Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33426 del 17/12/2019

Cassazione civile sez. II, 17/12/2019, (ud. 10/09/2019, dep. 17/12/2019), n.33426

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso (iscritto al N. R.G. 25901/16) proposto da:

B.M., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentato e difeso, in forza

di procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Alberto Sirani ed

elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. Andrea

Parlatore, in Roma, viale Mazzini, n. 13;

– ricorrente –

contro

COMMISSIONE NAZIONALE PER LE SOCIETA’ E LA BORSA – CONSOB (C.F.:

(OMISSIS)), in persona del Presidente e legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del

controricorso, dagli Avv.ti Salvatore Providenti, Paolo Palmisano e

Vampa Rocco ed elettivamente domiciliata presso il loro studio, in

Roma, alla v. G.B. Martini, n. 3;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Venezia n. 8/2016,

depositata in data 1 aprile 2016 (e non notificata);

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 10

settembre 2019 dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. PEPE Alessandro, che ha concluso per l’accoglimento

del secondo motivo di ricorso e per il rigetto del primo;

uditi l’Avv. Alberto Sirani per il ricorrente e l’Avv. Paolo

Palmisano per la Consob.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso depositato il 21 ottobre 2015 il Dott. B.M. proponeva opposizione – dinanzi alla Corte di appello di Venezia – avverso la Delib. 26 agosto 2015, n. 19336 (notificatagli il 5 settembre 2015), con la quale, all’esito del procedimento previsto dal D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 187-septies (d’ora in poi, in sintesi, T.U.F.), la Consob gli aveva irrogato:

– la sanzione pecuniaria di Euro 100.000,00 in ordine alla violazione prevista dall’art. 187-bis, comma 1, lett. a) del T.U.F., realizzata mediante acquisti di 106.200 azioni Apulia Prontoprestito s.p.a. (di seguito “APP”) effettuati, in concorso con altra persona, nel periodo compreso tra il 5 ottobre e il 10 novembre 2011, utilizzando l’informazione privilegiata concernente il progetto di “valutazione dei possibili indirizzi strategici per APP”, sul presupposto che egli sapeva essersi tradotto nel progetto di promozione di un’OPA da parte di Banca Apulia sulle azioni APP dal 25 ottobre 2011;

– la sanzione pecuniaria per altri Euro 100.000,00 in relazione alla violazione contemplata dall’art. 187-bis, comma 1, lett. b), del T.U.F., per aver comunicato informazioni privilegiate a tre persone, al di fuori dell’ordinario esercizio del lavoro espletato;

– la sanzione accessoria di cui all’art. 187-quater, comma 1, del T.U.F. con la conseguente “perdita dei requisiti di onorabilità degli esponenti aziendali e di partecipanti al capitale dei soggetti abilitati, delle società di gestione del mercato (…) e per gli esponenti di società quotate, l’incapacità ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate”, per un periodo di due mesi;

– la confisca, ai sensi dell’art. 187-sexies del T.U.F. dei beni già oggetto di sequestro in virtù dell’art. 187-octies, comma 3, lett. d), dello stesso T.U.F., corrispondenti a varie somme rinvenute su due conti correnti e su un conto deposito titoli a lui intestato.

Nella costituzione della resistente CONSOB, l’adita Corte di appello veneta, con sentenza n. 8/2016, depositata il 1 aprile 2016, respingeva integralmente l’opposizione proposta dal suddetto ricorrente, che condannava anche alla rifusione delle spese processuali.

A fondamento dell’adottata decisione, la Corte lagunare, dopo aver rievocato tutte le risultanze degli accertamenti eseguiti nei confronti del B. e le cadenze del procedimento sanzionatorio attuato nei riguardi dello stesso, sulla premessa che nel caso di specie non avrebbe potuto trovare applicazione il termine generale stabilito dalla L. n. 241 del 1990, art. 2, ravvisava, in primo luogo, l’infondatezza della doglianza relativa alla dedotta illegittimità dell’impugnato provvedimento sul presupposto dell’asserita violazione del termine di 180 giorni per la contestazione degli addebiti (previsto dall’art. 187-septies del T.U.F.) nonchè del termine per la conclusione del suddetto procedimento ai sensi del regolamento n. 18750/2013, evidenziando che lo stesso era stato rispettato con riferimento all’accertata data di notificazione (7 aprile 2014) dell’atto di contestazione dell’illecito (elevato il 27 marzo 2014) in rapporto alla pregressa data del 18 febbraio 2014, in cui era stata ultimata la complessiva attività di valutazione delle risultanze acquisite e di constatazione degli illeciti oggetto di indagine.

La Corte di appello di Venezia riteneva, poi, destituita di fondamento anche la censura attinente al merito delle violazioni ascritte dal B., rilevando che egli – sul presupposto della qualificazione come “informazioni privilegiate” (ai sensi dell’art. 181 del T.U.F.) delle notizie (come precedentemente richiamate) di cui era in possesso in ragione dell’esercizio della sua attività lavorativa alle dipendenze di Veneto Banca e per la funzione dallo stesso rivestita all’interno del ristretto gruppo di lavoro al quale partecipava – aveva profittato personalmente della conoscenza di esse (dotate di un sufficiente grado di precisione). In particolare, era emerso che egli le aveva comunicate anche ad altre tre persone (a lui legate da rapporti parentali o amicali), ponendo in essere una strategia di insider trading, caratterizzata da una condotta indirizzata all’immediata locupletazione per effetto della vendita dei titoli il cui valore era aumentato dopo la pubblicazione delle news. Pertanto, alla stregua dei rapporti intercorrenti tra l’opponente e gli altri soggetti (anch’essi sanzionati) a cui favore erano state diffuse le notizie di mercato che sarebbero dovute rimanere riservate e dell’accertata natura inusitata delle operazioni realizzate in difetto di qualsivoglia giustificazione minimamente verosimile, le contestate operazioni avrebbero dovuto qualificarsi come abusive siccome poste in essere dal B. al fine di sfruttare la superiorità informativa dal medesimo acquisita – per effetto del suo ruolo – indebitamente trasmessa anche a terzi.

Infine, la Corte veneta respingeva anche l’ultimo motivo di opposizione del B. riguardante la richiesta di riduzione delle sanzioni irrogate ritenendo che erano state applicate in misura congrua, risultando, peraltro, corrispondenti al minimo edittale previsto dalla legge applicabile al momento della commissione degli illeciti.

2. Avverso la suddetta sentenza ha formulato tempestivo ricorso per cassazione il B., articolandolo in due complessi motivi.

Si è costituita nella presente fase l’intimata CONSOB, resistendo con controricorso (con il quale ha insistito per il rigetto di tutte le censure prospettate con il ricorso principale), corredato da memoria difensiva depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

3. All’udienza del 20 febbraio 2018 la trattazione del ricorso fu rinviata a nuovo ruolo e rifissato per l’udienza del 16 aprile 2019. Anche in quest’ultima udienza il ricorso venne differito a nuovo ruolo al fine di attendere la pronuncia della Corte costituzionale sulla questione di legittimità costituzionale sollevata con ordinanza n. 3831/2018 relativa all’art. 187 sexies TUF, in ordine agli artt. 3,42 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, quest’ultimo con riferimento all’art. 1 del Protocollo addizionale alla CEDU, nonchè agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 17 e 49 CDFUE “nella parte in cui esso assoggetta a confisca per equivalente non soltanto il profitto dell’illecito ma anche i mezzi impiegati per commetterlo, ossia l’intero prodotto dell’illecito”.

All’esito della pubblicazione dell’intervenuta sentenza n. 112 del 2019 della Corte costituzionale, il ricorso è stato rifissato per l’odierna udienza, in prossimità della quale la difesa della Consob ha depositato ulteriore memoria difensiva ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata deducendo la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 181, nonchè il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla nozione di “informazione privilegiata”, prospettando, altresì, l’impossibilità di qualificare come “precisa” e “non pubblica” l’informazione di cui egli era in possesso, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte veneta.

2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 50 (della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della CEDU nonchè la violazione del principio del “ne bis in idem” di cui all’art. 649 c.p.p., sul presupposto che egli era stato sottoposto – per gli stessi fatti storici con identità di soggetti, di tempo e di luogo, oggetto dell’accertamento in sede sanzionatoria amministrativa – a procedimento penale, definito con sentenza di applicazione di pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p., emessa in data 26 ottobre 2016 (e passata in giudicato il 16 novembre 2016, come attestato dal cancelliere sulla copia della sentenza depositata il 14 febbraio 2018 ai sensi dell’art. 372 c.p.c.), statuizione assimilabile, per sua natura, ad una sentenza penale di condanna.

3. Rileva il collegio che la prima censura è, in parte, inammissibile e, in parte, infondata.

Essa si profila inammissibile con riferimento al dedotto vizio di asserita omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione in ordine alla nozione di “informazione privilegiata” siccome proposto e svolto con riguardo al vizio logico-motivazionale come precedentemente previsto dal pregresso art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel mentre, nel caso di specifico, trova applicazione “ratione temporis” la nuova versione della stessa norma, in virtù della quale è ora possibile – in ordine ai ricorsi per cassazione proposti dopo l’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 (conv., con modif., dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) – la sola denuncia dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

E’ ormai giurisprudenza costante di questa Corte che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – come intervenuto per effetto della citata innovazione normativa del 2012 – deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, con la conseguenza che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Si è, tuttavia, specificato che tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Nessuna di queste ultime ipotesi ricorre nel caso in esame risultando la motivazione della sentenza impugnata chiaramente ed esaustivamente incentrata sugli aspetti essenziali della natura abusiva dell’approfittamento in proprio e della diffusione dell’informazione privilegiata a terzi, sull’accertato presupposto della sua precisione e della sua riservatezza, che il ricorrente censura lamentando, in effetti, le valutazioni di merito compiute dalla Corte veneta in modo assolutamente adeguato e logico e, quindi, per tale profilo, inammissibilmente.

La prima doglianza è destituita, invece, di fondamento per quanto attiene alla supposta violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 181, essendosi la Corte territoriale correttamente conformata alla giurisprudenza di legittimità in tema di ravvisata sussistenza della c.d. “informazione privilegiata” caratterizzata dal requisito della precisione, accertata mediante l’adozione di un percorso logico-giuridico assolutamente puntuale ed adeguato in relazione ai plurimi riscontri fattuali concretamente appurati.

In particolare la Corte veneziana, ponendo in risalto tutti i passaggi della complessa vicenda (concernente il progetto di “valutazione dei possibili indirizzi strategici per APP”, rispetto al quale il ricorrente sapeva che si sarebbe tradotto nel progetto di promozione di un’OPA da parte di Banca Apulia sulle azioni APP dal 25 ottobre 2011) ha evidenziato come, in effetti, il B., in conseguenza degli analitici accertamenti ispettivi compiuti dalla Consob sfociati nella contestazione dei precisi addebiti riportati in narrativa, aveva comunicato informazioni privilegiate a tre persone, al di fuori dell’ordinario esercizio del lavoro espletato, commettendo tale condotta abusando dell’esercizio della sua attività lavorativa alle dipendenze di Veneto Banca e, soprattutto, della funzione dallo stesso rivestita all’interno del ristretto gruppo di lavoro al quale partecipava, profittando personalmente della conoscenza di esse (dotate un sufficiente grado di precisione).

In particolare, la Corte veneta ha puntualmente accertato in fatto che il B. aveva comunicato la predetta informazione (da intendersi come sinonimo di “conoscenza” o “notizia” oggetto di possesso) a tre persone con cui aveva vincoli parentali o amicali, così realizzando univocamente una strategia di insider trading, siccome indirizzata all’immediata locupletazione per effetto della vendita dei titoli il cui valore era aumentato dopo la diffusione delle notizie.

Di conseguenza, in dipendenza dei rapporti intercorrenti tra l’opponente e gli altri tre soggetti a cui favore erano state diffuse le notizie di mercato che sarebbero dovute invece rimanere riservate e dell’accertata natura delle operazioni compiute in assenza di qualsiasi giustificazione munita di un minimo di verosimiglianza, le contestate operazioni non potevano qualificarsi che come abusive in quanto compiute dal B. nella consapevolezza di sfruttare preventivamente – per effetto del suo ruolo – le sue acquisizioni informative, trasmettendole indebitamente a terzi, in tal modo venendosi a configurare l’infrazione di cui all’art. 187-ter, comma 1, del TUF, a causa dell’accertata violazione del divieto di manipolazione del mercato.

Alla stregua dei descritti accertamenti (che trovano la loro adeguata valorizzazione nell’esaustivo iter motivazionale della Corte veneta) non è discutibile – diversamente da quanto denunciato nell’interesse del ricorrente – che le suddette informazioni fossero caratterizzate anche dal requisito della precisione, come previsto dall’art. 181, comma 3, lett. a), del TUF, il quale si riferisce ad un complesso di circostanze esistente o che si possa ragionevolmente prevedere che verrà ad esistenza.

Orbene, nel caso in questione, la Corte territoriale ha compiutamente appurato – sulla base di valutazioni di merito incensurabili in questa sede – che alla data degli acquisti contestati lo studio afferente agli “indirizzi strategici” di APP era giunto ad un stadio avanzato tale da configurare certamente un complesso di circostanze come previsto dalla norma appena richiamata ed anzi tale da lasciar prevedere – in termini di sicura probabilità – il verificarsi dell’evento (avuto riguardo all’individuazione dei progetti relativi agli indirizzi strategici di APP).

Allo stesso modo non è contestabile che l’informazione non fosse pubblica, per come emerge – altrettanto univocamente – dagli accertamenti complessivi compiuti dalla stessa Corte di appello, avuto riguardo, in particolare, alla circostanza che il comunicato diffuso da APP il 24 agosto 2011 conteneva solo un generico riferimento a “nuovi indirizzi strategici e soluzioni organizzative e societarie” oltre che ad ogni “utile iniziativa per il superamento delle criticità per la tutela dell’interesse dei soci”, senza, cioè, che fosse stata fornita alcuna indicazione (invero necessaria per l’acquisizione del carattere pubblico) sulle modalità e sui tempi di attuazione di tali propositi, i quali, invece, avevano assunto la connotazione in senso proprio di progetto quanto meno alla fine del mese di settembre 2011, che, però, era rimasto ignoto al pubblico fino al 21 dicembre (tenendosi conto che la condotta illecita ascritta al B. di insider trading era venuta a consumarsi nel periodo intermedio e, quindi, precedentemente al momento dell’effettiva diffusione all’esterno della notizia riguardante l’operazione di mercato).

4. E’ fondato, invece, il secondo complesso motivo nei termini e per le ragioni che seguono.

Innanzitutto, va osservato che la difesa del ricorrente ha ritualmente depositato ai sensi dell’art. 372 c.p.c., sentenza (in data 26 settembre 2016) di applicazione – da parte del G.I.P. presso il Tribunale di Milano – su richiesta di parte (ai sensi dell’art. 444 c.p.p.) della pena di anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione (oltre ad Euro 22.222 di multa), con attestazione di passaggio in giudicato ad opera della competente cancelleria, avuto riguardo ai delitti previsti e puniti dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 184, comma 1, lett. b) e c), nonchè dall’art. 110 c.p., art. 184, comma 1, lett. a), dello stesso D.Lgs., le cui condotte corrispondono – sul piano materiale e soggettivo – a quelle che sono state sanzionate anche in sede amministrativa all’esito dell’autonomo procedimento sfociato nell’impugnata Delib. della Consob.

Orbene, alla stregua di questi accadimenti, viene in rilievo la questione della operatività o meno del c.d. divieto di ne bis in idem ovvero sul se l’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, interpretato alla luce dell’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per il quale il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile (come verificatosi bel caso di specie, tenendo conto che – per quanto non diversamente stabilito – la sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., equivale ad una sentenza di condanna, avuto riguardo alla previsione di cui al successivo art. 445 c.p.p.).

A tal proposito va rilevato che, come è risaputo, la Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’UE è intervenuta (con le sentenze rese nelle cause C-524/15, Menci, C-537/16, Garlsonn Real Estate e a. e in quelle riunite C.596/16 e 597/16, Di Puma e Zucca) – dopo l’importante pronuncia della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’uomo A. e B. contro Norvegia del 2016 sulla compatibilità con il diritto dell’Unione del sistema italiano del c.d. doppio binario (sanzionatorio) penale/amministrativo, avendo riguardo specificamente al disposto del citato art. 50 CDFUE, il quale – è opportuno ricordarlo – così recita: nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è stato già assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.

Per quanto qui rileva direttamente va sottolineato che la causa Garlsson Real Estate e a. (C-537/16) aveva ad oggetto la questione della compatibilità (o meno) fra l’illecito qualificato come amministrativo (ma ritenuto sostanzialmente penale) di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-ter e il delitto di manipolazione di mercato punito ai sensi del medesimo D.Lgs. e ciò – si noti – con riferimento ad una concreta vicenda che vedeva i ricorrenti opporsi ad un provvedimento sanzionatorio emesso nei loro confronti dalla CONSOB, in un momento successivo a quello in cui il procedimento penale a loro carico si era concluso, in via definitiva, a seguito di sentenza di patteggiamento.

La citata sentenza A e B c. Norvegia aveva mutato profondamente la natura del ne bis in idem convenzionale, tramutandolo in buona sostanza da principio eminentemente processuale – divieto già del doppio processo (prima che della doppia sanzione sostanzialmente penale) per il medesimo fatto – a garanzia di tipo sostanziale: purchè la risposta sanzionatoria, derivante dal cumulo delle due pene inflitte nei diversi procedimenti, fosse proporzionata, nulla vietava ai legislatori nazionali di predisporre un doppio binario sanzionatorio, che fosse rispettoso dei criteri dettati dalla Corte di Strasburgo.

Tanto il concetto di sanzione penale, quanto quello di idem factum sono assunti dalla Corte di giustizia – nelle tre recenti sentenze della Grande Sezione – nel medesimo significato loro conferito dalla giurisprudenza di Strasburgo (che del resto si era mantenuta immutata sul punto): la Corte di Lussemburgo, in particolare, ha inteso riferire il concetto di idem factum al fatto storico in sè considerato e non alla sua qualificazione giuridica (cfr. Menci p.p. 34-39; Garlsson Real Estate e a. p.p. 36-41) e di ricercare nella sanzione qualificata come amministrativa, soprattutto, caratteri di afflittività (Menci p.p. 26-33; Garlsson Real Estate e a. p.p. 28-35).

Ebbene, già dal tenore letterale dell’art. 50, si evince come tutti i casi oggetto di rinvio ponevano un problema di interferenza con la citata norma, ammesso che le sanzioni irrogate nei diversi procedimenti potessero dirsi, effettivamente, relative a un idem factum e di natura sostanzialmente penale.

Il cumulo di sanzioni sostanzialmente penali relative allo stesso fatto storico sottolinea, tuttavia, la Corte di giustizia – non costituisce tout court una violazione del bis in idem Europeo; esso può costituire, infatti, una semplice limitazione di tale diritto, purchè rispetti i requisiti dettati, in materia, dall’art. 52, p. 1 CDFUE, a mente del quale “eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui”.

Da quanto sopra scaturisce che, affinchè le limitazioni imposte dal predetto art. 50, possano considerarsi conformi al diritto dell’Unione, occorrerà afferma la Corte di Giustizia – che esse rispettino, congiuntamente, i seguenti requisiti: a) siano finalizzate – nel rispetto del principio di proporzionalità – a un obiettivo di interesse generale tale da giustificare il cumulo (fermo restando che i procedimenti e le sanzioni devono avere scopi complementari); siano inoltre: a1) previste da regole chiare e precise, tali da rendere prevedibile il ricorso ad un sistema di doppio binario sanzionatorio; a2) tali da garantire un coordinamento fra i due procedimenti relativi all’idem factum, in modo da limitare il più possibile gli oneri supplementari che il ricorso a tale sistema genera; a3) rispettose del principio di proporzione della pena, limitando a quanto strettamente necessario il complesso delle sanzioni irrogate. Si precisa, altresì, che la verifica circa il rispetto di tali requisiti spetta al giudice nazionale (che potrebbe, ovviamente, valersi nell’opera di interpretazione del diritto UE del prezioso strumento del rinvio pregiudiziale).

Sulla scorta di tutte queste condizioni la Grande Sezione ha statuito il principio generale secondo cui “L’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea dev’essere interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale, che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva” (sull’applicabilità di tale principio si vedano, nella nostra giurisprudenza civile, soprattutto le sentenze n. 27564/2018 n. 31634/2018, e, in quella penale, da ultimo, la sentenza n. 39999/2019).

L’applicazione del principio appena richiamato riferito alla valorizzazione dei criteri (tra loro combinati) sui quali deve essere basato comporta che, ai fini della valutazione del ne bis in idem, nel caso di sanzione penale irrevocabile irrogata dal giudice penale, la correlata sanzione ammnistrativa applicata per gli stessi fatti ed ancora sub iudice può ulteriormente esplicare i suoi effetti soltanto nell’ipotesi in cui la sanzione penale (rectius: la sua complessiva afflittività) assorba (ove non sia, perciò, necessario il rispetto di un principio di gradualismo del globale apparato sanzionatorio) completamente il disvalore della condotta antigiuridica rilevante sul piano penale ed amministrativo, offrendo, perciò, piena tutela all’interesse protetto dell’integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari.

Quindi, alla stregua della sentenza sul caso Garlsonn (riguardante l’ipotesi di un procedimento amministrativo sanzionatorio ancora in corso – ovvero per il quale non si è venuto a produrre, anche a seguito dell’impugnazione in sede giudiziale, l’effetto della definitività – dopo la, invece, definitiva conclusione del correlato processo penale sugli stessi fatti, come verificatosi nella fattispecie, laddove è intervenuta sentenza di patteggiamento passata ormai in giudicato), si deve ritenere che la Corte di Giustizia, pur lasciando formalmente al giudice nazionale l’ultima parola in merito, ha osservato che la condanna definitiva in sede penale potrebbe rendere di per sè sproporzionato il proseguimento di un procedimento amministrativo sanzionatorio (per ulteriori opportuni riferimenti v., da ultimo, CEDU, sez. II, 16 aprile 2019, Bjarni Armannsson c. Islanda e CEDU, sez. V, 6 giugno 2019, Nodet c. Francia).

Seguendo questo ragionamento, quindi, qualora la sanzione penale irrogata e divenuta definitiva (nel nostro caso, ai sensi dell’art. 444 c.p.p., la condanna irrogata dal Tribunale di Milano è pari ad anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione oltre ad Euro 22.222 di multa), si dovesse ritenere già proporzionata ai reati commessi in ordine agli stessi fatti su cui è stato intrapreso anche il procedimento sanzionatorio amministrativo, andrebbe applicato il principio del “divieto del ne bis in idem”, in virtù della circostanza che qualsiasi aggravamento in sede sanzionatoria “amministrativa” (ma la cui “pena” è sostanzialmente equiparabile a quella propriamente penale) rappresenterebbe una violazione di tale divieto, proprio per effetto del mancato rispetto del criterio della proporzione afflittiva tra cumulo sanzionatorio e fatti commessi.

Diversamente, ovvero nell’eventualità in cui non si dovessero ritenere sussistenti le condizioni per una valutazione di adeguatezza e proporzionalità (assorbenti) della già irrogata sanzione conseguente alla sopravvenuta condanna definitiva in sede penale, deve rilevarsi che è demandato allo stesso giudice di merito riconsiderare tutti gli aspetti della complessiva vicenda (con particolare riferimento a quelli soggettivi ed oggettivi, al superamento del grado di lesione degli interessi giuridici protetti e all’entità del danno causato) per un intervento “proporzionalmente” riduttivo della misura delle sanzioni pecuniarie e personali applicate con la Delib. Consob oggetto del proposto ricorso.

Per tali ragioni, dunque, il ricorso deve essere accolto sul punto, ovvero limitatamente alla rivalutazione dell’impianto sanzionatorio, demandando al giudice di rinvio di procedere alla indicata verifica in ordine alla proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente con riferimento alle sanzioni pecuniarie e a quella personale (per quella reale v., invece, quanto seguirà di qui a poco), valutando, tra l’altro, l’incidenza dei fatti sull’integrità e trasparenza del mercato finanziario e sulla fiducia del pubblico negli strumenti finanziari, ma anche la complessiva condotta osservata dal ricorrente, alla stregua dei principi precedentemente evidenziati di derivazione dalle Corti Europee.

5. Un discorso a parte deve essere fatto con riguardo alla legittimità o meno della confisca disposta con la Delib. Consob impugnata dal B..

Con la sentenza n. 112 del 2019 la Corte costituzionale ha:

– dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-sexies, nel testo originariamente introdotto dalla L. 18 aprile 2005, n. 62, art. 9, comma 2, lett. a), nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo, e non del solo profitto;

3) dichiarato, in via consequenziale, ai sensi della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 27, l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187-sexies, nella versione risultante dalle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 107, art. 4, comma 14, recante “Norme di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 596/2014, relativo agli abusi di mercato e che abroga la direttiva 2003/6/CE e le direttive 2003/124/UE, 2003/125/CE e 2004/72/CE”, nella parte in cui prevede la confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, del prodotto dell’illecito, e non del solo profitto.

In sintesi, con questa sentenza, il Giudice delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittima la confisca amministrativa dell’intero “prodotto” di operazioni finanziarie illecite e dei “beni utilizzati” per commetterle, anzichè del solo “profitto” ricavato da queste operazioni.

A tal proposito la Corte costituzionale ha rilevato che queste particolari forme di confisca – combinate con le elevatissime sanzioni pecuniarie previste dal Testo unico della finanza – conducono a risultati punitivi in contrasto con il principio della necessaria proporzionalità della sanzione, da ritenersi applicabile anche agli illeciti amministrativi di carattere “punitivo”.

Con detta sentenza si è chiarito che il “prodotto” degli illeciti previsti dal testo unico sulla finanza è effettivamente costituito dall’intero valore degli strumenti finanziari acquistati o del ricavato della vendita dei medesimi, mentre il “profitto” è costituito dall’utilità economica realizzata mediante l’operazione. “Beni utilizzati” per commettere gli illeciti in questione sono, invece, le somme investite nell’acquisto o gli strumenti alienati.

Inoltre, è stato puntualizzato che, mentre la confisca del “profitto” ha natura meramente “ripristinatoria”, e come tale rappresenta la naturale e legittima reazione dell’ordinamento all’illecito arricchimento realizzato dal soggetto, la confisca del “prodotto” e dei “beni utilizzati” per commettere l’illecito hanno invece natura propriamente “punitiva” e, cumulandosi con le già severe sanzioni pecuniarie del Testo unico, portano a risultati sanzionatori sproporzionati.

Quindi, il Giudice delle leggi ha dichiarato illegittima la previsione della confisca del “prodotto” e dei “beni utilizzati” per commettere gli illeciti previsti dal testo unico sulla finanza.

Restano, ovviamente, ferme le altre sanzioni pecuniarie (e quelle personali eventualmente applicate) e la confisca del “profitto” tratto dalla commissione dell’illecito.

Pertanto, in virtù degli effetti di tale pronuncia costituzionale – che sono direttamente applicabili nella presente controversia – la sentenza qui impugnata va annullata nella parte in cui è necessario distinguere tra le somme costituenti “prodotto” della condotta illecita e quelle integranti “profitto” della medesima condotta, demandando, quindi, al giudice di rinvio di procedere all’individuazione, in concreto, dei due tipi di confisca disposti e del correlato oggetto, così da scorporare – a vantaggio del ricorrente – l’importo riconducibile al solo “prodotto” della confisca.

6. In definitiva, alla stregua delle complessive argomentazioni svolte, va rigettato il primo motivo mentre deve essere accolto il secondo nei sensi specificati nel precedente impianto motivazionale, con la derivante cassazione dell’impugnata sentenza in ordine alla censura ritenuta fondata ed il conseguente rinvio della causa ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia, che provvederà a regolare anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo ed accoglie il secondo nei sensi di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per la regolazione delle spese del presente giudizio, ad altra Sezione della Corte di appello di Venezia.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 10 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2019

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