Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33223 del 16/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 16/12/2019, (ud. 23/10/2019, dep. 16/12/2019), n.33223

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14623-2013 proposto da:

TELCOM SPA, in persona del Presidente del C.d.A. e legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE XXI APRILE

11, presso lo studio dell’avvocato CORRADO MORRONE, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato VITO D’AMBRA, giusta

procura a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI OSTUNI;

– intimato –

avverso la sentenza n. 37/2012 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

LECCE, depositata il 14/04/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/10/2019 dal Consigliere Dott. CAPRIOLI MAURA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE

MATTEIS STANISLAO che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso;

udito per il ricorrente l’Avvocato D’AMBRA che ha chiesto il rinvio

per termini per rinnovo della notifica.

Fatto

Con sentenza nr 37/2012 la CTR di Bari, sez. distaccata di Lecce rigettava l’appello proposto da Telcom s.p.a. avverso la sentenza nr 102/2008 della CTP di Brindisi con cui era stato parzialmente accolto il ricorso della società nei confronti dell’avviso di pagamento emesso dal Comune di Ostuni per omesso versamento della Tarsu per l’anno 2006 in relazione al complesso industriale sito in (OMISSIS).

In particolare in ordine ai profili in discussione che riguardavano i locali adibiti a deposito e magazzino il Giudice di appello riteneva che le relative superfici dovevano essere assoggettate alla Tarsu trattandosi di aree non destinate alla lavorazione industriale e non produttive di rifiuti speciali assimilati per le quali non era pertanto necessario valutare la legittimità delle fonti regolamentari. Per quanto attiene poi all’omessa considerazione da parte del giudice di primo grado del parziale pagamento da parte del contribuente della somma di Euro 12.883,09 la CTR rilevava la mancanza di un riscontro probatorio sul punto. Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 15 Direttiva CEE nr. 75/442 riteneva che il principio formulato in tale direttiva implicasse che il costo del servizio fosse a carico dell’utente a prescindere dalla sua natura (tributaria o corrispettiva della prestazione).

Relativamente agli ulteriori profili di contestazione, che censuravano la pronuncia di primo grado laddove aveva omesso di considerare la perizia giurata prodotta in causa che attestava l’inefficiente svolgimento del servizio e aveva dato risalto al solo verbale di sopraluogo redatto da un tale F.F., del quale non era dato conoscere le specifiche competenze tecniche, la CTR osservava che l’appello non conteneva alcuna specifica critica in merito all’avvenuta dimostrazione da parte del Comune dell’efficienza e adeguatezza del servizio.

Con riguardo alla figura del F. sottolineava infine che i ricorsi introduttivi si erano limitati a dubitare dell’appartenenza di quest’ultimo ad una delle categorie di personale autorizzato dal Sindaco (D.Lgs. cit., art. 73) mentre le decisioni avevano messo in evidenza che lo stesso era stato espressamente autorizzato, così come provato dalla tessera di autorizzazione prodotta. Avverso tale sentenza Telcom s.p.a. propone ricorso per cassazione affidato a 4 motivi di ricorso.

Il Comune di Ostuni non si è costituito.

Diritto

Con il primo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 71, comma 2 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Afferma, in particolare, che la mancata menzione nell’atto impugnato dei provvedimenti presupposti comporta l’impossibilità di verificare la correttezza delle richieste fatte valere dall’ente contravvenendo in tal modo al dettato della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, il quale impone per tutti gli atti di amministrazione finanziaria l’obbligo della motivazione.

Con il secondo motivo deduce la violazione del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 49, attuativo dell’art. 15 della Direttiva Cee nr. 75/442, come modificato dall’art. 1 della Direttiva CEE nr. 91/156.

La ricorrente critica l’interpretazione data dalla CTR alle norme comunitarie sostenendo che dalla lettura complessiva delle previsioni vincolanti per l’Amministrazione si ricaverebbe il principio per il quale il pagamento richiesto per la raccolta dei rifiuti costituirebbe un corrispettivo per la prestazione di un servizio e che tale qualificazione porterebbe ad escludere ogni regime di esclusiva a favore del Comune stesso che non potrebbe applicare il tributo nei casi in cui il produttore abbia provveduto in proprio o attraverso un raccoglitore privato allo smaltimento dei rifiuti.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Lamenta infatti che i locali di cui si discute (compresi quelli abiti ad uffici) sono relativi a stabilimenti in cui si esercita una attività industriale e sono pertanto diversi da quelli di civile abitazione sicchè i rifiuti prodotti sono “speciali” e restano tali se il Comune non provvede alla loro assimilazione per qualità e quantità agli urbani o vi provvede come nella specie con una delibera illegittima.

Afferma di aver sostenuto e provato con apposita perizia giurata lo svolgimento in tali ambienti di fasi della lavorazione industriale sicchè i rifiuti prodotti rientrerebbero nel D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 62, comma 3, ed in quanto tali esclusi dall’assoggettamento all’imposta.

Con il quarto motivo la ricorrente si duole della contraddittoria motivazione seguita dalla CTR la quale, da un lato, avrebbe riconosciuto che le aree di lavorazione fossero effettivamente produttive di rifiuti speciali e quindi non assoggettabili alla Tarsu e, dall’altro, avrebbe ritenuto non sussistenti le condizioni per l’esonero.

Con l’ultimo motivo la contribuente denuncia l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) sostenendo che la CTR non avrebbe tenuto conto del parziale pagamento di Euro 12.883 effettuato dalla Telcom s.p.a. in data 2.11.2006 in relazione al quale la CTR non avrebbe espresso alcuna considerazione.

Il primo motivo è infondato.

La ricorrente, nel formulare la censura non si confronta con la risposta data dalla CTR la quale proprio in ordine ai dedotti vizi formali in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione, ha rilevato la ritualità della notifica degli atti presupposti riferiti a superfici identiche a quelle degli anni precedenti sicchè gli stessi non possono più essere messi in discussione.

Per quanto riguarda il secondo e terzo motivo e quarto che vanno esaminati congiuntamente per l’intima connessione va premesso che la Tarsu come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale (2009 nr. 238) rappresenta una prestazione di natura fiscale che ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma cioè anche “esterni”(“rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico”) ed ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente.

Quanto alla compatibilità con la disciplina comunitaria (Direttiva CEE nr. 75/442, modificato dall’art. 1 della Direttiva nr. 91/156) si osserva che la stessa, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l’istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico (cfr. Corte Cost. 2009 nr. 238).

Ciò posto la questione all’esame della Corte verte essenzialmente sulla tassabilità ai fini TARSU di locali adibiti a magazzino e a deposito, ritenuti dalla società contribuente esente da imposta, perchè produttivi di rifiuti speciali connessi al ciclo produttivo, che la società avvierebbe al recupero a proprie spese.

Il quadro normativo nel quale va inquadrata la fattispecie in esame (anno 2006) è costituito dal D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, capo 3 e dal D.Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 (decreto Ronchi) e successive modifiche. Circa il presupposto della tassa, il D.Lgs. n. 507 del 1993 ha stabilito che stessa “è dovuta per l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa nei modi previsti dagli artt. 58 e 59” e che “nella determinazione della superficie tassabile non si tiene conto di quella parte di essa ove per specifiche caratteristiche strutturali e per destinazione si formano, di regola, rifiuti speciali, tossici o nocivi, allo smaltimento dei quali sono tenuti a provvedere a proprie spese i produttori stessi in base alle norme vigenti. Ai fini della determinazione della predetta superficie non tassabile il comune può individuare nel regolamento categorie di attività produttive di rifiuti speciali tossici o nocivi alle quali applicare una percentuale di riduzione rispetto alla intera superficie su cui l’attività viene svolta” (art. 62, commi 1 e 3).

La tariffa deve essere pertanto applicata nei confronti di chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, salva l’applicazione sulla stessa di un “coefficiente di riduzione proporzionale alle quantità di rifiuti assimilati che il produttore dimostri di aver avviato al recupero mediante attestazione rilasciata dal soggetto che effettua l’attività di recupero dei rifiuti stessi” e chiaramente presuppone l’assoggettamento all’imposta dei soli rifiuti urbani e salvo il diritto ad una riduzione della tassa in caso di produzione di rifiuti assimilati ” smaltiti in proprio” (Cass. n. 6359 del 2016).

In tale materia grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza delle condizioni per beneficiare dell’esenzione, atteso che, pur operando il principio secondo il quale è l’Amministrazione a dover fornire la prova della fonte dell’obbligazione tributaria, esso non può operare con riferimento al diritto ad ottenere una riduzione della superficie tassabile, o addirittura l’esenzione, costituendo questa, un’eccezione alla regola del pagamento del tributo da parte di tutti coloro che occupano o detengono immobili nelle zone del territorio comunale (Cass. n. 9731 del 2015; Cass. 22130/2017).

Questa Corte ha precisato che: “i residui prodotti in un deposito o magazzino non possono essere considerati residui del ciclo di lavorazione, per cui risulta ininfluente che possano essere qualificati o meno come rifiuti assimilati agli urbani. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la esenzione o riduzione delle superfici tassabili deve intendersi limitata a quella parte di esse su cui insiste l’opificio vero e proprio, perchè solo in tali locali possono formarsi rifiuti speciali, per le specifiche caratteristiche strutturali relative allo svolgimento dell’attività produttiva, mentre in tutti gli altri locali destinati ad attività diverse, i rifiuti devono considerarsi urbani per esclusione, salvo che non siano classificati rifiuti tossici o nocivi, e la superficie di tali locali va ricompresa per interno nell’ambito della superficie tassabile (uffici, depositi, servizi ecc.), inoltre tale classificazione costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice del merito” (Cass. n. 26725 del 2016).

L’impossibilità di produrre rifiuti deve dipendere da fattori oggettivi e permanenti e non dalla contingente e soggettiva modalità di utilizzazione dei locali. Questa Corte ha precisato che: “La situazione che legittima l’esonero si verifica allorquando l’impossibilità di produrre rifiuti dipende dalla natura stessa dell’area o del locale, ovvero dalla loro condizione di materiale ed oggettiva inutilizzabilità ovvero dal fatto che l’area ed il locale siano stabilmente, e cioè in modo permanentemente e non modificabile, insuscettibili di essere destinati a funzioni direttamente o indirettamente produttive di rifiuti. La funzione di magazzino, deposito o ricovero è invece una funzione operativa generica e come tale non rientra nella previsione legislativa” (Cass. n. 19720 del 2010). Per i produttori di rifiuti speciali non assimilabili agli urbani non si tiene altresì conto della parte di area dei magazzini, funzionalmente ed esclusivamente collegata all’esercizio dell’attività produttiva, occupata da materie prime e/o merci, merceologica mente rientranti nella categoria dei rifiuti speciali non assimilabili, la cui lavorazione genera comunque rifiuti speciali non assimilabili. Resta pertanto fermo l’assoggettamento dei magazzini destinati, come nella specie, allo stoccaggio di semilavorati e/o prodotti finiti connessi a lavorazioni produttive, dei magazzini di attività commerciali, dei magazzini relativi alla logistica, dei magazzini di deposito di merci e/o mezzi di terzi (Cass. 2019 nr. 12979).

Da tanto discende che correttamente la CTR ha interpretato la normativa in esame non incorrendo in alcuna contraddizione ritenendo sulla base delle risultanze processuali che i locali in questione proprio perchè destinati allo stoccaggio di materie prime e all’imballaggio di prodotti finiti non rientrassero nella fattispecie di esonero contemplate dalla legge.

Da ultimo per quanto riguarda la censura sollevata nell’ultimo motivo ne va rilevata l’inammissibilità.

Infatti, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, la CTR non è incorsa in alcuna omissione avendo rigettato la richiesta per la mancata prova dell’avvenuto versamento.

In tal modo il Giudice di appello ha escluso che si sia verificato una duplicazione di pretesa a titolo di imposta per l’anno 2006.

Peraltro, il mancato esame di un documento può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui determini l’omissione di motivazione su un punto decisivo della controversia e, segnatamente, quando il documento non esaminato offra la prova di circostanze di tale portata da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di fondamento. Ne consegue che la denuncia in sede di legittimità deve contenere, a pena di inammissibilità, l’indicazione delle ragioni per le quali il documento trascurato avrebbe senza dubbio dato luogo a una decisione diversa (Cass. n. 16812 del 26/06/2018; Cass. n. 19159/2016).

In altri termini, occorre non solo che la parte precisi dove e quando il documento asseritamente ignorato dai primi giudici o da essi erroneamente interpretato sia stato prodotto nella sequenza procedimentale che porta la vicenda al vaglio di legittimità; ma al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte (761/14; 24448/13; 22517/13), occorre altresì che detto documento ovvero quella parte di esso su cui si fonda il gravame sia puntualmente riportata nel ricorso nei suoi esatti termini (3748/14; 15634/13). L’inosservanza anche di uno soltanto di questi oneri viola il precetto di specificità di cui al citato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e rende il ricorso conseguentemente inammissibile (Cass. n. 14216/13; Cass. n. 23536/13; Cass. n. 23069/13).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nessuna determinazione in punto spese in assenza della costituzione da parte del Comune.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese;

dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto;

Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019

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