Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33380 del 27/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 27/12/2018, (ud. 25/10/2018, dep. 27/12/2018), n.33380

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19179/2013 proposto da:

RESIDENCE (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA C. COLOMBO 440, presso lo studio dell’avvocato ISABELLA TASSONI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANNA MARINO;

– ricorrente –

contro

D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO EMILIO,

34, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO D’ATRI, rappresentato e

difeso dagli avvocati AGATINO SCARINGI, MARIA GRAZIA PASSALACQUA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2140/2012 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 17/01/2013 R.G.N. 2785/2010.

Fatto

RILEVATO

che:

1. D.M. adiva il Giudice del lavoro del Tribunale di Trapani per ottenere, nei confronti del “Residence (OMISSIS)”, l’accertamento del diritto alla trasformazione dei plurimi contratti di lavoro a progetto stipulati con il suddetto Ente in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dal primo contratto, a motivo della non sussumibilità di tali contratti nella relativa fattispecie legale descritta dal D.Lgs. n. 276 del 2003.

2. Il Giudice adito accoglieva la domanda e disponeva la conversione D.Lgs. n. 276 del 2003, ex art. 69, del rapporto, disattendendo – per difetto di prova – la difesa del datore di lavoro che aveva dedotto la propria natura pubblicistica e la conseguente applicabilità del divieto di conversione di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5.

3. Tale sentenza – per quanto qui ancora rileva – veniva impugnata dal “Residence (OMISSIS)” che censurava l’intervenuto disconoscimento della propria natura pubblicistica.

4. La Corte di appello di Palermo rigettava l’appello. Premetteva che, nell’esercizio della potestà legislativa esclusiva prevista dall’art. 14, lett. M) del proprio Statuto, la Regione Siciliana aveva emanato la L.R. n. 22 del 1986. Richiamata la sentenza n. 396 del 1988 della Corte costituzionale, nonchè l’assetto normativo scaturito dalla legge quadro per la realizzazione del sistema integrato dei servizi sociali n. 328 del 2000 e dal D.Lgs. n. 207 del 2001, osservava che la disciplina del riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza ne aveva previsto la trasformazione, alle condizioni espressamente previste, in aziende pubbliche di servizi ovvero in persone giuridiche di diritto privato, precisando che “Le Regioni a statuto speciale e la Province autonome di Trento e Bolzano provvedono ai sensi degli statuti di autonomia e delle relative norma di attuazione”; che non risultava che il legislatore regionale si fosse attivato dopo gli interventi normativi statali sopra citati; che dunque il quadro normativo applicabile smentiva l’affermazione dell’appellante secondo cui le IPAB in Sicilia avrebbero natura pubblica per legge, dovendo il relativo accertamento essere compiuto tenendo conto delle concrete caratteristiche dell’istituzione, desunte dal relativo atto costitutivo e dallo statuto dell’ente e applicati i criteri di cui al D.P.C.M. 16 febbraio 1990, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza di carattere regionale ed infraregionale.

4.1. Tanto premesso, rilevava che il relativo onere probatorio – gravante sulla parte che ha interesse all’affermazione della natura pubblica dell’ente e che pertanto deve dimostrare gli elementi al riguardo rilevanti circa l’origine, la struttura e le normali fonti di finanziamento del medesimo – non era stato assolto dall’appellante, che aveva omesso di depositare nel giudizio di primo grado lo statuto e gli altri documenti eventualmente dimostrativi della propria asserita natura pubblicistica, dedotta fin dalla memoria di costituzione nel giudizio di primo grado. Precisava che tale produzione non poteva essere autorizzata in appello, essendo palesemente inammissibile per tardività; nè il carattere pubblicistico dell’ente poteva essere desunto dalla mera circostanza che l’originario ricorrente avesse richiesto il trattamento retributivo previsto dal CCNL enti locali..

5. Per la cassazione di questa sentenza il “Residence (OMISSIS)” ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. L’intimato ha proposto controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Il primo motivo denuncia violazione della L.R. Sicilia 9 maggio 1986, n. 22 e dell’art. 14 dello Statuto della medesima Regione. Il secondo motivo, connesso al primo, denuncia violazione e falsa applicazione della L.R. Sicilia n. 22 del 1986, art. 30 e del D.P.C.M. 16 febbraio 1990, contenente la direttiva alle Regioni in materia di riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza.

1.1. Con i due motivi di ricorso si deduce che, nell’ambito della propria competenza legislativa esclusiva, la Regione Sicilia con la L. n. 22 del 1986, aveva disciplinato il riordino dei servizi delle attività socio-assistenziali della Regione e all’art. 30, aveva previsto la privatizzazione di tutte le IPAB impropriamente classificate come tali, disponendo che gli enti non privatizzati venissero dichiarati IPAB con provvedimento declaratorio avente carattere di atto definitivo, mantenendo così la loro personalità di diritto pubblico. Di conseguenza, nella Regione Sicilia tutte le istituzioni che hanno ricevuto la declaratoria di IPAB per decreto assessoriale hanno natura giuridica pubblica e tra queste rientra l’ente ricorrente, come risultante dall’art. 1 del suo Statuto. Si soggiunge che la Corte costituzionale con la sentenza 7 aprile 1988, n. 396 aveva indicato nella L.R. Sicilia n. 22 del 1986, art. 30, il referente normativo da assumere come punto di riferimento per l’accertamento in questione, ma la Corte di appello non aveva tenuto conto di tale circostanza, ossia che la Regione Sicilia era intervenuta a regolare la materia ancor prima del legislatore nazionale con la L. n. 22 del 1986 e che il D.P.C.M. 16 febbraio 1990, lasciava alla Regione il compito di verificare in concreto la sussistenza degli elementi rivelatori della natura della suddetta personalità.

1.2. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 35 e D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2. Si assume che, anche a voler considerare provata la natura subordinata del rapporto di lavoro dedotto in giudizio, era stato violato il principio costituzionale che dispone che l’accesso al pubblico impiego deve avvenire tramite concorso.

1.3. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c.. Si sostiene il carattere decisivo del fatto che era stato lo stesso lavoratore a chiedere l’applicazione del CCNL enti locali.

2. Le censure sono inammissibili.

3. Il problema della natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza venne affrontato, con la sentenza 7 aprile 1988, n. 396, dalla Corte costituzionale, la quale dichiarò l’illegittimità della L. 17 luglio 1890, n. 6972, art. 1, che definiva “pubbliche” le istituzioni regionali ed infraregionali di assistenza e beneficenza, osservando che la detta normativa appariva, ormai, contraria ai principio pluralistico cui si ispira la Costituzione, oltre che alla nuova realtà sociale. In questo mutato contesto le istituzioni di assistenza e beneficenza non potevano che essere considerate pubbliche o private a seconda delle specifiche caratteristiche organizzative e strutturali in concreto sussistenti.

3.1. Detta sentenza indusse questa Corte a ritenere: a) che fosse compito del giudice ordinario l’accertamento della natura pubblica o privata dell’istituzione già appartenuta a quelle di assistenza disciplinate dalla L. n. 6972 del 1890; b) che l’accertamento stesso dovesse essere compiuto tenendo conto delle concrete caratteristiche proprie delle istituzioni prese in considerazione e facendo ricorso ai criteri tradizionalmente indicati dalla giurisprudenza ai fini della distinzione tra enti pubblici e privati, a prescindere dalle denominazioni assunte e dalla stessa volontà degli organi direttivi (v. in tal senso Cass. S.U. n. 30176 del 2011 e precedenti della Corte ivi citati).

4. In tale contesto è sopravvenuta la L. n. 328 del 2000, che all’art. 10 ha delegato il Governo ad adottare una nuova disciplina delle Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) di cui alla L. 17 luglio 1890, n. 6972. Il D.Lgs. n. 207 del 2001, ha attuato la delega, prevedendo che le istituzioni siano riordinate in aziende pubbliche di servizi alla persona o in persone giuridiche di diritto privato. Tale legge ha previsto l’abrogazione della disciplina relativa alle IPAB prevista dalla L. 17 luglio 1890, n. 6972, e dai relativi provvedimenti di attuazione, stabilendo che “Nel periodo transitorio previsto per il riordino delle istituzioni, ad esse seguitano ad applicarsi le disposizioni previgenti, in quanto non contrastanti con i principi della libertà dell’assistenza, con i principi della legge e con le disposizioni del presente decreto legislativo” (art. 21). Ha poi specificamente previsto, all’art. 22 dello stesso decreto, dettato per le regioni a statuto speciale e per le province autonome di Trento e Bolzano, che “Le Regioni a statuto speciale e le Province autonome di Trento e Bolzano provvedono ai sensi degli statuti di autonomia e delle relative norme di attuazione”.

5. Nel caso in esame è circostanza pacifica in giudizio che, nel periodo oggetto della pretesa azionata in giudizio da D.M., il legislatore regionale siciliano non avesse provveduto ad emanare atti attuativi della riforma. Invero, lo stesso odierno ricorrente articola i motivi di impugnazione sull’assunto della perdurante vigenza dell’assetto ordinamentale previgente alla riforma, muovendo dall’implicito presupposto della necessità di un intervento del legislatore regionale siciliano di espresso recepimento alla luce della potestà legislativa contemplata dal proprio Statuto regionale.

6. La Corte di appello, dopo avere correttamente rilevato che le ex IPAB non hanno necessariamente natura pubblica, ha ritenuto, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, che gravava sulla parte che aveva interesse a dimostrare la natura pubblica dell’ente l’onere di provare gli elementi al riguardo rilevanti circa origine, struttura e normali fonti di finanziamento del medesimo e che a tal fine non si poteva prescindere dalle risultanze statutarie dell’ente.

6.1. Difatti, in relazione alla natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 396 del 1988, la natura pubblica o privata di tali istituzioni deve essere accertata, in concreto, dal giudice ordinario (cfr. S.U. 1151 del 2012). Con riferimento a tale verifica, più volte nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato che la produzione dello statuto dell’ente convenuto costituisce la prova essenziale posta a carico dalla parte interessata per dimostrare l’asserita natura pubblica (cfr. Cass. Sez. Unite n. 8053/1997, secondo cui “a tale fine probatorio non si può prescindere dalle risultanze statutarie”) e sono stati rigettati i ricorsi avverso le pronunce dei giudici di merito che avevano affermato la natura privata dell’ente in difetto di tale dimostrazione, atteso che la circostanza che una istituzione operi sotto un rilievo pubblicistico e sociale non è di per sè sufficiente per la sua qualificazione come ente pubblico (cfr. anche Cass. n. 3679 del 2009).

7. Nel caso in esame, le censure svolte nel ricorso per cassazione non si confrontano con i passaggi argomentativi posti a fondamento del decisum, ossia con la affermata tardività e inammissibilità della produzione documentale in appello, con particolare riferimento allo statuto dell’ente.

8. Quanto poi al riferimento, fatto dall’originario ricorrente, alla contrattazione collettiva degli enti locali, la Corte di appello ha escluso che tale circostanza potesse costituire ammissione della natura pubblicistica del datore di lavoro; ha quindi ritenuto un argomento non decisivo la richiesta di applicazione di un determinato parametro retributivo, giudicando dirimente il mancato assolvimento dell’onere probatorio gravante sull’appellante.

8.1. Al riguardo, giova osservare che l’apprezzamento delle risultanze istruttorie implica accertamenti di fatto di competenza del giudice di merito, sottratti al giudizio di legittimità. Il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito è configurabile come errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame (cfr. Cass. n. 24434 del 2016, e 14267 del 2006; Cass. 23940 del 2017).

9. L’esame del terzo motivo postula l’accoglimento dei precedenti (e quindi resta assorbito), in quanto si incentra sull’osservanza del principio del pubblico concorso che governa l’accesso agli impieghi alle dipendenze della P.A., mentre nel caso di specie è stata riconosciuta la natura privata dell’ente e del rapporto di lavoro intrattenuto con esso dall’odierno controricorrente.

10. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile per difetto di specificità (art. 366 c.p.c.), con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

11. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dell’istituzione ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17. Si tratta di una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 25 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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