Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33413 del 27/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 27/12/2018, (ud. 24/04/2018, dep. 27/12/2018), n.33413

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 30690/2011 R.G. proposto da:

Società AVEL s.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo Giambra, dall’Avv.

Paolo Casetta e dall’Avv. Gianluca Contaldi, elettivamente

domiciliata presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Pier Luigi

da Palestrina n. 63, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici domicilia, in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Regionale del Piemonte n.

76/5/2010 depositata il 18 novembre 2010.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 24 aprile 2018

dal Consigliere Dott. D’Orazio Luigi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale dott. Sergio Del Core, che ha concluso chiedendo il rigetto

del incasso;

udito l’Avv. Stefania Cantaldi per la ricorrente;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nell’anno 2003 (dichiarazione di imposta 2004) la Avel s.p.a. effettuava il pagamento di imposte diverse, tramite modelli F24, mediante compensazione con crediti Iva per Euro 1.276.487, in parte utilizzando il credito Iva dell’anno 2002 ed in parte il credito Iva risultante dalle liquidazioni periodiche dei primi tre trimestri dell’anno 2003. Le medesime modalità di compensazione venivano adottate anche per l’anno 2004 (dichiarazione di imposta 2005).

2.Con processo verbale di constatazione l’Agenzia delle entrate evidenziava che per l’anno 2003 era stata effettuata una compensazione di tipo orizzontale per Euro 1.281.661,70, superiore al limite consentito di Euro 516.456,90 di cui al D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 25, comma 2. Anche per l’anno 2004 era stato superato il limite consentito.

3. Venivano, quindi notificati dalla Agenzia delle entrate due distinti atti di contestazione per la violazione in materia di compensazione del limite massimo consentito dalla legge e con l’irrogazione della sanzione pari al 30% degli importi eccedenti il massimo della compensazione, ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13 (sanzione di Euro 229.561,89 per l’anno 2003 e di Euro 38.874,30 per l’anno 2004).

4. La società presentava deduzioni chiedendo la riduzione delle sanzioni al 10 degli importi compensati in eccedenza, come sarebbe accaduto in caso di controllo formale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, con un ingiustificato trattamento in presenza di due situazioni “sostanzialmente assimilabili”.

5. Venivano, comunque, irrogate le sanzioni nella misura del 30% degli importi eccedenti il massimo della compensazione consentita.

6. La società presentava distinti ricorsi dinanzi alla Commissione tributaria provinciale chiedendo, in via principale, l’accoglimento del “rilievo di incostituzionalità della norma che non prevedeva la riduzione delle sanzioni…così violando il principio di ragionevolezza delle leggi sancito dall’art. 3 Cost.” e, in subordine”, l’applicazione del disposto della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, in assenza di un danno erariale effettivo.

7. La Commissione tributaria provinciale rigettava i ricorsi.

8. La società proponeva due distinti appelli che venivano riuniti dalla Commissione tributaria regionale, che rigettava gli appelli, evidenziando che la richiesta di riduzione delle sanzioni dal 30% al 10% era stata formulata per la prima volta in sede di appello, che vi era il danno erariale costituito dalla indebita compensazione fiscale in quanto la normativa era tesa a garantire la necessaria liquidità per l’erario, che non risultava violato l’art. 3 Cost., stante la diversità del procedimento “formale” di accertamento del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, e quello seguito dalla Agenzia delle entrate nella specie, scaturente da un processo verbale di constatazione, per la verifica della compensazione orizzontale tra tributi diversi, a seguito di una complessa attività di indagine di accertamento, che neppure erano pertinenti i richiami agli istituti dell’accertamento con adesione, dell’adesione ai processi verbali di constatazione ed agli inviti a comparire, in quanto tutti volti ad accelerare la definizione del contenzioso tributario con agevolazioni in termini sanzionatori.

9. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società.

10. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57”, in quanto la domanda di riduzione delle sanzioni alla misura del 10% dell’importo delle compensazioni eccedenti il massimo consentito per anno è già stata presentata con il ricorso introduttivo, che va letto nella sua interezza e non solo nelle conclusioni finali. Non si tratta, quindi, di domanda nuova inammissibile.

2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “motivazione omessa e/o insufficiente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5″, non avendo fornito la Commissione regionale adeguata motivazione alla dichiarazione di inammissibilità del motivo di appello in quanto nuovo.

2.1. Tali motivi, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Si premette che il principio secondo cui l’interpretazione delle domande, eccezioni e deduzioni delle parti dà luogo ad un giudizio di fatto, riservato al giudice di merito, non trova applicazione quando si assume che tale interpretazione abbia determinato un vizio riconducibile nell’ambito del'”error in procedendo”; in tale ipotesi, ove si assuma che l’interpretazione degli atti processuali di secondo grado abbia determinato l’omessa pronuncia su una domanda che si sostiene regolarmente proposta e non venuta meno in forza del successivo atto di costituzione avverso l’appello della controparte, la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame e all’interpretazione degli atti processuali e, in particolare, delle istanze e delle deduzioni delle parti (Cass. Civ., 25 ottobre 2017, n. 25259).

Invero, effettivamente nei due ricorsi di primo grado, poi riuniti, la società, pur insistendo nelle conclusioni solo per l’accoglimento del rilievo di incostituzionalità della normativa nella parte in cui non prevedeva la riduzione delle sanzioni, in una ipotesi del tutto simile a quella dell’accertamento formale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, ed in subordine per l’applicazione del principio generale in materia di sanzioni di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, in assenza di un danno effettivo per l’erario, ha però fatto espresso riferimento nel corpo del ricorso alla diminuzione dell’importo delle sanzioni (“Si configura pertanto un illegittimo contrasto con il principio di ragionevolezza delle leggi sancito dall’art. 3 Cost., con conseguente necessità che la Corte costituzionale lo dichiari incostituzionale nella parte in cui esso non permetta la possibilità di poter fruire di sanzioni ridotte”).

Il giudice del merito, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve invece avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo suo contenuto sostanziale (Cass. Civ., sez. 6-1, 7 gennaio 2016, n. 118).

Tuttavia, si rileva che la Commissione regionale, pur dichiarando inammissibile, perchè nuova, la domanda di riduzione delle sanzioni, asseritamente avanzata espressamente solo in sede di appello, la ha poi sostanzialmente respinta, evidenziando che era infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla attrice, in relazione alla mancata previsione della riduzione delle sanzioni, in quanto il procedimento formale D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis era ben diverso da quello che proveniva dal processo verbale di constatazione. Il primo accertamento, infatti, è interamente automatizzato e si sostanzia nella verifica dei dati dichiarati dal contribuente, mentre nel caso in esame vi è stata una complessa attività di indagine conoscitiva non assimilabile di certo alla verifica formale.

Del resto, la stessa attrice nel ricorso per cassazione ammette che vi è stato un rigetto del motivo da parte della Commissione regionale (cfr. pagina 59 “peraltro, le affermazioni contenuta a pagina 4 della sentenza appellata, con riferimento alla questione di legittimità costituzionale, di fatto, costituiscono un chiaro rigetto, nel merito, della predetta domanda di riduzione delle sanzioni”).

3. Con il terzo motivo la società deduce “violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3”, in quanto le sanzioni non sono comunque irrogate quando la violazione si traduce in una mera violazione formale senza alcun debito di imposta. In realtà, l’eccedenza di imposta utilizzata illegittimamente per la compensazione poteva essere chiesta a rimborso dalla società nei modi ordinari o “riportata a nuovo” o, ancora, utilizzata in compensazione nell’anno successivo. Nessun danno vi è stato per l’erario in quanto, ove la Avel avesse versato le somme compensate in modo indebito, avrebbe avuto un ulteriore e corrispondente credito d’imposta interamente “spendibile”, ossia “compensabile” o di cui chiedere il rimborso.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, come correttamente motivato dalla Commissione regionale, il limite massimo alla compensazione dei crediti Iva è stato introdotto per consentire allo Stato di disporre della liquidità necessaria.

Pertanto, con l’utilizzo in compensazione di somme superiori al tetto massimo stabilito dalla legge, la società ha arrecato un danno allo Stato, consistente nella mancata disponibilità liquida di ingenti somme di denaro. Della L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, invece, prevede che non possano essere emesse sanzioni in caso di mere violazioni formali “senza alcun debito di imposta”.

Nella specie il debito di imposta è risultato proprio eliminando la compensazione in eccedenza, e determinandosi in tal modo l’emergere di una somma da versare all’erario perchè non più coperta dalle compensazioni indebitamente effettuate oltre la soglia massima.

4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2 e D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1”. In particolare si evidenzia che l’Agenzia avrebbe dovuto consentire sin dalle deduzioni difensive il pagamento delle sanzioni nella misura ridotta di 1/3 ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2. La fattispecie in esame non diverge da quella relativa al controllo “formale” o “automatizzato” di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis. La procedura automatizzata doveva essere utilizzata anche nel caso in esame, con l’invio dell’avviso bonario e la conseguente riduzione delle sanzioni se il pagamento avveniva entro trenta giorni dalla comunicazione dell’avviso bonario. Anche nel caso in esame si trattava di dati forniti dal contribuente e desumibili dalla dichiarazione presentata.

5. Con il quinto motivo la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione di legge, sotto altro profilo, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis, D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2 e D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 13, comma 1”. La circostanza che l’Ufficio abbia proceduto con l’accertamento ordinario e non con quello “formale” non può precludere al contribuente la possibilità di avvalersi della definizione agevolata della sanzione. Il contribuente non può vedersi sottratta la possibilità di definizione agevolata solo perchè l’Agenzia delle entrate “per ragioni misteriose” ha deciso di seguire il procedimento di irrogazione delle sanzioni previsto dall’art. 16.

6. Con sesto motivo di impugnazione si censura la sentenza per “motivazione omessa e/o insufficiente ai sensi dell’art. 360 c.p.c. n. 5”, non avendo chiarito la Commissione regionale il contenuto della “complessa attività di indagine accertativa” svolta per accertare il superamento del limite massimo per la compensazione dei crediti.

6.1. I motivi quarto, quinto e sesto, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.

Invero, va chiarito che la scelta del procedimento di accertamento spetta in via esclusiva alla Agenzia delle entrate, in presenza dei presupposti di legge.

Infatti, per la Suprema Corte il contribuente non può dolersi dell’utilizzo, in luogo della liquidazione automatizzata, della procedura di accertamento parziale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis (Cass. Civ., 22 marzo 2017, n. 7291). La procedura di cui all’art. 36 bis costituisce una disposizione di favore nei confronti della Amministrazione finanziaria che, nei casi tassativamente previsti dalla legge, è legittimata ad iscrivere direttamente a ruolo, senza la previa emissione dell’avviso di accertamento, la maggiore imposta che risulta dovuta sulla base dei meri dati numerici esposti dal contribuente nella propria dichiarazione. Il ricorso alla emissione dell’avviso di accertamento, allora, anche parziale, costituisca una maggiore garanzia per il contribuente che, invece della sola cartella di pagamento, deve ricevere un apposito atto di accertamento del maggior reddito.

Peraltro, la ricorrente muove dalla premessa, erronea, che in caso di accertamento “formale” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, in ogni caso la contribuente avrebbe avuto diritto alla comunicazione dell’avviso bonario ed alla connessa possibilità di pagare solo un terzo della sanzione entro trenta giorni da tale comunicazione.

Invero, la comunicazione di irregolarità deve essere inviata dalla Agenzia delle entrate solo nel caso in cui vi siano “incertezze” su aspetti rilevanti (Cass. Civ., 24 gennaio 2018, n. 1711; Cass. Civ., 112 aprile 2017, n. 9463).

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, comma 3, prevede, infatti, che “quando dai controlli automatici eseguiti emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione…l’esito della dichiarazione è comunicato al contribuente…per evitare la reiterazione di errori e per consentire la regolarizzazione degli aspetti formali”.

La L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, dispone, poi, che “prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente…a fornire i chiarimenti necessari o produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta…”.

Il D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2 (riscossione delle somme dovute a seguito dei controlli automatici) dispone, poi, che “L’iscrizione a ruolo non è eseguita…se il contribuente…provvede a pagare le somme dovute…entro trenta gionri dal ricevimento della comunicazione, prevista dai commi 3 dei predetti artt. 36 bis e 54 bis…”.

Non deve essere inviata, però, la comunicazione di irregolarità quando vi è stata solo omissione del versamento dovuto in base alla autoliquidazione dell’imposta (Cass. Civ., 26 settembre 2017, n. 22383), nè in caso di mero ritardo nel versamento (Cass. Civ., 10 giugno 2015, n. 12023).

In caso di omesso o tardivo versamento non spetta, poi, la riduzione delle sanzioni amministrative ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 2, comma 2 (Cass. Civ., 6 luglio 2016, n. 13759), in quanto l’interessato può, comunque, pagare, per estinguere la pretesa fiscale, con riduzione della sanzione, una volta ricevuta la notifica della cartella, sempre che quella comunicazione sia dovuta.

Peraltro, il D.Lgs. n. 472 del 1977, art. 16, prevede al comma 3 che “entro il termine previsto per la proposizione del ricorso, il trasgressore e gli obbligati…possono definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata e comunque non inferiore ad un terzo dei minimi edittali previsti per le violazioni più gravi”.

Anche sotto questo aspetto i motivi sono infondati.

Peraltro, la Commissione ha chiarito in modo logico e congruo la profonda differenza esistente tra il procedimento di accertamento formale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, che attiene alla verifica automatizzata delle dichiarazioni del contribuente, consentendo la correzione e l’emenda di errori materiali ed inesattezze, ed il procedimento ordinario che, invece, attiene alle verifiche più complesse che richiedono lo svolgimento di attività da parte dell’Agenzia delle entrate.

Nella specie, la Commissione ha chiarito che nella fattispecie in esame il controllo si è snodato attraverso una indagine svolta dai funzionari dell’Agenzia delle entrate sulla “compensazione orizzontale”, e quindi tra tributi diversi (Irpeg e Iva) effettuata dal contribuente, che si è sostanziato in un processo verbale di constatazione per indebita compensazione fiscale e conseguente minore versamento di Irpeg.

7. Con il settimo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “sulla questione di legittimità costituzionale. Violazione di legge con riferimento all’art. 3 Cost. in relazione al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 462, art. 2. Violazione di legge con riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., all’art. 3 ter comma 4 del Trattato di Lisbona e all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea in relazione al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 462 art. 2”.

Risulterebbe violato, quindi, il principio di ragionevolezza delle leggi di cui all’art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede l’invio dell’avviso bonario e la riduzione delle sanzioni nel caso di compensazione di crediti esistenti effettuate oltre il limite di legge.

Sul punto si rileva che la questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata, in quanto la differenza tra il procedimento di controllo “formale” di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, di natura automatica, volto alla correzione di errori materiali e di calcolo, oltre che a ridurre le detrazioni di imposta o i crediti di imposta, tanto che può essere emessa la cartella di pagamento senza previa notifica di accertamento, ma talora con la comunicazione di avviso bonario, ed il procedimento di accertamento ordinario o parziale che si basano su atti istruttori o segnalazioni, quindi di natura più complessa.

La questione, peraltro, è manifestamente infondata anche perchè la disciplina ordinaria di applicazione delle sanzioni, seguita nella specie, muove, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, dalla notificazione dell’atto di contestazione da parte dell’Ufficio, con la possibilità per il contribuente, ai sensi del comma 3, di “definire la controversia con il pagamento di un importo pari ad un terzo della sanzione indicata”.

Come si vede, la ricorrente avrebbe potuto pagare la sanzione in misura ridotta (un terzo), anche ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, sicchè nessuna differenza si riscontra tra le due ipotesi messi a confronto tra loro.

Le medesime argomentazioni valgono a scongiurare la pretesa violazione del principio di “proporzionalità”, ascritto dalla ricorrente non solo agli artt. 3,27,97 e 113 Cost., ma anche all’art. 3 ter, comma 4 del Trattato di Lisbona, all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pure in riferimento agli istituti, caratterizzati però dalla diversa natura deflattiva del contenzioso tributario, dell’accertamento con adesione di cui al D.Lgs. n. 218 del 1997, art. 2,all’accertamento per adesione con invito al contraddittorio del D.L. n. 185 del 2008, ex art. 27.

8. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 9.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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