Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33371 del 17/12/2019

Cassazione civile sez. I, 17/12/2019, (ud. 11/11/2019, dep. 17/12/2019), n.33371

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PERRICONE Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 34800/2018 R.G. proposto da:

M.B.A., rappresentato e difeso dall’avv. Maurizio

Sottile, con domicilio eletto presso il suo studio, sito in Cesena

(FC), viale Matteotti, 60;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto del Tribunale di Bologna, n. 3861/2018, depositato

il 22 ottobre 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio dell’11 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Paolo Catallozzi.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– M.B.A. propone ricorso per cassazione avverso il decreto del Tribunale di Bologna, depositato il 22 ottobre 2018, di reiezione dell’opposizione dal medesimo proposta avverso il provvedimento della Commissione Territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato di Bologna, sezione Forlì-Cesena, che aveva respinto la sua domanda per il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione umanitaria;

– dall’esame del decreto impugnato emerge che a sostegno della domanda il richiedente aveva allegato che era originario del Gambia, ove esercitava attività di informatore per conto del governo, e che aveva lasciato il suo Paese, giungendo prima in Burkina Faso, quindi, in Libia, e, infine, in Italia, in quanto non voleva più svolgere tale attività sia per la sua pericolosità, sia per pietà nei confronti delle persone che segnalava;

– aveva aggiunto che aveva tentato di lasciare il lavoro, ma il governo aveva reagito arrestandolo, torturandolo e intimandogli di tornare alla sua attività;

– aveva, infine, riferito che, a seguito del sopravvenuto cambiamento della compagine governativa, aveva timore che, in caso di rimpatrio, sarebbe stato ucciso sia dalle persone all’epoca al governo, sia da coloro che aveva contribuito a fare arrestare e, comunque, che il governo insediatosi lo avrebbe costretto a proseguire nel lavoro di informatore;

– il giudice ha disatteso l’opposizione evidenziando che non sussistevano delle condizioni per il riconoscimento delle protezioni internazionale e umanitaria richieste;

– il ricorso è affidato a due motivi.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– con il primo motivo del ricorso il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3 4,5,6 e D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, 14, artt. 8 e 27 e artt. 2 e 3, Convenzione EDU, per aver il Tribunale omesso di applicare il principio dell’onere della prova attenuato e, comunque, ritenuto inattendibile il racconto;

– con il medesimo motivo censura il difetto di motivazione, il travisamento dei fatti e l’omesso esame di fatti decisivi;

– il motivo è, quanto alla violazione di legge prospettata, infondato;

– occorre rilevare che il Tribunale ha espressamente condiviso la argomentata valutazione operata dalla Commissione territoriale in ordine alla non credibilità del racconto del richiedente, sottolineando la genericità dei fatti riferiti;

– ha, sul punto, osservato che il dichiarante non è stato in grado di descrivere nei dettagli gli episodi relativi all’arresto e al trasferimento delle strutture detentive, nonchè le modalità di reclutamento nell’agenzia segreta governativa e di espletamento dell’incarico, e di indicare chi fossero le persone che, in caso di rimpatrio, minacciassero la sua vita, i loro ruoli nella società e le ragioni specifiche che risiederebbero alla base del loro intenzioni;

– ha, inoltre, rilevato profili di incoerenza tra quanto riferito in sede amministrativa e il racconto reso dinanzi al Tribunale in ordine sia all’attività svolta dal padre, sia all’episodio in cui sarebbe stato scoperto nell’espletamento di un’operazione sotto copertura;

– ha, infine, evidenziato l’implausibilità del racconto, anche in considerazione della situazione politica all’epoca in essere in Gambia, nonchè all’assenza di un qualsiasi documento di riscontro del rapporto con l’agenzia di intelligence;

– orbene, in tema di protezione internazionale, il richiedente è tenuto ad allegare i fatti costitutivi del diritto alla protezione richiesta, e, ove non impossibilitato, a fornirne la prova, trovando deroga il principio dispositivo, soltanto a fronte di un’esaustiva allegazione, attraverso l’esercizio del dovere di cooperazione istruttoria e di quello di tenere per veri i fatti che lo stesso richiedente non è in grado di provare, soltanto qualora egli, oltre ad essersi attivato tempestivamente alla proposizione della domanda e ad aver compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla, superi positivamente il vaglio di credibilità soggettiva condotto alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, (cfr. Cass., ord., 12 giugno 2019, n. 15794);

– tale impostazione, riferita alla protezione internazionale nel suo complesso, si attaglia come tale tanto alla domanda volta al conseguimento dello status di rifugiato, quanto a quella diretta ad ottenere la protezione sussidiaria in ciascuna delle tre ipotesi contemplate dallo stesso D.Lgs., art. 14;

– ne consegue che, anche in relazione alla protezione sussidiaria, ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è necessario far luogo a un approfondimento istruttorio ulteriore, attivando il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice, dal momento che tale dovere non scatta laddove sia stato proprio il richiedente a declinare, con una versione dei fatti inaffidabile o inattendibile, la volontà di cooperare, quantomeno in relazione all’allegazione affidabile degli stessi (così, Cass., ord., 20 dicembre 2018, n. 33096);

– pertanto, la decisione del Tribunale di non attivare i poteri istruttori ufficiosi e di ritenere non credibile il racconto del richiedente si sottrae alla censura prospettata;

– quanto al vizio motivazionale denunciato, il motivo è inammissibile, difettando l’indicazione degli elementi fattuali non esaminati dal giudice di merito;

– con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi, per avere il Tribunale, con riferimento alla domanda per il riconoscimento della protezione umanitaria, negato la sussistenza dei relativi requisiti pur in presenza di una situazione di vulnerabilità personale e di un percorso integrativo messo in atto al suo arrivo in Italia;

– il motivo è infondato;

– deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (così, Cass., ord., 22 febbraio 2019, n. 5358);

– la condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (cfr. Cass. 15 maggio 2019, n. 13079; Cass., ord., 3 aprile 2019, n. 9304);

– con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455);

– infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza;

– tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (così, Cass., ord., 28 giugno 2018, n. 17072);

– orbene, il giudice ha escluso la sussistenza di siffatta condizione di vulnerabilità all’esito di una siffatta valutazione comparativa, ponendo in rilievo sia l’assenza “di un’esigenza umanitaria ovvero relativa diritti umani fondamentali tutelati dalla costituzione a livello internazionale”, sia la presenza nel paese di origine di tutti i suoi familiari, sia, infine, il mancato raggiungimento di un significativo inserimento sociale e lavorativo, avuto riguardo al fatto che il ricorrente era giunto sul territorio nazionale il 4 gennaio 2017 e aveva iniziato a lavorare l’8 ottobre 2018;

– così argomentando, ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto;

– il ricorso, pertanto, non può essere accolto;

– nulla va disposto in ordine al governo delle spese del giudizio, in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;

– sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 11 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2019

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