Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33246 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 21/12/2018, (ud. 13/06/2018, dep. 21/12/2018), n.33246

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

D.G.F., in qualità di titolare e rappresentante

dell’omonima ditta individuale, rappresentato e difeso dall’Avv.

Antonio Minacapilli, del Foro di Enna, ed elettivamente domiciliato

presso l’Avv. Giovanni Vaccaro, alla via Tacito n. 90 in Roma;

– ricorrente –

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege,

dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata

presso gli uffici del difensore, alla via dei Portoghesi n. 12 in

Roma;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n 25, pronunciata il 7.12.2009 dalla Commissione

Tributaria della SICILIA, Regionale, sezione distaccata di

Caltanissetta, e pubblicata l’11.2.2010;

ascoltata, in camera di consiglio, la relazione svolta dal dott.

Paolo Di Marzio.

la Corte osserva.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il contribuente, quale titolare dell’omonima ditta individuale, in data 16.10.2006 proponeva impugnazione innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Enna nei confronti dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS), notificatogli dall’Agenzia delle Entrate. L’avviso risultava fondato su processo verbale di costatazione redatto dalla Guardia di Finanza, che aveva accertato per l’anno 1999 maggiori ricavi d’impresa non dichiarati, e risultanti da movimentazioni bancarie non riscontrate nelle scritture contabili.

L’opponente contestava l’accertamento affermando che lo stesso risultava fondato su presunzioni semplici ed era stato emesso senza la previa istaurazione del contraddittorio da parte dell’Ente impositore. Opponeva, pure, la mancanza di motivazione, essendo l’atto fondato sulla sola mancanza di riscontro nella contabilità d’impresa delle individuate movimentazioni bancarie. Contestava, ancora, l’applicazione dell’IVA al 20% e pertanto in misura illegittima, perchè la ditta esercitava l’attività di costruzione e vendita di immobili, che risultava pertanto assoggettata a minore aliquota, del 4 o 10%. Con successiva nota integrativa, depositata quasi sei mesi dopo la proposizione del ricorso, opponeva anche il mancato riconoscimento dei costi sostenuti, in relazione ai maggiori ricavi ritenuti accertati.

La Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso, ritenendo tardiva la contestazione relativa ai costi e rilevando, in sintesi, che in presenza di un accertamento di maggiori ricavi, fondato su movimentazioni bancarie, è onere del contribuente fornire la prova contraria, ma a tanto l’opponente non aveva provveduto.

Il contribuente impugnava la decisione di primo grado innanzi alla Commissione Tributaria Regionale di Palermo, sezione distaccata di Caltanissetta, rinnovando, in sostanza, le medesime censure già proposte. Il giudice di secondo grado osservava che la domanda relativa ai costi risultava senz’altro tardiva. Rilevava, quindi, che pure la critica del contribuente circa il mancato riconoscimento della valenza probatoria della documentazione da lui depositata appariva priva di fondamento. La produzione documentale fornita, infatti, risultava generica, e pertanto insufficiente a superare la presunzione legale su cui l’accertamento era stato fondato, perchè “da essa non è possibile risalire a quale delle operazioni bancarie contestate essa si riferisce” (sent. CTR, p. 3).

Infondata risultava pure la contestazione relativa all’essere l’accertamento fondato su presunzioni semplici, perchè lo stesso si basava, in realtà, su una presunzione legale, cui il contribuente non era stato in grado di opporre prova contraria.

Quanto all’omessa applicazione delle aliquote ridotte dell’IVA, in considerazione dell’attività esercitata dall’impresa, la Commissione Regionale osservava che l’aliquota ridotta compete in relazione ad operazioni determinate, mentre il contribuente non aveva dimostrato che i maggiori ricavi accertati fossero dipesi da attività assoggettate ad IVA agevolata.

Rigettava, ancora, le contestazioni proposte dal contribuente in relazione alla pretesa violazione delle regole del contraddittorio, osservando che l’impugnante era stato fin dall’inizio delle attività di accertamento posto nelle condizioni per interloquire, ed infatti si era avvalso della facoltà, già in sede di attività ispettive svolte dalla Guardia di Finanza, ed anche previa sollecitazione di quest’ultima che, tra l’altro, lo aveva espressamente invitato a giustificare le movimentazioni bancarie successivamente poste a se dell’accertamento per cui è causa. Del resto, è stata consegnata al D.G. pure la copia del processo verbale di costatazione. Avverso la decisione della Commissione Tributaria Regionale della sezione distaccata di Caltanissetta, ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, affidandosi a tre motivi. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. – Con il primo motivo di ricorso l’impugnante contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza gravata per avere la Commissione Tributaria Regionale errato nell’indicazione dell’atto impugnato, in quanto nell’intestazione della decisione si opera riferimento ad avvisi di accertamento relativi al tributo Irpef in ordine agli anni dal 1996 al 1998, mentre l’impugnazione era stata proposta in relazione all’accertamento di maggiori ricavi che sarebbero stati conseguiti nell’anno 1999.

1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la omessa ed insufficiente motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio, per avere la Commissione territoriale “del tutto glissato sui decisivi motivi di impugnazione dedotti nell’atto di appello” (ric. p. 5), e propone quindi una pluralità di critiche tra loro diverse.

1.3. – Con il terzo motivo di ricorso l’impugnante contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 32,39, comma 2, e D.P.R. n. 600 del 1973, 41 bis, nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 54, in cui ritiene sia incorsa la Commissione Regionale perchè, sulla base della documentazione acquisita in atti, avrebbe dovuto annullare l’accertamento impugnato.

2.1. – Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente contesta l’erronea individuazione dell’atto impugnato da parte della Commissione Tributaria Regionale di cui censura la decisione.

Invero, nell’intestazione della decisione opposta effettivamente si rinviene l’errore materiale contestato, meglio indicato descrivendo innanzi i motivi di ricorso. Deve però osservarsi che già nei primi righi della decisione la CTR ha indicato specificamente l’atto oggetto del giudizio, l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), ed il contribuente non contesta l’esattezza di questo dato. Ancora, tutto lo sviluppo della decisione impugnata, che descrive analiticamente pure quanto avvenuto durante il primo grado del giudizio, ed anche nel corso degli accertamenti che hanno preceduto la fase contenziosa, non consente alcun dubbio circa l’esatto oggetto del giudizio. Non solo, l’impugnante ha dimostrato con il suo ricorso di avere ben compreso l’oggetto della controversia, tanto da essersi difeso compiutamente in ordine allo stesso.

In definitiva il mero errore materiale commesso nell’indicazione dell’atto impugnato, soltanto nella intestazione della decisione, non ha leso in alcuna misura il diritto di difesa del ricorrente, ed il motivo di ricorso deve essere pertanto respinto.

2.2. – Con il secondo motivo di ricorso, il contribuente propone una pluralità di critiche, ritenendo che la Commissione impugnata sia incorsa in molteplici vizi di motivazione.

Innanzitutto contesta la “erronea interpretazione” del giudice impugnato in ordine al mancato riconoscimento dei costi inevitabilmente sostenuti per conseguire i maggiori ricavi che i giudici del merito hanno ritenuto accertati. Secondo la censura del ricorrente, la critica relativa all’omessa detrazione dei costi, che ammette essere stata proposta soltanto in memoria, “non costituisce un autonomo motivo di impugnazione, ma approfondisce il contenuto procedurale della tipologia d’accertamento utilizzata dai verificatori” (ric., p. 6). Per quanto le modalità espressive utilizzate non appaiono agevolmente intellegibili, sembra corretto ritenere il ricorrente intende affermare che, domandando la detrazione dei costi, non ha proposto nè una domanda nè un’eccezione, bensì una mera difesa. Questo assunto non appare condivisibile. Domandando il riconoscimento e la quantificazione, che invero neppure provvede ad indicare, dei costi che sarebbero stati sostenuti per conseguire i maggiori ricavi accertati, infatti, il contribuente ha domandato, tardivamente, un ampliamento dell’oggetto del giudizio, e la contestazione della decisione che ha affermato la tardività della richiesta appare perciò infondata, oltre ad essere stata proposta in forma incompleta.

In secondo luogo censura la Commissione Regionale per aver erroneamente affermato la “mancata produzione di prove documentali da parte del contribuente” (ric., p. 6 s.). Deve allora osservarsi che essendo stato, l’accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate, fondato sulle indagini bancarie effettuate dalla Guardia di Finanza, e risultando pertanto assistito da una presunzione legale di fondatezza, il contribuente avrebbe dovuto fornire una dettagliata indicazione degli elementi di prova contraria forniti. Diversamente, anche nel ricorso per cassazione, si è limitato a riproporre una serie di argomenti che rimangono puramente verbali, perchè non ancorano ciascun versamento o prelevamento al compimento di una specifica operazione, non assoggettabile al tributo richiesto e documentalmente provata. In conseguenza la censura proposta risulta inammissibile. Può al proposito ricordarsi che la Suprema Corte ha già avuto occasione di precisare che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, al fine di superare la presunzione posta a carico del contribuente dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, (in virtù della quale i prelevamenti ed i versamenti operati su conto corrente bancario vanno imputati a ricavi conseguiti nell’esercizio dell’attività d’impresa), non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività”, Cass. sez. V, sent. 11.3.2015, n. 4829.

In terzo luogo il contribuente censura la Commissione Regionale per aver ritenuto applicabile l’IVA ordinaria, pertanto all’aliquota del 20%, sui maggiori redditi ritenuti accertati, e non l’aliquota ridotta, al 4 o al 10%, che si applica in relazione alla tipica attività di costruzione e vendita di immobili svolta dal ricorrente. Anche in questo caso deve osservarsi preliminarmente che il contribuente neppure indica in quali proporzioni dovrebbero essere sottoposti a tributo (agevolato) i maggiori ricavi accertati. In ogni caso, la Commissione Regionale impugnata ha osservato che “il contribuente non ha fornito la prova che i maggiori ricavi accertati derivano dall’attività assoggettabile all’aliquota ridotta. Conseguentemente legittimamente l’ufficio ha applicato l’aliquota IVA nella misura ordinaria del 20%” (sent. CTR, p. 4). Il ricorrente non critica la specifica ratio decidendi adottata dalla Commissione Regionale, e non fornisce la prova richiesta, limitandosi ad una contestazione della decisione generica, e perciò inammissibile.

L’impugnante censura, inoltre, che le presunzioni derivanti dall’accertamento bancario hanno natura di presunzioni semplici, che possono assurgere al rango di prova sol quando assistite da “ulteriori elementi gravi, precisi e concordanti”. A questo argomento la Commissione regionale ha replicato che le presunzioni fondate sugli accertamenti bancari, “non hanno natura di meri indizi bisognevoli di ulteriori elementi probatori, ma costituiscono esse stesse valida prova restando a carico del contribuente l’onere di fornire la prova contraria” (sent. CTR, p. 3 s.). Questa chiara e condivisibile affermazione della Commissione impugnata non trova nell’argomentare del ricorrente una critica specifica. L’impugnante si limita ad affermarne l’infondatezza. Diversamente, questa Corte ha già avuto modo di evidenziare che “in tema di accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini sui conti correnti bancari, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, l’onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui conti correnti intestati a soggetti per i quali è fondatamente ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a sua disposizione non viola il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o “divieto di doppie presunzioni” o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) sia perchè tale principio è, in realtà, inesistente, non essendo riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c. nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento, sia perchè, anche qualora lo si volesse considerare esistente, esso atterrebbe esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un’altra presunzione semplice, ma non con una presunzione legale, sicchè non ricorrerebbe nel caso di specie”, Cass. sez. 5, sent. 16.6.2017, n. 15003 (cfr., anche, Cass. n. 1102/17). Il Giudice di legittimità aveva del resto già chiarito che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica, ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili”, Cass. sez. 5, sent. 29.7.2016, n. 15857.

Il motivo di ricorso deve perciò essere respinto.

2.3. – Con il terzo motivo di ricorso il contribuente contesta che, in base alla documentazione acquisita in atti, la Commissione Regionale avrebbe dovuto annullare l’impugnato avviso di accertamento, “per tutti i motivi in fatto e in diritto già dedotti nei precedenti gradi del giudizio e riportati nel precedente motivo n. 2 del presente ricorso” (ric. p. 14).

Il motivo è inammissibile. Lo stesso, infatti, domanda di riesaminare quanto già innanzi valutato nell’analizzare il precedente motivo di ricorso, in ordine al quale si è già ampiamente argomentato. Inoltre, chiede alla Suprema Corte di riesaminare nel merito ogni documento di causa, per andare a riscoprire se sussistano violazioni di legge che il ricorrente neppure provvede ad indicare quali siano nel dettaglio, il che non è consentito in un giudizio di natura impugnatoria quale è, per eccellenza, quello di legittimità.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come quantificate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso proposto da D.G.F., in qualità di titolare e rappresentante dell’omonima ditta individuale, che condanna al pagamento delle spese di lite in favore della costituita controricorrente Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, e le liquida nella misura di Euro 3.800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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