Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33392 del 17/12/2019

Cassazione civile sez. lav., 17/12/2019, (ud. 02/04/2019, dep. 17/12/2019), n.33392

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3090-2015 proposto da:

N.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato ENRICO VISCIANO;

– ricorrente –

contro

FONDAZIONE S.M. CLINICA DEL LAVORO E DELLA

RIABILITAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PARIGI, 11, presso lo studio

dell’avvocato LUCA SABELLI, che la rappresenta e difende unitamente

agli avvocati VALERIA MAGGIANI, PAOLO BENAZZO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 586/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 12/06/2014 R.G.N. 185/2012.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

RILEVA

che:

con ricorso depositato il 20 gennaio 2012 la Dott.ssa N.M. appellava la sentenza pronunciata dal giudice del lavoro di Pavia, che aveva respinto la domanda di condanna della convenuta FONDAZIONE M. al risarcimento del danno dal dedotto mobbing, quantificato dall’attrice in complessivi Euro 196.624,50;

la Corte d’Appello di Milano con sentenza n. 586 in data 12 giugno 2014, pubblicata mediante deposito il successivo 8 agosto, rigettava l’interposto gravame con la condanna dell’appellante al pagamento delle relative spese, disattendendo la preliminare eccezione, opposta dalla costituita appellata, d’inammissibilità dell’impugnazione, giudicata però ad ogni modo infondata. Infatti, quanto al lamentato mancato espletamento dell’attività istruttoria richiesta, la Corte territoriale osservava in primo luogo che nella decisione gravata il tribunale aveva diffusamente argomentato in merito alle ragioni per cui non erano stati ammessi i capitoli di prova articolati nel ricorso introduttivo del giudizio, riportati addirittura per esteso nella sentenza appellata, rilevandone in particolare la genericità per carenza di riferimenti temporali e spaziali, nonchè per indicazione dell’autore della condotta vessatoria ovvero l’ininfluenza ed ancora la contraddizione con la documentazione all’uopo prodotta dalla convenuta Fondazione. A fronte di tale dettagliato esame, l’appellante si era limitata ad una generica denuncia della scelta di non dar corso ad alcuna attività istruttoria – con modalità tali per cui l’appellata aveva eccepito la violazione del requisito di specificità dei motivi ex art. 434 c.p.c. – scelta però del tutto corretta e condivisibile al pari delle censure il primo giudicante aveva formulato in ordine alle deduzioni di parte attrice. In secondo luogo, la Corte distrettuale riteneva palesemente infondata la critica avanzata dall’appellante circa l’asserito error in judicando, secondo cui lo stesso giudice avrebbe individuato le condotte necessarie ad integrare il mobbing solo in astratto. Per contro, il tribunale aveva soltanto rilevato che, comparando la prospettazione di parte attrice alla nozione di mobbing individuata dalla giurisprudenza, attesa la genericità delle allegazioni, avuto riguardo alla mancata individuazione dei soggetti responsabili di comportamenti vessatori specifici e rilevanti, tenuto altresì conto della difficoltà di collocare cronologicamente per mancanza di specifici riferimenti la narrazione degli eventi, peraltro di difficile comprensione nel concreto atteggiarsi, come pure già rilevato dal primo giudicante, non sussistevano quelle caratteristiche di sistematicità prolungata dei comportamenti vessatori che, accanto all’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente, al nesso eziologico tra la condotta datoriale o dirigenziale e il pregiudizio all’integrità psicofisica del lavoratore e alla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio, erano richieste dalla giurisprudenza di legittimità per potersi parlare di mobbing, con onere probatorio a carico del lavoratore istante (citando tra le altre le pronunce di Cassazione 23 febbraio 2012 n. 2711, 31 maggio 2011 n. 12048 e 26 marzo 2010n. 7382). E ciò a prescindere dalla considerazione che alcuni dei comportamenti asseritamente vessatori risultavano documentalmente inesistenti, in particolare i pretesi trasferimenti di ufficio di gennaio 1993, di dicembre 2008 e di gennaio 2009, tutti disposti su richiesta della stessa lavoratrice (richiamandosi i documenti 4, 5, 6, 8, 9, 9-bis/ter e quater del fascicolo di primo grado della convenuta appellata). D’altro canto, diversamente da quanto accennato a pag. 4 dell’atto d’appello, la Fondazione nel momento in cui aveva eccepito sia la carenza di indicazione delle condotte mobbizzanti, sia la mancata indicazione dei presunti mobbers, come peraltro ammesso dalla stessa appellante, aveva contestato la sussistenza dei fatti denunciati ex adverso. Parimenti risultava infondata la doglianza di rigetto dell’istanza di rimessione in termini ex art. 184-bis c.p.c., al fine di dimostrare alcuni elementi ulteriori verificatisi, in pendenza del giudizio di primo grado, successivi ma connessi necessariamente a quelli anteriori già dedotti. Al riguardo la Corte d’Appello osservava che i fatti successivi all’introduzione del giudizio non potevano rilevare ai fini di causa, sicchè correttamente il tribunale non aveva rimesso in termini la ricorrente – secondo la formula adoperata dalla stessa appellante – ammettendo la prova sul punto. D’altro canto, correttamente il giudice adito aveva ritenuto irrilevante di per sè tali fatti, in assenza di prova di quelli anteriori. Infine, la Corte territoriale annotava che nulla aveva replicato l’appellante riguardo alle considerazioni espresse dal giudice di primo grado e fondate sui messaggi di posta elettronica in data 1 e 5 febbraio 2007, prodotti dalla stessa attrice, laddove si era argomentato che da tali comunicazioni emergeva una visione generale della Fondazione sulla figura dello psicologo all’interno della sua organizzazione ed una conseguente posizione nei confronti di tutti gli psicologi suoi dipendenti, e dunque non un atteggiamento persecutorio nei riguardi della singola persona della lavoratrice in questione. Aveva perciò fatto bene il primo giudicante a ritenere mancata la dimostrazione giudiziale del (dedotto) comportamento mobbizzante. Quanto, poi, al motivo di gravame relativo alla compensazione delle spese di lite, sicuramente la soccombente non poteva dolersene, al contrario semmai della parte risultata vittoriosa. In conclusione, la sentenza impugnata doveva essere integralmente confermata;

la succitata pronuncia di appello è stata impugnata mediante ricorso per cassazione dalla Dott.ssa N. come da atto del 22 gennaio 2015, affidato a tre motivi, cui ha resistito la FONDAZIONE Salvatore M. Clinica del Lavoro e della Riabilitazione, con sede legale in Pavia, mediante controricorso del 23 febbraio 2015, notificato a mezzo posta (v. a.r. pervenuta alla destinataria il due marzo 2015);

la ricorrente, inoltre, ha depositato memoria illustrativa in vista dell’adunanza in camera di consiglio fissata per il 2 aprile 2019, di cui è stata data rituale e tempestiva comunicazione a tutti gli aventi diritto.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 5, la ricorrente si è doluta della asserita mancanza e illogicità manifesta nonchè della contraddittorietà della motivazione dell’impugnata pronuncia, e dell’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio. Alla stregua della richiamata giurisprudenza, appariva ovvio, a dire della ricorrente, che nella fattispecie in esame, essendo il datore di lavoro una persona giuridica e pur dovendosi le condotte essere ricondotte ad agenti materiali, tale tipo di comportamenti andavano in ogni caso ricondotte alla Fondazione quale unico vero mobber, dovendosi inoltre aver riguardo non al singolo episodio, ma al complessivo comportamento vessatorio denunciato, sviluppatosi nel corso di numerosi anni. Pertanto, l’asserita genericità dei capitoli di prova non era che il riflesso dei caratteri propri del loro oggetto, ovverosia una generale e complessiva condizione vessatoria, posta in essere nei confronti di essa ricorrente dalla Fondazione stessa e all’interno della quale le singole condotte rilevavano in quanto componenti di un quadro ben più ampio. Il giudice di appello, peraltro, aveva errato nel confermare una motivazione viziata, che aveva ritenuto inammissibili i capitoli di prova dedotti dalla lavoratrice con il proprio ricorso introduttivo, così come all’uopo formulati e riprodotti (10 circostanze: rimprovero ricevuto per aver sottratto un assegno intestato ad altra dipendente con invito a dimettersi; patimento di espressioni del tipo sei come la peste da parte della dottoressa Z.; invito a dimettersi per motivi familiari ricevuto nell’anno 1990; continui e costanti trasferimenti di sede; essere inciampata sul luogo di lavoro nell’anno (OMISSIS) senza essere soccorsa da alcuno, nonostante la continua affluenza di personale presso la Fondazione; invio – da parte della stessa ricorrente – di lamentele scritte sullo stato di abbandono pressochè totale in cui era lasciato il centro di psicologia della Fondazione M.; in particolare, la condizione impervia di locali di magazzino, cui essa era stata destinata al fine di condurre la propria attività pur richiesta; lamentata mancanza di personale, nonchè di ausilio cartaceo e assistenza con macchinari, computer, materiale vario di cancelleria da parte dei vertici preposti a tali fini, che rassicuravano temporeggiando ogni volta sulle richieste; “la Dott.ssa N. presentava, a casa – causa ? – delle pressioni continue subite, delle omissioni e di maltrattamenti sul luogo di lavoro”, però con evidente ommessa indicazione dell’oggetto di tali condotte; “era stata invitata a lavorare di meno e a fare colloqui meno lunghi coi pazienti, venendo rimproverata ogni volta che mostrava zero sul lavoro”). Tali deduzioni probatorie erano quindi rivolte a dimostrare la condizione di grave disagio nella quale essa ricorrente era stata posta dal proprio datore di lavoro. Dichiarando inammissibili i capitoli di prova, il giudice di primo grado aveva pertanto omesso l’esame di fatti determinanti ai fini della decisione;

con il secondo motivo di ricorso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 la ricorrente ha denunciato nullità della sentenza per mancata applicazione dell’art. 437 codice di rito, sostenendo che non si era limitata a richiedere l’ammissione della prova per testi, avendo altresì prodotto numerosi documenti, in primis fotografici, dai quali emergeva in modo inequivoco la sussistenza di fatti già di per sè rilevanti ai fini dell’azionata pretesa risarcitoria. Tale produzione documentale, anche una volta esclusa l’ammissibilità dell’invocata prova testimoniale, risultava già di per sè del tutto inidonea a fondare un seppur parziale convincimento circa la fondatezza delle tesi di parte attrice. Per contro, non solo era stata esclusa l’ammissibilità delle prove testimoniali, che avrebbero potuto confortare le risultanze documentali, ma era stato completamente omesso l’esercizio dei poteri-doveri istruttori, di ricerca della verità materiale, imposto dall’art. 437 c.p.c., esercitabili di ufficio, in particolare avendo il giudice del lavoro anche in appello l’onere di ammettere pure di ufficio i mezzi di prova ritenuti indispensabili ai fini della decisione. Gli anzidetti capitoli di prova testimoniale avevano ad oggetto circostanze che avrebbero indubbiamente potuto arricchire la piattaforma probatoria a disposizione del giudice di merito, offrendogli maggiori elementi per valutare la vicenda nel suo complesso. L’impugnata sentenza non aveva, invece, tenuto in alcun modo conto di questa possibilità, essendosi limitata a confermare la pronuncia di primo grado, quindi precludendo l’esame testimoniale su ogni singolo capitolo dedotto;

con il terzo motivo di ricorso – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – è stata infine dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2087 e 2043 c.c.: era del tutto evidente che il giudice di primo grado, così come riconosciuto pure dalla Corte d’Appello, aveva correttamente individuato le condotte astrattamente integranti la fattispecie di mobbing. Tuttavia, inspiegabilmente lo stesso giudice, oltre a dichiarare inammissibili i capitoli di prova articolati, relativi a comportamenti individuati come rilevanti, e quindi precludendo una coerente applicazione della norma sostanziale in relazione alla fattispecie concreta, aveva però ritenuto insussistente la condotta illecita allegata dall’attrice. Dopo tale premessa, quindi, la ricorrente ha dedotto la mancata osservanza della recente giurisprudenza di legittimità in tema di straining, richiamando la sentenza di questa Corte, pronunciata in sede PENALE (VI sez.) n. 28603 del 28/03/2013, depositata il 3/7/2013 (così massimata – rv. 255976: Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p., anche nel testo modificato dalla L. n. 172 del 2012 esclusivamente se il rapporto tra il datore di lavoro ed il dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. Nella specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, annullava con rinvio la sentenza di assoluzione perchè il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali);

pertanto, la ricorrente nel citare alcune parti nella motivazione della succitata sentenza di Cass. pen. 28603/13, ha ritenuto che anche in presenza di rapporto distaccato e formale, tipico degli ambienti di lavoro in grandi aziende, i comportamenti considerati dalla suddetta pronuncia rilevano ai fini della configurazione di un mobbing, sebbene nella forma di attenuata dello straining. Anche nella valutazione della copiosa documentazione prodotta dalla ricorrente il giudice di prime cure era caduto in errore. Infatti, già dal quadro fornito dalle prove documentali offerte appariva chiaramente la sussistenza di una condizione sistematica di ingiustificata vessazione nei confronti della dottoressa N.. Nel contesto di un ambiente strutturato come quello della Fondazione, la sussistenza della fattispecie di mobbing o dello straining andava ricondotta ad una condizione di disagio causata da numerosi episodi rilevanti non di per sè, ma determinanti nel comportare una situazione globalmente intollerabile da parte del lavoratore. Le condizioni nelle quali la dottoressa N. era stata costretta ad operare avrebbero dovuto essere prese debitamente in considerazione ai fini della responsabilità di cui all’art. 2087 c.c., ciò che non era invece avvenuto. Inoltre, sulla recente interpretazione dell’art. 2087 c.c. in materia di mobbing la ricorrente ha richiamato il principio affermato da Cass. lav. con sentenza n. 18093 del 25/07/2013, secondo cui integra la nozione di “mobbing” la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche leciti), diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica). In sintesi, il giudice di merito aveva errato nel ritenere non sussistente – sulla base delle allegazioni e delle deduzioni probatorie di parte ricorrente ed alla luce dei citati precedenti giurisprudenziali (tra cui pure Cass. n. 12048/11) – la denunciata condotta mobbizzante, da ultimo, poi, asseritamente perdurante, poichè non cessata nemmeno a seguito della pendente controversia giudiziale (nova rappresentati persino dalla sottoposizione, nelle more del giudizio d’appello, della lavoratrice ad una commissione, incaricata da parte datoriale, per accertare la reale capacità e idoneità al lavoro di essa Dott.ssa N., “di per sè circostanza inquietante, non fosse che l’esito poi positivo dato da quell’accertamento definisse il soggetto esaminato perfettamente compos sui e perfettamente idoneo quanto a capacità lavorativa, fatta salva la natura di tale assoggettamento e sottoposizione a controllo di tipo mortificante. Il tutto, a voler tacere del ridimensionamento valevole quasi quanto un’eliminazione, della figura professionale della Dott.ssa N.M. tra le figure professionali indicate dal sito della Fondazione M. (OMISSIS)…”);

tanto premesso, in via preliminare non è possibile tener conto di quant’altro rappresentato da parte ricorrente con le “note autorizzate ex art. 380 bis 1 c.p.c.” (di ben 27 pagine a fronte delle 17, con le quali risulta redatto il ricorso per cassazione), attesa la valenza meramente illustrativa della memoria, nei limiti di quanto già dedotto con il ricorso di cui all’art. 366 codice di rito (cfr. Cass. V civ. n. 12657 del 19/05/2017: in tema di rito camerale di legittimità di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., inserito dal D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 1, lett. f), conv., con modif., dalla L. n. 197 del 2016, la memoria di parte prevista dal secondo periodo del predetto art. 380-bis.1, unico comma ha funzione meramente illustrativa delle questioni già presenti in giudizio e non può introdurne di nuove, non essendo previste occasioni di replica a favore delle altre parti.

Cfr. altresì Cass. sez. un. civ. n. 9692 del 22/04/2013, secondo cui per le memorie di cui all’art. 378 c.p.c. – concernente la pubblica udienza, cui evidentemente corrisponde la memoria prevista dall’art. 380-bis.1 riguardo al procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice – l’attività illustrativa che vi si compie è priva di carattere innovativo.

V. parimenti Cass. lav. n. 21379 del 4/11/2005, laddove in relazione al principio di autosufficienza, si è affermato che la trascrizione della disposizione collettiva contenuta nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c., avendo questa mera funzione illustrativa del ricorso, deve ritenersi irrituale.

Cfr. analogamente pure Cass. III civ. n. 7260 del 7/4/2005, secondo cui la memoria di cui all’art. 378 c.p.c. ha la sola funzione di illustrare i motivi del ricorso, e non è pertanto idonea a far venire meno una causa di inammissibilità dei motivi stessi, sostituendosi, “quoad effectum”, ad essi. Nella specie, l’inammissibilità era stata ritualmente eccepita dal controricorrente, “sub specie” della violazione del principio di autosufficienza del ricorso, ove risultava omessa la trascrizione dei capitoli relativi ad una prova testimoniale della quale si inferiva la decisività nonostante la non ammissione in sede di merito);

ciò chiarito, con il ricorso de quo non risulta adeguatamente riprodotto ex art. 366 c.p.c., comma 1 il testo del ricorso introduttivo del giudizio, della sentenza di rigetto della domanda pronunciata in primo grado, nè di quella che disattendeva l’interposto gravame, confermando pressochè integralmente quella di prime cure;

resta, quindi, inosservato il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., per cui occorre che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa (Cass. lav. n. 31082 del 28/12/2017. V. parimenti Cass. Sez. 6 – 3, n. 1926 del 3/2/2015: per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa,… per cui si richiede alla Corte di Cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa. Conformi Cass. II civ. n. 7825 del 04/04/2006, I civ. n. 12688 del 30/05/2007 e n. 19018 del 31/07/2017.

Parimenti, secondo Cass. V civ. n. 29093 del 13/11/2018, i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza.

Inoltre, secondo Cass. sez. un. civ. n. 7074 del 20/03/2017, ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali.

Cfr. altresì Cass. Sez. 6 – 3, n. 13312 del 28/05/2018: per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente. Il requisito non è adempiuto, pertanto, laddove i motivi di censura si articolino in un’inestricabile commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti incorporati nel ricorso, argomentazioni delle parti e frammenti di motivazione della sentenza di primo grado. In tale contesto, per altro verso, occorre pure richiamare l’onere di chiarezza, unitamente a quello di sintesi espositiva, da ultimo confermato con ordinanza n. 8009 del 21/03/2019 da Cass. V civ.: il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità espositiva degli atti processuali che, fissato dall’art. 3, comma 2 c.p.a., esprime tuttavia un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, espone il ricorrente al rischio di una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, non già per l’irragionevole estensione del ricorso – che non è normativamente sanzionata- ma in quanto rischia di pregiudicare l’intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4 assistite – queste sì – da una sanzione testuale di inammissibilità. Conforme Cass. II civ., sentenza n. 21297 del 20/10/2016 ed in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 17698 del 6/8/2014);

pertanto, avuto riguardo a quanto puntualmente e motivatamente argomentato – nei sensi indicati nella narrativa che precede, anche per relationem con riferimento alla sentenza di primo grado, perciò confermata – con la pronuncia de qua dalla Corte di merito, appaiono inconferenti le anzidette doglianze, peraltro come già detto largamente incomplete ed insufficienti, che non soddisfano i requisiti di pertinenza, precisione, chiarezza e di autosufficienza, però occorrenti ai sensi del cit. art. 366 alla luce della succitata giurisprudenza;

d’altro canto, a parte le rilevate carenze di allegazione, va osservato come con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 5, non risulti individuato alcun preciso fatto storico e decisivo, il cui esame sia stato omesso dalla Corte distrettuale nel caso di specie con sentenza impugnata, risalente all’anno 2014, per cui ratione temporis è applicabile il nuovo testo dell’art. 360, n. 5, sicchè non rileva di per sè la motivazione, se non quando inferiore al c.d. minimo costituzionale (cosa assolutamente da escludersi, per quanto sopra già osservato, da escludersi nel caso in esame), nel qual caso peraltro il vizio va tuttavia, ritualmente ed univocamente, denunciato in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., n. 4 per violazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. cit. codice (cfr. Cass. civ. sez. 6 – 3, ordinanza n. 22598 del 25/09/2018: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6 e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

In senso analogo v. pure Cass. n. 23940 del 2017, nonchè tra le altre Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014);

nemmeno si attagliano al preteso vizio, censurato ex art. 360 c.p.c., n. 5, le lamentele formulate circa la mancata ammissione dei richiesti mezzi istruttori, per cui ad ogni modo occorreva semmai censurare con appropriate deduzioni in diritto, circa l’eventuale error in procedendo, le ragioni in base alle quali, conformemente, i giudici di merito avevano considerato inammissibili i capitoli di prova articolati con l’atto introduttivo del giudizio (non sono state neanche riportate le diffuse argomentazioni svolte dal primo giudicante, condivise dalla Corte distrettuale. Nè è stata riprodotta quella che la medesima Corte ha definito, a fronte del dettagliato esame da parte del giudice di primo grado, generica denuncia dell’appellante della scelta di non dar corso ad alcuna attività istruttoria.

V. inoltre Cass. lav. n. 23949 del 22/10/2013, secondo cui in tema di domanda di risarcimento danni derivanti da attività di dequalificazione e mobbing del datore di lavoro, deve ritenersi domanda nuova – e come tale preclusa in appello – quella volta ad accertare comportamenti posti in essere dal datore di lavoro dopo il deposito del ricorso introduttivo del giudizio in primo grado, in quanto la domanda giudiziale si basa su uno specifico accadimento, produttivo di danni, determinato nel tempo e nello spazio. Ne consegue che, in relazione ai fatti verificatisi dopo il deposito del ricorso in primo grado, non può essere ammessa alcuna attività istruttoria, poichè il disposto dell’art. 420 c.p.c., comma 5, si riferisce ai mezzi di prova relativi a fatti comunque anteriori al deposito del ricorso. Analogamente, secondo Cass. lav. n. 10045 del 15/11/1996, la richiesta di risarcimento del danno formulata con il ricorso introduttivo di causa di lavoro presuppone una “causa petendi” identificabile in uno specifico accadimento lesivo spazialmente e temporalmente determinato, sicchè una volta che essa sia stata proposta in relazione a determinati fatti, la contestuale formulazione di altra richiesta risarcitoria riferita a fatti, sia pur omogenei rispetto a quelli precedenti, che dovessero verificarsi nelle more del giudizio, non introduce alcuna valida domanda, nè, una volta che tali fatti si siano verificati, può legittimare alla sua proposizione in corso di giudizio. Di conseguenza, la richiesta di ristoro del danno per fatti sopravvenuti in corso di causa comporta un non consentito mutamento della primitiva domanda, donde l’inammissibilità della stessa anche in appello, senza che, in contrario, possa argomentarsi dalla deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento ai danni sofferti dopo la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 1, trovando tale norma applicazione unicamente quando nel giudizio di primo grado sia stato richiesto il risarcimento del danno maturato in precedenza, e giustificandosi detta deroga soltanto nel presupposto che si incrementino le sole conseguenze dannose del medesimo fatto generatore posto a fondamento della pretesa senza che gli ulteriori danni siano ricollegabili a fatti nuovi e diversi);

parimenti, va disatteso il secondo motivo di ricorso, soprattutto per effetto del rilevato difetto di autosufficienza, che preclude quindi, comunque, la possibilità di accesso diretto agli atti processuali in questa sede di legittimità al fine di poter verificare il denunciato error in procedendo per l’asserita omessa applicazione dell’art. 437 c.p.c.; invero, nel rito del lavoro, la parte ricorrente che denunci in cassazione il mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio nel giudizio di merito, deve riportare in ricorso gli atti processuali dai quali emerge l’esistenza di una “pista probatoria” qualificata, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova, idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio (cfr. similmente Cass. lav. n. 7119 del 16/05/2002, secondo cui, in particolare, il ricorrente deve riportare in ricorso gli atti processuali dai quali emergeva l’esistenza di una “pista probatoria”, ossia l’esistenza di fatti o mezzi di prova idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività – rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l’officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito – e deve altresì allegare di avere nel giudizio di merito espressamente e specificamente richiesto l’intervento officioso, posto che, onde non sovrapporre la volontà del giudicante a quella delle parti in conflitto di interessi e non valicare il limite obbligato della terzietà, è necessario che l’esplicazione dei poteri istruttori del giudice venga specificamente sollecitata dalla parte con riguardo alla richiesta di una integrazione probatoria qualificata. Analogamente, secondo Cass. lav. n. 22534 del 23/10/2014, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. Conformi Cass. lav. n. 14731 del 26/06/2006 e n. 6023 del 12/03/2009. Similmente, secondo Cass. lav. n. 25374 del 25/10/2017, l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice ex artt. 421 e 437 c.p.c. non ha carattere discrezionale, ma costituisce un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è tenuto a dar conto; tuttavia, al fine di censurare idoneamente in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio, in quanto diversamente si introdurrebbe per la prima volta in sede di legittimità un tema del contendere totalmente nuovo rispetto a quelli già dibattuti nelle precedenti fasi di merito);

le carenze probatorie derivanti nel caso di specie dalle precedenti argomentazioni, con le quali vengono disattese, alla fine, istanze di carattere istruttorio, concernenti le questioni esaminate con i primi due motivi, appaiono ad ogni modo assorbenti rispetto alle doglianze espresse con la terza censura, che siccome formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 può inerire esclusivamente alle pretese violazioni di legge, senza perciò trasmodare in ricostruzioni dei fatti diverse rispetto a quanto sul punto ritenuto dai giudici di merito;

di conseguenza, rilevato alla luce di quanto accertato in sede di merito, con l’esclusione in particolare, del necessario elemento soggettivo, tale da poter configurare nella specie integrata la condotta mobbizzante ipotizzata da parte attrice, va ricordato il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui sul datore di lavoro gravano sia il generale obbligo di “neminem laedere” espresso dall’art. 2043 c.c. (la cui violazione è fonte di responsabilità extracontrattuale), sia il più specifico obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore sancito dall’art. 2087 c.c. ad integrazione “ex lege” delle obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (la cui violazione determina l’insorgenza di una responsabilità contrattuale). Conseguentemente, il danno biologico – inteso come danno all’integrità psico-fisica della persona in sè considerata, a prescindere da ogni possibile rilevanza o conseguenza patrimoniale della lesione – può in astratto conseguire sia all’una che all’altra responsabilità. Qualora la responsabilità fatta valere sia quella contrattuale, dalla natura dell’illecito (consistente nel lamentato inadempimento dell’obbligo di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore) non deriva affatto che si versi in fattispecie di responsabilità oggettiva (fondata sul mero riscontro del danno biologico quale evento legato con nesso di causalità all’espletamento della prestazione lavorativa), ma occorre pur sempre l’elemento della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza. La necessità della colpa – che accomuna la responsabilità contrattuale a quella aquiliana – va poi coordinata con il particolare regime probatorio della responsabilità contrattuale, che è quello previsto dall’art. 1218 c.c. (diverso da quello di cui all’art. 2043 c.c.), cosicchè grava sul datore di lavoro l’onere di provare di aver ottemperato all’obbligo di protezione, mentre il lavoratore deve provare sia la lesione all’integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa (Cass. lav. n. 4184 del 24/02/2006, conformi id. n. 12763 del 21/12/1998, n. 5491 del 02/05/2000 e n. 23162 del 07/11/2007.

Cfr. parimenti Cass. lav. n. 8911 del 29/03/2019, secondo cui la responsabilità del datore di lavoro per inadempimento dell’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 c.c. non è una responsabilità oggettiva, ma colposa, dovendosi valutare il difetto di diligenza nella predisposizione delle misure idonee a prevenire danni per i lavoratori, in relazione all’attività lavorativa svolta, non potendosi esigere la predisposizione di misure idonee a fronteggiare ogni causa di infortunio, anche quelle imprevedibili.

V. altresì Cass. lav. n. 26495 del 19/10/2018: l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno. Conformi Cass. lav. n. 24742 in data 8/10/2018, n. 18626 del 5/8/2013 e n. 2038 del 29/01/2013);

per giunta, risultando, dalla sentenza impugnata, la domanda di risarcimento danni, a suo tempo avanzata dall’attrice, fondata espressamente sull’asserito mobbing, dedotto nei confronti della convenuta parte datoriale, nemmeno risultava sufficiente al riguardo una condotta meramente colposa, occorrendo la dimostrazione (mancata e comunque non ravvisata dai giudici di merito nelle allegazioni prospettate dall’istante Dott.ssa N.) di un apposito e più inteso elemento psichico (cfr. Cass. n. 3785 del 17/02/2009: per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Cfr. altresì Cass. lav. n. 26684 del 23/05 – 10/11/2017, laddove, richiamata in motivazione la necessità pure dell’elemento psichico “cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi” (Cass. 6.8.2014 n. 17698 e fra le più recenti Cass. 24.11.2016 n. 24029)”, ha osservato come, quindi, l’elemento qualificante debba ricercarsi già non nella legittimità o illegittimità dei singoli atti, bensì nell’intento persecutorio che li unifica, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria e che spetta al giudice del merito accertare o escludere, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto. A tal fine la legittimità dei provvedimenti può rilevare, ma solo indirettamente perchè, ove facciano difetto elementi probatori di segno contrario, può essere sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo, che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata. Parimenti, la conflittualità delle relazioni personali esistenti all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Cass. lav. n. 12437 del 21/05/2018: è configurabile il “mobbing” lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo);

analogamente, inoltre, a quanto già rilevato da Cass. lav. con sentenza n. 30807 in data 26/06 – 28/11/2018, in occasione di altro precedente in tema di mobbing, è inammissibile anche la denunciata mancata osservanza della recente giurisprudenza in materia di straining (punto 3.1 sub. terzo motivo di ricorso alle pagine 12, 13 e 14), ossia di una situazione di stress, comunque addebitabile a responsabilità del datore di lavoro. Invero, anche nel caso qui in esame l’anzidetta doglianza prospetta una questione, implicante accertamenti di fatto, ai quali non fa minimo cenno la sentenza impugnata, sicchè la ricorrente, al fine di evitare la statuizione di inammissibilità per novità della censura, aveva “l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa” (in tal sensi Cass. II civ. n. 8206 del 22/04/2016, conforme Cass. n. 25546 del 2006), soprattutto per quanto concerne le deduzioni rappresentate con il ricorso d’appello, a suo tempo depositato, per contro non riprodotto in violazione dell’art. 366 c.p.c. (specialmente sub co. I n. 6 – v. in particolare la laconicità del ricorso a pag. 5 sul punto: “Avverso detta pronuncia proponeva ricorso la Dott.ssa N. chiedendo la totale riforma della sentenza di primo grado”);

pertanto, il ricorso va respinto con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese;

atteso l’esito negativo dell’impugnazione, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, a favore di parte controricorrente, nella misura di complessivi Euro 5000,00 (cinquemila/00), per compensi ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2019

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