Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33310 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. lav., 21/12/2018, (ud. 18/10/2018, dep. 21/12/2018), n.33310

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17241-2014 proposto da:

R.U., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’Avvocato ERNESTO MARIA CIRILLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA SPA, in persona del legale rapp.te pt., elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio degli

Avvocati MAURIZIO MARAZZA e MARCO MARAZZA, che la rappresentano e

difendono sia congiuntamente che disgiuntamente giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5921/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 23/12/2013 R.G.N. 9224/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dal

Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

Fatto

RILEVATO

che, con la sentenza n. 5921/2013, la Corte di appello di Napoli ha confermato la pronuncia n. 9974/2012 emessa dal Tribunale della stessa città con la quale era stata rigettata la domanda proposta da R.U. nei confronti di Telecom Italia spa per ottenere, previo accertamento della illegittimità della condotta datoriale che lo aveva portato, a partire dal (OMISSIS), a seguito di assegnazione ad altro incarico aziendale rispetto a quello in precedenza ricoperto con inquadramento nel 6^ livello del vigente CCNL, qualifica coordinatore di settori operativi, alla drastica perdita di dequalificazione professionale, causata dallo svolgimento di mansioni prettamente di carattere esecutivo nell’ambito del settore vendite e, quindi, al conseguente demansionamento, la condanna della convenuta al risarcimento di tutti i danni oltre che alla adibizione a mansioni corrispondenti a quelle svolte precedentemente al demansionamento e corrispondenti al suo inquadramento;

che avverso la decisione di 2^ grado R.U. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi;

che la Telecom Italia spa ha resistito con controricorso, illustrato con memoria;

che il PG non ha formulato richieste scritte.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura: 1) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2735 c.c., anche in relazione agli artt. 2730 e 2734 c.c., dell’art. 2697c.c. e ss e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte di merito erroneamente effettuato il mutamento di qualificazione della testimonianza de relato partium dei testi S. e C. in prova testimoniale della confessione stragiudiziale da parte del R.: in particolare si deduce che i testimoni avevano, semmai, confermato la volontà del dipendente di cambiare attività lavorativa ma non quella di essere dequalificato; 2) ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., degli artt 99 e 112c.p.c., dell’art. 116 c.p.c., articolando i seguenti quesiti: a) “il divieto di demansionamento ex art. 2103 c.c., non può essere derogato dal datore di lavoro a meno che non vi sia il consenso del lavoratore. In quest’ultimo caso, il demansionamento deve, peraltro, costituire la sola ed unica alternativa al licenziamento, e il datore di lavoro è tenuto a verificare l’impossibilità di collocazione del dipendente in mansioni equivalenti.”; b) “per aversi confessione, ai sensi dell’art. 2730 c.c., occorre l’elemento soggettivo consistente nella consapevolezza e volontà della persona confitente di ammettere i fatti a se sfavorevoli e favorevoli alla controparte nonchè quello oggettivo equivalente all’effettiva capacità dei fatti narrati dal confitente di generargli pregiudizio e, corrispondente, vantaggio nei confronti dell’altro soggetto coinvolto nella fattispecie accertanda. Con la conseguenza che il difetto di entrambi o semplicemente, di uno dei detti elementi priva la dichiarazione del confidente del valore confessorio, quindi della sua utilità istruttoria”; “la capacità a testimoniare differisce dalla valutazione sull’attendibilità del teste, operando le stesse su piani diversi, atteso che l’una, ai sensi dell’art. 246 c.p.c., dipende dalla presenza in un interesse giuridico (non di mero fatto) che potrebbe legittimare la partecipazione del teste al giudizio, mentre la seconda afferisce alla veridicità della deposizione che il giudice deve discrezionalmente valutare alla stregua di elementi di natura oggettiva (la precisione e completezza della dichiarazione, le possibili contraddizioni, etc) e di carattere soggettivo (la credibilità della dichiarazione in relazione alle qualità personali, ai rapporti con le parti ed anche all’eventuale interesse ad un determinato esito della lite), con la precisazione che anche uno solo degli elementi di carattere soggettivo, se ritenuto di particolare rilevanza, può essere sufficiente a motivare una valutazione di inattendibilità”; c) nel processo civile, il divieto di decidere ultra (od extra) petita partium (ossia al di là delle richieste delle parti) costituisce un limite posto al potere decisionale del giudice. Ai sensi dell’art. 112 c.p.c., il giudice deve decidere su tutta la domanda e non oltre (o fuori) i limiti di essa, in applicazione del principio della necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato. Più precisamente, per la giurisprudenza, il vizio di ultra (o extra) petizione sussiste allorchè il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti e pronunciando oltre i limiti del petitum e delle eccezioni dedotte dalle parti, oppure su questioni non costituenti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuisce alle parti un bene non richiesto, cioè non compreso neppure implicitamente o virtualmente nella domanda proposta; 3) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 23 e 26 CCNL di categoria, per non avere la Corte territoriale correttamente interpretato le suddette disposizioni dalle quali si evinceva che l’elemento caratterizzante i lavoratori inquadrati nel livello 6 era il potere di coordinamento e direzione di altro personale, articolando sul punto il seguente quesito: “il CCNL del settore delle telecomunicazioni, visti gli artt. 23 (classificazione del personale) e 26 (orario di lavoro), deve essere interpretato nel senso che l’elemento caratterizzante i lavoratori inquadrati nel livello 6 sia il potere di coordinamento e direzione di altro personale”; 4) ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 414 c.p.c., in relazione all’art. 2697 c.c., art. 2103 c.c.e dell’art. 432 c.p.c. e art. 1226 c.c., per non avere erroneamente rilevato la Corte di appello la prova del danno subito sulla base di molteplici elementi, tutti validi ed efficaci, formulando al riguardo il seguente quesito: “E’ principio oramai acquisito alla giurisprudenza di questa Corte che in tema di demansionamento e di de qualificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno patrimoniale e non che asseritamente ne deriva – non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale – non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio e va dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, settore in cui si opera rispetto all’evoluzione tecnologica, anzianità di servizio, perdita di potere di coordinamento, conoscibilità all’interno e all’esterno del luogo di lavoro dell’operata de qualificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno”;

che, preliminarmente, va sottolineato che al presente giudizio non si applica l’art. 366 bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6 e contenente la previsione della formulazione del quesito di diritto, come condizione di ammissibilità del ricorso per cassazione, che concerne i ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2.3.2006 (data di entrata in vigore del menzionato decreto) e fino al 4.7.2009, data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, (cfr. Cass. 19.11.2014 n. 24597): ne consegue che i motivi saranno valutati alla stregua del contenuto sostanziale delle censure in essi articolate;

che il primo motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza: è inammissibile nella parte in cui si censura la valutazione della prova, operata dai giudici di seconde cure, perchè l’accertamento circa la sussistenza e l’idoneità di una prova a rendere verosimile il fatto allegato costituisce un apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato (cfr. Cass. 1.8.2001 n. 10484; Cass. 7.4.2003 n. 5434). Nella fattispecie in esame, la Corte territoriale ha attinto il proprio convincimento da quelle prove e risultanze ritenute maggiormente attendibili alla formazione dello stesso. In particolare, dopo essere state ritenute maggiormente attendibili, con argomentazioni congrue e corrette, le dichiarazioni dei testi S. e C., le stesse sono state qualificate come prova testimoniale della confessione stragiudiziale avendo avuto ad oggetto dichiarazioni rese da una parte contro sè stessa. Il motivo è, poi, infondato quanto alle denunziate violazioni di legge perchè correttamente le suddette dichiarazioni dei testi, contenenti una confessione stragiudiziale, non sono state valutate come prova legale (come la confessione giudiziale o stragiudiziale resa alla parte o a chi la rappresenta) ma come mero motivo unicamente idoneo a fondare una presunzione o ad integrare una prova manchevole (cfr. Cass. 11.4.2000 n. 4608; Cass. 14.122001 n. 15849): infatti, le dichiarazioni sono state valutate anche in considerazione “del contesto generale e del comportamento delle parti”;

che anche il secondo motivo è inammissibile lì dove, relativamente all’esistenza di un patto di demansionamento, si richiede una rivisitazione della ricostruzione dei fatti e si critica la motivazione perchè carente e contraddittoria, trattandosi di censure non sindacabili in sede di legittimità se non nei ristretti limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (cfr. Cass. 9.6.2014 n. 12928; Cass. n. 8053/2014), non superati nel caso in esame perchè la motivazione non è articolata su espressioni ed argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili; è invece infondato perchè comunque la doglianza muove da un presupposto che la Corte di merito ha escluso: cioè che nella fattispecie concreta l’assegnazione a nuovi compiti gestionali non aveva comportato alcun demansionamento, in quanto la perdita delle funzioni di coordinamento non determinava uno svuotamento delle mansioni corrispondenti all’inquadramento lavorativo del R. nell’ambito della declaratoria contrattuale di appartenenza (6^ livello), con la conseguenza che tutte le problematiche relative allo svolgimento di mansioni inferiori per evitare il licenziamento si dimostravano (e si dimostrano in questa sede) irrilevanti ed inconferenti;

che il terzo motivo è improcedibile perchè non risulta osservato l’onere del deposito del CCNL, le cui disposizioni sono state impugnate, previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, non essendo stato prodotto con il ricorso il testo integrale del contratto collettivo, adempimento rispondente alla funzione nomofilattica della Corte di Cassazione e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c., nè essendovi stata una puntuale indicazione del documento nell’elenco degli atti, ex art. 366 c.p.c., n. 6, necessario al reperimento degli stessi (cfr. Cass. 4.3.2015 n. 4350; Cass. 11.1.2016 n. 195);

che il quarto motivo è infondato perchè, da un lato, la Corte territoriale ha tenuto correttamente presente il principio di legittimità secondo cui il risarcimento del danno professionale, biologico ed esistenziale derivante da demansionamento e dequalificazione non ricorre automaticamente (cfr. Cass. n. 19785/2010; Cass. n. 6797/2013; Cass. 29047/2017) e, dall’altro, comunque ha dato atto che non era stata dimostrata una condotta datoriale lesiva dei diritti del R. il quale non aveva, pertanto, provato “l’an” ed il “quantum” del pregiudizio lamentato;

che, alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato;

che al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 18 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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