Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33448 del 27/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 27/12/2018, (ud. 13/06/2018, dep. 27/12/2018), n.33448

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10577-2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CASTIGO SRL;

– intimato –

avverso la sentenza n. 108/2011 della COMM. TRIB. REG. di MILANO,

depositata il 17/06/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/06/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

Fatto

CONSIDERATO

che:

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 108/44/2011, depositata il 17.06.2011 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia. Ha rappresentato che il contenzioso traeva origine dall’avviso di accertamento n. (OMISSIS) relativo all’anno d’imposta 2005, con il quale all’esito di verifica e redazione di un processo verbale di constatazione, erano contestati alla Castigo s.r.l. maggiori ricavi, con conseguente accertamento di maggiore imposta ai fini IRES, pari ad Euro 41.735,00, maggiore imposta ai fini IRAP, pari ad Euro 6.179,00, maggiore imposta ai fini VA, pari ad Euro 19.934,00 oltre sanzioni, pari ad Euro 62.602,50.

Il contribuente, che contestava gli esiti dell’accertamento, aveva adito la Commissione Tributaria Provinciale di Varese, che con sentenza n. 87/12/2009 respingeva il ricorso. La contribuente ricorreva alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che con la pronuncia ora impugnata accoglieva l’appello, rideterminando, in diminuzione, gli esiti dell’accertamento.

L’Agenzia censura con due motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere violato le regole sulla distribuzione dell’onere della prova e per non aver tenuto conto delle regole che presidiano l’accertamento analitico-induttivo previsto dal D.P.R. citato, art. 39, comma 1, lett. d);

con il secondo per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver criticato le risultanze dell’accertamento eseguito dalla Amministrazione, per poi rideterminare il reddito con motivazione generica.

In conclusione ha chiesto la cassazione della sentenza.

Il contribuente non si è costituito.

Diritto

RITENUTO

che:

I motivi possono essere trattati unitariamente perchè entrambi tesi a censurare la decisione del giudice d’appello – per vizio di legge e vizio motivazionale -, che ha ritenuto inadeguati gli elementi assunti dalla Amministrazione a sostegno della rideterminazione dell’imponibile della società sottoposta a verifica, e ad un tempo ha rideterminato il reddito medesimo in maniera apodittica.

In particolare, per la parte riferibile al profilo demolitorio dell’accertamento, l’Ufficio lamenta sia il cattivo governo delle regole di distribuzione dell’onere della prova, sia la errata gestione delle regole dell’accertamento analitico-induttivo, imputando al giudice regionale una analisi parcellizzata dei dati raccolti e non, come dovuto, globale.

Nella sentenza il giudice regionale ha affermato che “…l’Ufficio ha utilizzato un metodo di ricarico forzatamente su di una catena di presunzioni e su semplificazioni che possono averne inficiato la validità complessiva. Ed i risultati a cui perviene dimostrano che, effettivamente, i ricarichi su cui si basa l’accertamento sono approssimativi ed attendibili solo molto parzialmente, come dimostrano le risultanze dei ricarichi del rum-bicchiere piccolo (411,45%), quelli del rum-bicchiere grande (407,83%) e della vodka (1.010,20%). Poichè i ricavi del bar, poi, pesano solo parzialmente ed in misura minoritaria sui ricavi totali dell’esercizio, risulta giustificato presupporre che l’accertamento, nel merito, pervenga a risultati improbabili. Anche la produttività per addetto concorre a far dubitare delle risultanze a cui perviene l’Ufficio. Altri elementi, quali la pretesa elevata giacenza di cassa a fine anno (Euro 8.749,23), l’assenza di prelievi da parte del titolare per finanziamento di spese personali, i finanziamenti infruttiferi dei soci ed i relativi decrementi a titolo di rimborso, elementi chiamati dall’Ufficio a sostegno dell’incongruità dei ricavi, non hanno alcuna attinenza con la tesi dell’Ufficio. Infine non può essere trascurato il fatto che l’anno 2005 era il primo esercizio dopo l’acquisto delle quote sociali da parte del nuovo socio, socio unico, imprenditore non del settore.”.

Questa motivazione è stata criticata dall’Ufficio perchè a suo dire non rispettosa dei principi che presidiano le regole dell’accertamento analitico induttivo.

Ebbene, la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata, con conseguente spostamento dell’onere della prova contraria, tesa a dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni, a carico del contribuente (Cass., Sez. 5, sent. n. 20060 del 2014; sent. 23550 del 2014; in materia di Iva, cfr. Sez. 6-5, ord. n. 26036 del 2015).

Quanto alle concrete modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, di cui con il ricorso se ne denuncia sostanzialmente un malgoverno anche in riferimento alla distribuzione dell’onere della prova, deve premettersi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).

Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.

La giurisprudenza di legittimità ha comunque tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria. Quanto alla ipotesi dell’unico indizio, anche di recente si è affermato che in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa (Sez. 5, ord. n. 30803 del 2017).

Perimetrata l’area delle regole di valutazione degli accertamenti analitico induttivi, occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti.

Il giudice regionale tributario ha motivato la decisione ritenendo che il metodo del ricarico sia stato forzato. A riscontro delle sue valutazioni ha portato alcuni esempi, come quelli dei bicchieri di liquore (rum, vodka), con percentuali di ricarico dal 400% al 1.000%. Ha peraltro evidenziato che i ricavi del bar avevano comunque una incidenza marginale sui ricavi totali dell’esercizio, con ciò non solo marginalizzando ulteriormente l’importanza di certe tipologie di beni da cui l’Ufficio ha pur tratto la determinazione dei ricarichi, ma facendo evidentemente mostra di essere ben consapevole che l’accertamento aveva trovato origine nella constatazione che la società aveva presentato erroneamente lo studio di settore “bar e caffè” anzicchè quello, corretto, di “ristorante, trattorie, pizzerie”. Nella motivazione sono presi in esame anche gli ulteriori elementi assunti dall’Ufficio per supportare l’accertamento (le eccessive giacenze di cassa di fine anno, l’assenza di prelievi da parte del titolare per sostenere le spese personali, i finanziamenti infruttiferi), desumendone tuttavia la scarsa attinenza con la tesi dell’Agenzia.

Il ragionamento della sentenza appare logico e privo di contraddizioni, espressione di un giudizio globale che tiene conto di tutti i riscontri addotti dalla Amministrazione, consapevole dell’esistenza dei dati raccolti in sede di accertamento, e tuttavia portato ad escludere che quegli elementi fossero sufficienti a supportare gli esiti dell’accertamento. In altre parole il giudice d’appello non disconosce la valenza di quei dati, tanto che poi procede ad una rideterminazione del reddito, ma nega a quegli indizi la capacità di dimostrare che la società abbia occultato ricavi nella misura pretesa dalla Amministrazione.

Sotto tale profilo la motivazione della sentenza è coerente con i principi della corretta valutazione della prova presuntiva. A fronte di ciò una diversa valutazione, più consona a quanto reclama la ricorrente, è inibita in questa sede perchè, rispettate le regole del buongoverno del materiale indiziario, la valutazione dei fatti spetta al giudice del merito e non a quello di legittimità.

Non può dirsi altrettanto invece per l’aspetto ricostruttivo. La sentenza, dopo aver argomentato criticamente sulla quantificazione operata dalla Agenzia, quando poi passa a rideterminare il reddito, si limita ad affermare che “per tali motivi, questo Collegio, in parziale accoglimento dell’appello della contribuente, determina il reddito di impresa in Euro 49.128,00 ai fini IRES, il valore della produzione in Euro 67.335,00 ai fini IRAP ed una imposta dovuta ai fini IVA di Euro 12.200,00. Sanzioni e interessi di conseguenza”.

La motivazione è palesemente incongrua, perchè non è comprensibile quale sia il collegamento logico e consequenziale tra le critiche antecedentemente mosse alla quantificazione del reddito da parte della Amministrazione e la rideterminazione con gli importi individuati dal giudice d’appello. Ne discende che la individuazione dei ricavi nella misura disposta in sentenza costituisce una affermazione apodittica e priva di argomentazioni. Sotto questo profilo i motivi del ricorso meritano l’accoglimento.

Considerato che:

la sentenza va cassata nei limiti di quanto chiarito e il giudizio va rinviato alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che in diversa composizione dovrà rideterminare il reddito della società contribuente e decidere anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte accoglie i motivi per quanto di ragione; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, in diversa composizione, che deciderà anche sulle spese.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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