Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33305 del 17/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 17/12/2019, (ud. 24/09/2019, dep. 17/12/2019), n.33305

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26981/2018 R.G. proposto da

STUDIO AZIENDALE DI RAG. P.A. E C. S.A.S. fin persona del

legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Andrea

Bottone, con domicilio eletto in Roma, alla Via Garigliano 8, presso

l’avv. Nicola Maione.

– ricorrente –

contro

OFFICINA M.G. E C. S.N.C., in persona del legale

rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avv. Simone Giungi,

con domicilio eletto in Roma, Corso Vittorio Emanuele II, n. 18,

presso lo studio Grez e Associati s.r.l..

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 354/2018,

depositata in data 13.2.2018.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24.9.2019 dal Consigliere Dott. Fortunato Giuseppe.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Lo Studio Aziendale P. ha ottenuto un’ingiunzione di pagamento nei confronti della Officine M. s.n.c., per l’importo di Euro 207.000,00, a titolo di corrispettivo per le attività di consulenza ed assistenza svolte in una controversia tra la società resistente e il Consorzio Artigiani Sanminiatese riguardante l’assegnazione di un immobile.

Il compenso richiesto in via monitoria era stato calcolato in misura pari al 23% del valore dell’immobile oggetto di trasferimento, sulla base degli accordi intercorsi tra le parti del presente giudizio.

L’opposizione della società ingiunta è stata accolta dal tribunale di Pisa, che ha revocato l’ingiunzione e ha rideterminato le spettanze professionali in Euro 35.000,00, oltre accessori.

Su appello dello Studio aziendale, la Corte distrettuale di Firenze ha confermato la sentenza di primo grado, ritenendo, per quanto ancora rileva, che la clausola del contratto di incarico facesse riferimento non al valore commerciale del bene, ma a quello stabilito con l’atto di trasferimento dell’immobile in favore della debitrice, datato 18.12.2009.

La cassazione della sentenza è chiesta dallo Studio Aziendale P. in base ad un unico motivo di ricorso.

L’Officina M. ha depositato controricorso e memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Non merita adesione l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per aver la sentenza risolto le questioni di diritto in senso conforme alla giurisprudenza di questa Corte (art. 366 bis c.p.c., n. 1), poichè, per quanto si dirà, la lite è stata definita in fatto, su aspetti che concernono la corretta interpretazione degli accordi sul compenso perfezionati dalle parti e i criteri di liquidazione adottati.

2. Con l’unico motivo di ricorso si censura la violazione degli artt. 61,115 c.p.c. e art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 sostenendo che, al contrario di quanto ritenuto dal giudice di merito, il compenso professionale era stato concordato in misura pari ad una percentuale del 23% del valore effettivo dell’immobile da assegnare all’Officina M., non potendo prendersi in considerazione il minore importo stabilito con l’atto transattivo di assegnazione del bene in favore della resistente, poichè quest’ultima aveva tutto l’interesse a dichiarare un valore inferiore a quello di mercato, in modo da ottenere una consistente riduzione delle spettanze dovute alla società di consulenza.

Avendo inoltre le parti fatto esplicito riferimento alla tariffa professionale, occorreva considerare l’impegno profuso dalla società e il risultato economico conseguito dal cliente, risultato che coincideva con il valore effettivo del bene ottenuto in assegnazione. La Corte distrettuale avrebbe – inoltre – dovuto tener conto delle valutazioni effettuate dal perito di parte e verificarne la congruità mediante una c.t.u., che invece, del tutto illegittimamente e senza alcuna motivazione, non era stata espletata.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata, aderendo alle conclusioni raggiunte dal Tribunale, ha ritenuto che, con la clausola del contratto di incarico menzionata in ricorso, i contraenti avessero inteso far riferimento, quale base di calcolo del compenso, non ad un astratto valore commerciale dell’immobile, ma a quello risultante dall’atto di trasferimento di cui al rogito del 18.12.2009 (cfr. controricorso, pag. 8 e sentenza di primo grado).

Detto accertamento appare – esclusivamente – il frutto di un’attività interpretativa del contenuto della clausola e dunque dell’applicazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 e ss. c.c.), il cui corretto utilizzo non risulta oggetto di una specifica censura.

La ricorrente si è – difatti – limitata a proporre una diversa ricostruzione della volontà delle parti, con argomenti sganciati dalla disamina del tenore dell’accordo (valorizzando l’interesse della Officina M. a dichiarare un valore inferiore dell’immobile in modo da contenere l’importo dei compensi spettanti allo Studio Aziendale, il risultato utile conseguito dal cliente, la gravosità dell’impegno profuso), senza spiegare perchè il giudice avrebbe dovuto dovesse assumere – non in astratto, ma in base a quanto concretamente stabilito dai contraenti – il valore venale del terreno quale base di calcolo del corrispettivo.

Inoltre, la circostanza che il rogito di trasferimento del 18.12.2009 costituisse una transazione è oggetto di una deduzione che non trova riscontro nella sentenza impugnata e di cui il ricorso non indica dove e quando sia stata introdotta in causa.

Giova ribadire che la ricostruzione della volontà dei contraenti costituisce compito del giudice di merito, le cui valutazioni sono sindacabili per vizi di motivazione con riferimento alla violazione dei criteri di interpretazione.

La parte che censuri le conclusioni raggiunte in sentenza, non può limitarsi a proporre una lettura alternativa del contenuto negoziale, dovendo specificare in che punto e per quali ragioni siano state disattese le prescrizioni degli artt. 1362 c.c., a pena di inammissibilità del motivo di ricorso (Cass. s.u. 1914/2016; Cass. 25728/2013; Cass. 13587/2010).

2.1. Stabilito che le parti avevano specificamente fissato i criteri di quantificazione del compenso, agganciandoli al valore dichiarato nell’atto di trasferimento, non erano più utilizzabili le prescrizioni contenute nella tariffa professionale, invocabili solo in mancanza di un espresso accordo tra i contraenti, qualora il giudice avesse dovuto procedere autonomamente alla liquidazione, fermo peraltro che già il tribunale aveva dichiarato l’inutilizzabilità delle tariffe, rilevando che mancava l’iscrizione all’albo professionale, sia dello studio professionale che dei singoli professionisti associati (cfr. ricorso, pag.4).

In ogni caso, l’art. 2233 c.c. fissa i criteri di determinazione del compenso spettante ai prestatori d’opera intellettuale secondo una scala preferenziale che assegna valore preminente al contratto, e solo in subordine, in mancanza di accordo, alle tariffe professionali ovvero gli usi (Cass. 29837/2011; Cass. 6732/2000).

Per quanto detto, non occorreva stabilire il valore venale del terreno mediante una c.t.u. e comunque – avendo la sentenza ricostruito nei termini suesposti la volontà delle parti- il rigetto della richiesta di consulenza era implicito ed era, inoltre, pienamente giustificato in base agli argomenti valorizzati dal giudice di merito, non occorrendo un provvedimento espresso di rigetto, supportato da un’adeguata motivazione (Cass. 87/2003; Cass. 1783/1998).

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio delle spese secondo soccombenza.

Si dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, pari ad Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5000,00 per compenso, oltre ad iva, c.p.a. e rimborso forfettario delle spese generali in misura del 15%.

Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 24 settembre 2019.

Depositato in cancelleria il 17 dicembre 2019

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