Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33377 del 27/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 27/12/2018, (ud. 24/10/2018, dep. 27/12/2018), n.33377

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24177-2013 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE DELLE BELLE

ARTI n. 8, presso lo studio dell’avvocato ANTONINO PELLICANO’, che

la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE di MESSINA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

G. BAZZONI n. 3, presso lo studio dell’avvocato ANDREA ACCARDO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ARTURO MERLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1638/2012 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata 1’11/10/2012, R.G.N. 621/2008.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte di Appello di Messina ha respinto l’appello proposto da G.R. avverso la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato le domande volte ad ottenere: l’accertamento dell’illegittimità della sospensione cautelare dal servizio disposta dall’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina il 5 gennaio 2001; la condanna della resistente al pagamento delle differenze retributive maturate nel periodo di sospensione; il risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, derivati dall’illegittima sospensione nonchè dalla condotta vessatoria subita a far tempo dal giugno 2000;

2. la Corte territoriale ha evidenziato, in sintesi, che il provvedimento di sospensione era stato adottato dall’Azienda nel rispetto delle condizioni richieste dall’art. 30 del CCNL 1998/2001 per la dirigenza medica e veterinaria del servizio sanitario nazionale ed ha precisato che la sospensione era stata motivata in relazione alla gravità dei fatti contestati, connessi con l’espletamento del servizio ed accertati in sede penale dalla sentenza di primo grado che, sebbene soggetta ad impugnazione, aveva riconosciuto la colpevolezza della G.;

3. il giudice d’appello ha aggiunto che nessun rilievo poteva avere la -successiva assoluzione dalle accuse penali, giacchè quest’ultima non valeva a rendere illegittima la sospensione a suo tempo validamente disposta, rilevando solo ai fini della riammissione in servizio, nella specie tempestivamente avvenuta;

4. la Corte ha evidenziato, inoltre, che il principio di immediatezza della contestazione va inteso in senso relativo e va coordinato con le esigenze di accertamento del fatto, sicchè è legittimo il comportamento dell’amministrazione che, a garanzia dei diritti dell’accusata, attenda la pronuncia di primo grado per disporre la sospensione;

5. la Corte messinese, infine, ha respinto anche la domanda risarcitoria perchè, da un lato, l’azienda non poteva rispondere di danni asseritamente derivati da atto legittimo, dall’altro non era stata data la prova della condotta vessatoria subita dalla G., essendo al contrario emerso che la procedura per il trasferimento era stata avviata in considerazione dell’inidoneità dell’appellante a svolgere le attività stressanti tipiche del servizio di medicina trasfusionale;

6. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso G.R. sulla base di cinque motivi, illustrati da memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c., ai quali l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. il primo motivo del ricorso denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, “illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 30 e 36 C.C.N.L. della Dirigenza Medica e Veterinaria 1994/1997 – illegittimità per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. nell’interpretazione delle norme collettive di cui agli artt. 30 e 36 C.C.N.L. della Dirigenza Medica e Veterinaria 1994/1997 – carenza assoluta di motivazione contraddittorietà manifesta – travisamento dei fatti”;

1.1. la ricorrente sostiene, in estrema sintesi, che la sospensione facoltativa prevista dalle disposizioni contrattuali richiamate in rubrica va disposta, eventualmente, nella immediatezza del rinvio a giudizio perchè la misura è giustificata solo qualora la permanenza nel posto di lavoro del dipendente sottoposto a procedimento penale possa ledere il prestigio e la funzionalità dell’amministrazione;

1.2. il tempo trascorso dal momento della conoscenza dei fatti è sufficiente a dimostrare il carattere arbitrario e vessatorio dell’atto, evidentemente disposto per altre ragioni, in quanto la G. aveva continuato a svolgere regolarmente il proprio servizio per tutta la durata del processo penale di primo grado;

1.3. aggiunge la ricorrente che, in ogni caso, non era sufficiente la sentenza di condanna per giustificare la sospensione perchè i disservizi rilevati presso il centro trasfusionale dell’Ospedale di (OMISSIS) erano dovuti a carenze strutturali e di personale, più volte segnalate, tanto che proprio in considerazione di ciò in sede penale erano state riconosciute le attenuanti generiche;

1.4. i giudici di merito, inoltre, avrebbero dovuto considerare che la vicenda penale si riferiva a condotte risalenti nel tempo, già cessate al momento della sospensione, ed inoltre avrebbero dovuto valorizzare la successiva assoluzione da tutte le accuse, intervenuta in pendenza del giudizio di primo grado;

2. con la seconda critica, formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, si addebita alla sentenza impugnata “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 3 del 1957, art. 97 – illegittimità per omessa decisione – difetto assoluto di motivazione”;

2.1. la ricorrente sostiene che a seguito della sentenza penale di assoluzione l’amministrazione avrebbe dovuto revocare il provvedimento di sospensione e non limitarsi a disporre la riammissione in servizio ed avrebbe inoltre dovuto provvedere all’integrale ricostruzione della carriera in termini sia giuridici che economici;

2.2. la questione era stata devoluta al giudice d’appello con il quarto motivo di gravame, sul quale la Corte territoriale non aveva statuito, incorrendo nel vizio di omessa pronuncia;

3. la terza critica denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, “illegittimità per carenza assoluta di motivazione” in quanto la Corte d’appello non poteva limitarsi a fare leva sulla legittimità della sospensione per respingere la domanda di risarcimento del danno, avendo l’appellante dedotto che l’amministrazione, pur avendo provveduto a liquidare le differenze retributive maturate nel periodo di durata della sospensione dal servizio, non aveva integralmente ottemperato a quanto statuito dal giudice del reclamo, non avendo corrisposto la rivalutazione monetaria e gli interessi legali maturati;

3.1. aggiunge la G. che, in considerazione dell’illegittimità della sospensione, dovevano essere risarciti: il danno biologico, il danno alla professionalità e all’immagine, il danno morale, il danno esistenziale e alla vita di relazione;

4. con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, la ricorrente si duole della violazione e falsa e applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè del difetto assoluto di motivazione e sostiene che la decisione non poteva essere fondata sulla testimonianza di P.F. in quanto a quest’ultimo era stato deferito l’interrogatorio formale, essendo all’epoca Direttore Generale dell’Azienda;

4.1. non poteva il Tribunale disporre d’ufficio la trasformazione della prova, perchè quest’ultima è rimessa alla disponibilità delle parti, ed inoltre ogni mezzo risponde a regole sue proprie;

4.2. rileva, infine, la ricorrente che la qualità rivestita dal P. doveva essere considerata ai fini della valutazione sull’attendibilità del teste, sicchè non poteva la Corte fondare la pronuncia di rigetto sulle dichiarazioni rese da quest’ultimo senza neppure rispondere alle doglianze espresse nel gravame;

5. la quinta critica denuncia “illegittimità per carenza assoluta di motivazione-omessa decisione” perchè andava ritenuta provata la condotta vessatoria tenuta dai vertici della azienda nei confronti della ricorrente, alla quale era stato innanzitutto proposto un trasferimento d’ufficio alla medicina dei servizi, sicchè la sospensione altro non era se non uno strumento per attuare l’allontanamento della dipendente dal posto di lavoro, non ottenuto con altri mezzi;

5.1. i giudici di merito, inoltre, avrebbero dovuto valorizzare i comportamenti “poco amichevoli” tenuti dal direttore generale dell’azienda, che integravano atti di prevaricazione se non addirittura persecuzione del dipendente;

6. preliminarmente occorre ribadire che nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo (cfr. fra le più recenti Cass. n. 27938/2018 e Cass. n. 27224/2018) sicchè nella specie non può produrre alcun effetto il decesso della ricorrente, dichiarato dal difensore nella memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c.;

7. il primo motivo è infondato, nella parte in cui denuncia la violazione e l’errata interpretazione dell’art. 30 del CCNL 5.12.1996 per la dirigenza dell’area medica e veterinaria del servizio sanitario nazionale ed è inammissibile per il resto;

7.1. occorre premettere che la sospensione cautelare, che ha natura strumentale e non sanzionatoria, non è condizionata, quanto alla validità, dalle regole che disciplinano l’esercizio del potere disciplinare perchè la stessa, che non richiede il previo contraddittorio con l’interessato, trova, nell’impiego pubblico contrattualizzato, la sua ratio nella necessità di tutelare la “credibilità dell’amministrazione presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, che può rischiare di essere incrinato dall’ombra gravante su di essa a causa dell’accusa da cui è colpita una persona attraverso la quale l’istituzione stessa opera” (Corte Cost. n. 206/1999);

7.2. è alla luce di detta ratio che vanno interpretate le disposizioni dettate dalle parti collettive e, nel caso di specie, l’art. 30 del CCNL richiamato nel punto che precede, con il quale si è consentito all’amministrazione di sospendere dal servizio, fino alla sentenza penale definitiva, il dirigente rinviato a giudizio “per fatti e comportamenti, anche estranei alla prestazione lavorativa, che siano di tale gravità da risultare incompatibili con la presenza in servizio”;

7.3. la disposizione si limita a richiedere, quale condizione di validità della misura, il preliminare vaglio di fondatezza dell’accusa, espresso dall’autorità giudiziaria penale attraverso il rinvio a giudizio, ma non impone l’immediata adozione della misura stessa al sorgere della condizione ivi prevista e, quindi, non impedisce all’ente di attendere l’esito del giudizio di primo grado, e di ritenere sussistenti le esigenze cautelari solo a fronte della pronuncia di condanna, sia pure non definitiva;

7.4. l’assunto della ricorrente, secondo cui il tempo trascorso dal rinvio a giudizio sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza delle esigenze cautelari, è privo di fondamento contrattuale e normativo ed è smentito dal legislatore che, nel dettare la disciplina della sospensione in relazione ai reati di maggiore gravità commessi dai dipendenti pubblici, ha ritenuto, con la L. n. 97 del 2001, artt. 3 e 4 di imporre la sospensione, solo facoltativa dopo il rinvio a giudizio, in caso di condanna non definitiva, sul presupposto che quest’ultima accresca le esigenze cautelari, minando la credibilità dell’amministrazione che continui ad avvalersi delle prestazioni del dipendente, nonostante l’avvenuto riconoscimento della colpevolezza, all’esito del giudizio di primo grado;

7.5. la normativa in parola, seppure non applicabile alla fattispecie, conferma che la sospensione, in quanto misura cautelare e non sanzionatoria, non deve essere necessariamente disposta nell’immediatezza della conoscenza dei fatti di rilievo disciplinare e, pertanto, legittima la condotta dell’amministrazione che, pur potendo avvalersi della facoltà già al momento del rinvio a giudizio, preferisca attendere, a maggiore tutela del dipendente, il vaglio dibattimentale delle accuse penali;

7.6. il motivo, poi, è infondato anche nella parte in cui pretende di far discendere dalla successiva assoluzione in sede penale, nella specie intervenuta in corso di causa, l’illegittimità della misura cautelare;

7.7. al riguardo va, infatti, osservato che la legittimità del provvedimento deve essere valutata al momento della sua adozione e, quindi, il giudice è chiamato ad accertare se a quella data sussistevano le condizioni richieste dalle parti collettive per il valido esercizio del potere di allontanamento del dipendente dal servizio;

7.8. le vicende penali successive non possono valere a rendere illegittimo un provvedimento cautelare adottato dal datore di lavoro in presenza dei presupposti tutti richiesti dal CCNL, perchè non è configurabile inadempimento nei casi in cui la condotta si sia conformata alle disposizioni di legge e di contratto che disciplinano il rapporto;

7.9. la tutela del dipendente, in detta ipotesi, resta circoscritta a quanto previsto dalle stesse parti collettive e, quindi, alla riammissione in servizio con diritto a percepire il trattamento retributivo che sarebbe spettato qualora il provvedimento cautelare non fosse stato adottato;

7.10. correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha escluso che la sentenza di assoluzione, tra l’altro intervenuta quando già la G. aveva adito l’autorità giudiziaria per contestare la legittimità della sospensione, potesse rilevare ai fini dell’accoglimento delle domande volte ad ottenere la dichiarazione di nullità dell’atto e la condanna della ASP al risarcimento dei danni;

7.11. per il resto il motivo, nella parte in cui insiste nel sostenere che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, non sussistevano esigenze cautelari idonee a giustificare la misura adottata, è inammissibile, sia perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4 (non risultano trascritti nel ricorso il provvedimento di sospensione, la sentenza penale di condanna, la pronuncia di assoluzione, nè vengono fornite indicazioni puntuali circa i tempi ed i modi della produzione documentale), sia perchè è volto a sollecitare una revisione del giudizio di merito, non consentita in sede di legittimità;

7.12. la sentenza impugnata risulta pubblicata l’11 ottobre 2012, sicchè l’ammissibilità della censura va valutata in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, applicabile ratione temporis;

7.13. il richiamato art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attuale, non riguarda la motivazione della sentenza ma concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo nel senso che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia;

7.14. l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti;

7.15. il motivo, quindi, è validamente formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 solo qualora il ricorrente indichi il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”;

7.16. dette condizioni non ricorrono nella fattispecie sicchè il ricorso si risolve in un’inammissibile critica della valutazione espressa dalla Corte territoriale, riservata al giudice del merito, sulla sussistenza delle esigenze cautelari che, alla data della sua adozione, legittimavano il provvedimento impugnato;

8. il secondo motivo, con il quale si insiste nel sostenere che doveva essere accolta la domanda di risarcimento del danno, alla luce dell’intervenuta sentenza di assoluzione, è infondato, oltre che per quanto si è già detto nei punti che precedono, anche perchè la ricorrente invoca il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 97 divenuto inapplicabile, a seguito della contrattualizzazione dell’impiego pubblico, al personale con qualifica dirigenziale del comparto sanità con decorrenza dal 6.12.1996 (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 71 e allegato b) 4, n. 1, lett. a);

8.1. la censura poi, nella parte in cui addebita alla sentenza impugnata il vizio di omessa pronuncia, non è scrutinabile alla luce della giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui, anche qualora venga dedotto un error in procedendo, rispetto al quale la Corte è giudice del “fatto processuale” condizione imprescindibile per l’esercizio del potere di esame degli atti è l’ammissibilità della censura ex art. 366 c.p.c., sicchè la parte non è dispensata dall’onere di indicare in modo specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti, provvedendo, inoltre, alla allegazione degli stessi o quantomeno a indicare, ai fini di un controllo mirato, i luoghi del processo ove è possibile rinvenirli (Cass. 4.7.2014 n. 15367, Cass. S.U. 22.5.2012 n. 8077; Cass. 10.11.2011 n.23420);

8.2. affinchè il vizio di omessa pronuncia possa essere validamente denunciato è, quindi, necessario che le istanze formulate nei gradi del giudizio di merito siano riportate nel ricorso per cassazione puntualmente, nei loro esatti termini e non genericamente ovvero per riassunto del loro contenuto, con l’indicazione specifica dell’atto difensivo nel quale erano state proposte, onde consentire al giudice di verificarne, in primis, la ritualità e la tempestività ed in secondo luogo la decisività delle questioni prospettate;

8.3. non è, invece, consentito il rinvio per relationem agli atti della fase di merito perchè la Corte di Cassazione, anche quando è giudice del fatto processuale, deve procedere solo ad una verifica degli atti stessi non già alla loro ricerca (Cass. n. 15367/2014; Cass. n. 21226/2010);

9. il terzo motivo è inammissibile, oltre che per le ragioni già evidenziate nei punti da 7.12. a 7.15, perchè svolge considerazioni non specificamente riferibili al decisum, atteso che la Corte territoriale non ha trattato la questione della effettiva sussistenza dei pregiudizi allegati dalla G., avendo escluso alla radice il diritto al risarcimento del danno, in ragione della legittimità del provvedimento di sospensione e della ritenuta insussistenza della condotta vessatoria denunciata;

10. analoghe considerazioni vanno espresse quanto alla quarta ed alla quinta censura, parimenti formulate senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione, già richiamati nei punti che precedono, e volta a sollecitare una diversa valutazione delle risultanze processuali, non consentita al giudice di legittimità;

10.1. questa Corte ha già affermato che “il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. n. 11892/2016);

10.2. nel caso di specie la Corte territoriale, sia pure con motivazione sintetica, ha escluso che fosse stata provata la denunciata condotta vessatoria e non ha fondato la decisione solo sulla deposizione del teste P.F., ma ha anche valorizzato la documentazione prodotta ed infine ha sottolineato, ed il rilievo risulta assorbente, che l’appellante non aveva offerto risultanze di segno contrario;

10.3. tutte le considerazioni che si leggono nel ricorso in realtà si limitano a riproporre una diversa lettura delle risultanze processuali e muovono da una ritenuta illegittimità del provvedimento di sospensione, in realtà insussistente, per le ragioni già evidenziate;

11. il ricorso, pertanto, deve essere rigettato con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

11.1. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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