione (non reversibile) per i ciechi (assoluti o
parziali) è stata istituita dalla L. 10 febbraio 1962, n. 66 “Nuove
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in godimento (pur in mancanza di un espresso richiamo alla stessa ed

disposizioni relative all’Opera nazionale per i ciechi civili”. L’art. 7 di tale
legge così prevede: “Ogni cittadino affetto da cecità congenita o
contratta in seguito a cause che non siano di guerra, infortunio sul
lavoro o in servizio, ha diritto, in considerazione delle specifiche
esigenze derivanti dalla minorazione, ad una pensione non reversibile

coloro che siano colpiti da cecità assoluta o abbiano un residuo visivo
non superiore ad un ventesimo in entrambi gli occhi con eventuale
correzione, hanno diritto alla corresponsione della pensione a decorrere
dal compimento del 18° anno di età”. La misura della prestazione è stata
modificata dalla L. 27 maggio 1970, n. 382, art. 1 (quest’ultima
regolamenta la materia ancora oggi). Essa è, dunque, concessa ai
maggiorenni ciechi assoluti ed ai soggetti di ogni età ciechi parziali che si
trovino in stato di bisogno economico. Tale stato di bisogno è stato
inizialmente indicato con riferimento alla non iscrizione nei ruoli per
l’imposta complementare sui redditi (L. n. 382 del 1970, art. 5) e, dopo
l’abrogazione di tale tipo di imposta, identificato nel possesso di redditi
assoggettabili ad IRPEF di un ammontare inferiore ad un certo limite (v.
D.L. n. 30 del 1974, art. 6, conv. in L. n. 114 del 1974 e D.L. n. 663 del
1979, art. 14 soties, conv. in L. 29 febbraio 1980, n. 33) – cfr. Cass. 5
agosto 2000, n. 10335; id. 21 giugno 1991, n. 6982; 12 aprile 1990, n.
3110; 22 novembre 2001, n. 14811). Il limite di reddito da tenere in
considerazione è, dunque, il medesimo stabilito per la pensione di
inabilità di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 12, essendo unica la disciplina
contenuta nel citato D.L. n. 663 del 1979, art. 14 septies (norma
modificata dal D.L. n. 76/2013 conv. in legge n. 99/2013 che, all’art. 10
comma 5 ha statuito: “All’articolo 14 soties del decreto-legge 30
dicembre 1979, n. 663, convertito, con modificazioni, dalla legge 29
febbraio 1980, n. 33, dopo il sesto comma, è inserito il seguente: “).

tempo concessa, era stata poi revocata, per superamento da parte del
beneficiario dei limiti reddituali.
Orbene, la prestazione di cui è richiesto il ripristino ha natura di
prestazione assistenziale di invalidità civile, sicuramente integrativa del
presunto mancato guadagno derivante dalla condizione di minorità
dovuta alla patologia. Secondo l’assunto del ricorrente la disposizione di
cui alla citata L. n. 66 del 1962, art. 8, sarebbe stata superata dalla
previsione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68, che stabilisce che
“le disposizioni di cui al R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2,
il quale, a sua volta, stabilisce che la pensione di invalidità è soppressa
quando la capacità di guadagno del pensionato cessi di essere inferiore a
determinati limiti, non si applicano nei confronti dei ciechi che
esercitano un’attività lavorativa. Le pensioni revocate ai sensi della
norma precitata sono ripristinate con decorrenza dalla data di entrata in
vigore della presente legge”.
La disposizione di cui alla L. 30 aprile 1969, n. 153, art. 68 (come,
del resto, quella di cui al R.D.L. 14 aprile 1939, n. 636, art. 10, comma 2)
è dettata per la pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. ed a carico
dell’assicurazione generale obbligatoria, presupponente un rapporto
contributivo (in particolare il R.D.L. n. 636 del 1939, art. 9, fa
riferimento alla pensione riconosciuta all’invalido a qualsiasi età quando
siano maturati determinati requisiti contributivi).

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Nello specifico, la pensione di invalidità civile per i ciechi, già a suo

La questione è se tali norme, non espressamente dettate per le
prestazioni assistenziali di invalidità civile, possano essere applicate
anche a queste ultime, costituendo un principio generale di irrilevanza
dei redditi per i ciechi che beneficiano di pensioni, o non si pongano
piuttosto come norme eccezionali.

nella sentenza n. 3814/2005 che questa Corte ha emanato a Sezioni
Unite. In realtà alla L. n. 153 del 1969, art. 68, ha fatto seguito il D.L. 12
settembre 1983, n. 463, art. 8, comma 1 bis, conv. in L. 12 novembre
1983, n. 638, secondo il quale “Resta ferma la disposizione di cui alla L.
30 aprile 1969, n. 153, art. 68, indipendentemente dal reddito percepito
dal pensionato”. Tale norma, dunque, stabilisce che il riacquisto della
capacità di guadagno nonché di un reddito da lavoro da parte del cieco
non comporta la perdita della pensione. Secondo una prima
interpretazione, fatta propria da Cass. 30 luglio 1999, n. 8310; id. 8
marzo 2001, n. 3359; 19 luglio 2002, n. 10609; 19 maggio 2003, n. 7833
e da ultimo in qualche modo ripresa dalla sopra citata Cass. 2012/15646,
la norma avrebbe sancito un principio generale di irrilevanza del reddito
del beneficiario anche ai fini del riconoscimento dei trattamenti di
assistenza in favore dei ciechi. Altro orientamento – Cass. 26 settembre
1988, n. 5252; id. 23 marzo 1998, n. 3027; Cass. Sez. Un. 24 febbraio
2005, n. 3814; Cass. 26 marzo 2009, n. 7308 oltre alla già citate Cass. n.
15646/2012 – sostiene, invece, la finalità limitata dell’art. 68, inteso
solamente a favorire il reinserimento del pensionato cieco nel mondo
del lavoro evitando che al reperimento di un’attività lavorativa e di un
connesso reddito consegna la perdita della pensione. Secondo l’assunto
del ricorrente, proprio la pronuncia delle SS.UU. di questa Corte
indurrebbe a considerare applicabile anche alle pensioni di cui alla L. 10

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Sostiene il ricorrente che tale applicabilità troverebbe fondamento

febbraio 1962, n. 66, art. 8, il principio della irrilevanza del reddito.
Invero, nella predetta decisione a Sezioni unite è stato precisato: “la
previsione, in favore dei ciechi, della conservazione del trattamento
pensionistico nonostante la carenza sopravvenuta di uno dei
presupposti, e in particolare del requisito reddituale, persegue la finalità

dall’apprendimento e dall’esercizio di un’attività lavorativa, senza che da
tale finalità possa desumersi, in contrasto con il dato letterale delle
richiamate disposizioni, l’espressione di un generale principio di
irrilevanza totale del requisito reddituale nel regime della pensione di
invalidità dei ciechi, con conseguente estensione a questi ultimi della
integrazione al minimo della pensione” – si veda anche Cass. n. 7308 del
26/03/2009 -. Va, peraltro, considerato che le pronunce da ultimo citate
sono state emanate in una materia diversa da quella per cui è causa e
cioè nella materia di integrazione al minimo dei trattamenti pensionistici
riservati ai minorati della vista. Questa Corte ha in tale sede ritenuto che
sia possibile la conservazione della pensione da parte di un soggetto
cieco anche dopo l’inizio di una attività lavorativa, con connessa
acquisizione di un reddito anche elevato, poiché tale trattamento
economico risponde alla specifica finalità di inserire i soggetti non
vedenti nelle attività produttive. Ha anche sottolineato che detto
principio si basa sul disposto di due norme definite “specialissime e di
stretta interpretazione”: il D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8,
comma 1 bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e la L. 30
aprile 1996, n. 1532, art. 68. Per effetto del combinato disposto delle
norme suddette, l’acquisizione da parte del cieco di una capacità
lavorativa e del reddito da essa derivante non comporta la perdita della
pensione, che, se revocata per questo solo motivo, deve essere

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di favorire il loro reinserimento sociale, non distogliendo l’invalido

ripristinata interamente. E questo perché la finalità specifica della
provvidenza economica è intesa a favorire il reinserimento del
pensionato cieco nel mondo del lavoro, evitando che al reperimento di
un’attività lavorativa (e del reddito connesso) consegua la perdita della
pensione. La deroga in favore dei ciechi al generale divieto di cumulare

la pensione di invalidità con reddito da lavoro si spiega, come è stato
precisato, anche con la necessità di tutelare “l’affidamento riposto dal
cittadino cieco nell’ammontare del beneficio previdenziale su cui egli ha
costruito il proprio tenore di vita e coltiva i propri progetti”. Tale
indirizzo, dunque, espresso con riferimento ad una prestazione
pensionistica conseguita nel regime dell’assicurazione obbligatoria
I.N.P.S. (l’integrazione al minimo è istituto proprio del regime generale
previdenziale), non è automaticamente estensibile, proprio in ragione
della affermata specialità del D.L. 12 settembre 1983, n. 4631, art. 8,
comma 1 bis (convertito in L. 12 novembre 1983, n. 638) e della L. 30
aprile 1996, art. 68, norme ritenute di “stretta interpretazione” e non è,
perciò, invocabile con riguardo alle pensioni per cecità civile di cui alla
ridetta L. 10 febbraio 1962, n. 66. Sebbene nella citata sentenza resa da
questa Corte a Sezioni unite si faccia riferimento alla pensione di
invalidità civile laddove invece la fattispecie esaminata concerneva una
pensione di invalidità erogata dall’I.N.P.S. prima dell’attribuzione allo
stesso delle competenze in materia di benefici assistenziali, e quindi una
pensione certamente disciplinata dalla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L.
n. 463 del 1983, art. 8, stante l’affermato carattere eccezionale delle
disposizioni di cui alla L. n. 153 del 1969, art. 68 e D.L. n. 463 del 1983,
art. 8, non è possibile estendere analogicamente al trattamento
assistenziale di cui alla L. n. 66 del 1962, il beneficio riconosciuto a
favore di chi gode di trattamento previdenziale. Del resto l’attribuita
rilevanza del reddito ai fini del riconoscimento della “integrazione al
Ric. 2013 n. 23732 sez. ML – ud. 13-01-2016
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i

minimo” e cioè di quella maggiorazione che non trova corrispondenza
nei contributi versati ma soccorre a garantire il minimo vitale (gravando
sul bilancio dello Stato) è significativa del fatto che il principio della
irrilevanza del reddito non potesse che essere stato riferito
(contrariamente alla tesi della parte privata) alla sola pensione maturata

di invalidità civile (assistenziale). Se, infatti, il reddito rileva quando lo
Stato partecipa al sostegno della previdenza (nei limiti di una
maggiorazione integrativa), a maggior ragione deve ritenersi tale
rilevanza quando è l’intero trattamento ad essere a carico dell’erario.
Da tanto consegue che per la prestazione oggetto di causa, per la
quale, si ribadisce, presupposto di legge imprescindibile è lo stato di
bisogno di cui ai sopra citati art. 7 della L. n. 66 del 1962 e art. 5 della L.
n. 382 del 1970, il requisito reddituale resta rilevante, considerato,
peraltro, che la pensione ai ciechi civili è dovuta, a differenza di quella di
invalidità civile ex lege n. 118 del 1971 e di quella di invalidità ex lege n.
222 del 1984, indipendentemente dalla incidenza dello stato di
minorazione sulla capacità di lavoro, spettando anche oltre il
raggiungimento dell’età pensionabile (v. Cass. 26 maggio 1999, n. 5138).
Si è, in sostanza, in presenza di differenti misure protettive
dell’invalidità in cui diverse sono le modalità di finanziamento delle
prestazioni: quelle previdenziali – che trovano fondamento nella
previsione di cui all’art. 38 Cost., comma 2 – sono alimentate dai
contributi gravanti sugli specifici soggetti obbligati ed i datori di lavoro;
quelle assistenziali – che fanno capo all’art. 38 Cost., comma 1 – sono
finanziate dallo Stato attraverso il ricorso alla fiscalità generale. Se pure è
vero che lo Stato partecipa anche al sostegno della previdenza qualora i
mezzi raccolti con i versamenti contributivi siano insufficienti (come nel
caso della integrazione al minimo), i due territori rimangono
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nel regime dell’assicurazione generale obbligatoria e non anche a quella

concettualmente e giuridicamente ben distinti e questo giustifica
trattamenti legislativi differenti in relazione ai quali va esclusa ogni
violazione del principio costituzionale di uguaglianza.
Né può ravvisarsi una violazione dell’art. 2 della Cost. considerato
che il legislatore ha previsto, in favore dei ciechi, specifiche prestazioni

accompagnamento per cecità assoluta di cui all’art. 1 della L. 28 marzo
1968, n. 406 e l’indennità speciale per ciechi parziali di cui all’art. 3 della
L. 21 novembre 1988, n. 508).
7 – Alla luce delle considerazioni che precedono va ribadito il
principio secondo cui la pensione non reversibile per i ciechi civili
(assoluti o parziali) di cui agli artt. 7 e 8 della L. 10 febbraio 1962, n. 66,
è erogata a condizione della permanenza in capo al beneficiario dello
stato di bisogno economico, trattandosi di prestazione assistenziale
rientrante nell’ambito di cui all’art. 38, primo comma, Cost., con
conseguente cessazione dell’erogazione al superamento del limite di
reddito previsto per la pensione di inabilità di cui all’art. 12 della L. 30
marzo 1971, n. 118 di conversione del D.L. del 30 gennaio 1971, n. 5,
dovendosi ritenere inapplicabili a detta prestazione sia l’art. 68 della L.
30 aprile 1969, n 153, dettato per la pensione di invalidità erogata
dall’I.N.P.S., sia l’art. 8, comma 1 bis, del D.L. 12 settembre 1983, n.
463, convertito con modificazioni in L. 11 novembre 1983, n. 638, che
consentono l’erogazione della pensione I.N.P.S. in favore dei ciechi che
abbiano recuperato la capacità lavorativa, trattandosi di norme di stretta
interpretazione, il cui fondamento si rinviene nella diversa disposizione
di cui all’art. 38, secondo comma, Cost., intese a favorire il
reinserimento del pensionato cieco nel mondo del lavoro senza che
subisca la perdita della pensione e, dunque, insuscettibili di applicazione
analogica; tale principio è da ritenersi, per i motivi sopra evidenziati, in
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che prescindono dalla condizione reddituale (così l’indennità di

linea (e non in contrasto) con quanto affermato da questa Corte nella
decisione n. 3814/2005 così da escludere la necessità di una devoluzione
della questione alle Sezioni unite.
8 – Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.
9 – La controvertibilità delle questioni trattate e l’esistenza di

precedenti difformi di questa stessa Corte di legittimità giustificano la
compensazione tra le parti delle spese processuali dell’intero processo.
10 – La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo
posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità
dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo
introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228. Invero,
in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della
sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore
contributo unificato costituisce un atto dovuto, poiché l’obbligo di tale
pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al
fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa
valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per
l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la
previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano
funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle,
pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n.
22035/2014).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto
della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del
ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

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Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2016

CANCELLERIA

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