Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33219 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. trib., 21/12/2018, (ud. 13/04/2018, dep. 21/12/2018), n.33219

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7044/2011 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore elettivamente

domiciliata in Roma, alla via Portoghesi, pro tempore, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende come

per legge;

– ricorrente –

contro

BANG & OLUFSEN ITALIA S.P.A., in persona del legale

rappresentante, rappresentata e difesa dall’avv. Gaetano Arnò, con

domicilio eletto in Roma, Largo Angelo Fochetti, n. 29;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 6/28/10 della Commissione Tributaria regionale

della Lombardia depositata il 25 gennaio 2010

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 aprile 2018

dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale, dott. Fimiani Pasquale, che ha concluso chiedendo

l’accoglimento del primo, del terzo e del quarto motivo del ricorso

principale, la inammissibilità del secondo e del quinto motivo del

ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale;

udito il difensore della parte ricorrente, avv. Carlo Maria Pisana;

udito il difensore della parte controricorrente, Avv. Carlo Romano,

per delega dell’avv. Gaetano Arnò.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di verifica fiscale della Guardia di Finanza l’Agenzia delle Entrate notificava, in data 30 gennaio 2006, alla Bang & Olufsen Italia s.p.a. gli avvisi di accertamento nn. (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), relativi agli esercizi chiusi alle date del 31 maggio 2002, 31 maggio 2003 e 31 maggio 2004, con i quali si contestava la indeducibilità di oneri fiscalmente dedotti dalla società.

La contribuente impugnava con autonomi ricorsi gli accertamenti dinanzi alla Commissione tributaria provinciale, che, previa riunione, annullava soltanto alcuni rilievi contestati dalla Agenzia delle Entrate.

Proposto appello dall’Ufficio, che chiedeva la riforma della sentenza impugnata in relazione ai capi per i quali risultava soccombente, si costituiva la società contribuente che proponeva appello incidentale.

La Commissione tributaria regionale, in parziale accoglimento degli appelli, riconosceva la deducibilità degli oneri concernenti a) ammortamenti degli affitti di rami di azienda b) spese di viaggio, vitto ed alloggio sostenute dalla società per i meetings organizzati per la formazione dei distributori c) costi relativi a depliants ed allestimenti di vetrine e negozi addebitati dalla casa madre d) costi relativi al contratto di cost sharing e mark-up del 10% e) costi per rimozione della moquette in un locale nella disponibilità della contribuente d) costi sostenuti in relazione alla attività concertistica dell’Auditorium (OMISSIS); riteneva, altresì, legittima la ripresa a tassazione degli oneri concernenti gli indennizzi corrisposti dalla contribuente per la risoluzione anticipata di contratti di affitto di azienda conclusi alle società Radio Forniture s.r.l. e Benali & Antolini s.r.l..

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate, affidandolo a cinque motivi.

La contribuente resiste con controricorso e propone ricorso incidentale, con un unico motivo, illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso la Agenzia delle Entrate censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del T.U.I.R., art. 102, comma 8 e del D.P.R. n. 42 del 1988, art. 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè per omessa o insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia.

La ricorrente contesta, in particolare, la deducibilità delle quote di ammortamento relative ai beni oggetti dei contratti di affitto di azienda stipulati dalla contribuente con le società Benali & Antolini s.r.l. e Radio Forniture s.r.l., in quanto gli accordi conclusi non contengono alcuna deroga espressa, ai sensi del D.P.R. n. 42 del 1988, art. 14, al principio generale fissato dal T.U.I.R., art. 102, comma 8 (T.U.I.R., art. 67, comma 8, all’epoca vigente), che stabilisce che “per le aziende date in affitto o in usufrutto le quote d’ammortamento sono deducibili nella determinazione del reddito dell’affittuario o dell’usufruttuario”.

1.1. Con riguardo alle suddette quote di ammortamento, il giudice di appello, premesso che la stessa Agenzia delle Entrate aveva dato atto che gli ammortamenti non erano stati dedotti dagli affittuari, ha rilevato che “il D.P.R. n. 42 del 1988, art. 14, richiede sì una “deroga convenzionale”, ma non ne impone la forma scritta: costituiscono prova dell’accordo intervenuto tra le parti anche i fatti concludenti, incompatibili con una volontà diversa. Volontà che si manifesta anche nella clausola contrattuale che prevede che “l’affittuaria si impegna a restituire alla scadenza del presente contratto il ramo d’azienda ed i beni che ne fanno parte nello stato di normale efficienza in cui riconosce di averli ricevuti salvo il normale deperimento derivante dall’uso” ed ha, conseguentemente, confermato la deducibilità dei relativi oneri.

1.2. La ricorrente non ha ragione di dolersi della dedotta violazione di legge.

In effetti, le quote di ammortamento delle aziende date in affitto (o in usufrutto) sono deducibili dal reddito dell’affittuario (o dell’usufruttuario), e non da quello del concedente, secondo la disposizione del Testo Unico delle imposte dirette, art. 67, comma 8, all’epoca vigente, come precisata dal D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, art. 14, il cui comma 2 stabilisce che la norma dell’art. 67 non si applica “nei casi di deroga convenzionale alle norme dell’art. 2561 c.c., concernenti l’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili”.

Pertanto, la concedente di azienda in affitto può dedurre legittimamente dal reddito le relative quote di ammortamento solo se, all’atto della concessione in affitto, abbia pattuito con l’affittuaria una deroga convenzionale al combinato disposto degli artt. 2561 e 2562 c.c..

La concessione in affitto o la costituzione in usufrutto di un complesso di beni destinati allo svolgimento di attività di impresa comporta il riconoscimento, in capo rispettivamente all’affittuario ed all’usufruttuario, di particolari poteri e doveri che sono fissati dall’art. 2561 c.c., e ciò al fine di consentire all’affittuario o all’usufruttuario la piena libertà di gestire proficuamente la impresa ed al concedente di tutelare l’interesse a che non sia menomata l’efficienza del complesso aziendale che dovrà essergli restituito alla fine del rapporto.

L’art. 2561 c.c. prevede, a tal fine, che l’affittuario deve gestire l’azienda senza modificarne la destinazione ed in modo da conservare l’efficacia dell’organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte, nonchè provvedere alle spese, anche straordinarie, con la conseguenza che tutte le questioni in tema di addizioni e miglioramenti vanno risolte a norma dell’art. 2561 c.c., u.c..

Al termine del rapporto, conformemente alla disciplina stabilita dall’art. 2561 c.c. per l’usufrutto di azienda, anche nel caso di cessazione dell’affitto, in genere la differenza tra le consistenze di inventario all’inizio ed alla fine dell’affitto devono essere regolate in denaro sulla base dei valori correnti al termine dell’affitto, tenendo conto nel valutare i vari elementi che compongono l’azienda non solo delle eventuali perdite o addizioni, ma anche dei loro deterioramenti o miglioramenti, per cui tale differenza va in ogni caso regolata soltanto in base all’art. 2561 c.c.

Ciò comporta che al termine della concessione in godimento i beni oggetto di modifiche devono essere computati, ai sensi del quarto comma dell’art. 2561 c.c., a favore dell’affittuario nello stato in cui si trovano in quel momento.

E’ comunque fatta salva la pattuizione contraria, secondo cui, da un lato, il costo del deperimento delle immobilizzazioni dell’azienda è a carico del concedente, in deroga all’art. 2561 c.c., comma 2 e, dall’altro, l’affittuario non è tenuto a versare all’affittante alcun conguaglio a fine rapporto, in deroga all’art. 2561 c.c., comma 4.

Tenuto conto che la separazione tra la proprietà dei beni strumentali che compongono l’azienda in affitto, che fa capo al concedente, ed il diritto personale di godimento dei medesimi beni, che fa invece capo all’affittuario, trova la sua rappresentazione contabile nel processo di ammortamento dei beni strumentali, nel caso in cui non sia stato derogato a quanto previsto dall’art. 2561 c.c., comma 2, restano a carico dell’affittuario gli oneri di conservazione, per cui il deperimento dei beni dovrà essere rilevato annualmente nel conto economico dell’affittuario tramite apposito accantonamento; qualora, invece, si sia derogato a quanto previsto dall’art. 2561 c.c., comma 2, l’onere di mantenere in efficienza i beni strumentali resta a carico del concedente e l’affittuario non dovrà ovviamente operare alcun accantonamento.

Poichè la disciplina fiscale dell’ammortamento dei beni compresi nell’azienda data in affitto o in usufrutto è strettamente collegata alla disciplina civilistica, ed in particolare, all’art. 2561 c.c., risulta evidente che qualora l’affittuario sia tenuto, al termine del rapporto contrattuale, a reintegrare la perdita di valore subita dai beni strumentali ammortizzabili compresi nell’azienda, le quote di ammortamento dei beni dovranno essere dedotte dall’affittuario e non dal concedente.

1.3. Nel caso di specie, nei contratti di affitto di ramo d’azienda stipulati dalla contribuente con le società Benali & Antolini s.r.l. e Radio Forniture s.r.l. è stato espressamente convenuto che “il deperimento derivante dall’uso” dei beni componenti il ramo d’azienda condotto in affitto non dovesse ricadere sul conduttore, ma dovesse piuttosto essere posto a carico del concedente, sicchè tale clausola integra sicuramente la deroga convenzionale all’obbligo di conservazione dell’efficienza dei beni ammortizzabili prevista dall’art. 2561 c.c., comma 2 e richiamata dal D.P.R. n. 42 del 1988, art. 14 e dal T.U.I.R., art. 67, comma 8 e comporta che le quote di ammortamento dei beni strumentali possono essere dedotte dalla concedente.

Peraltro, non è in discussione che l’ammortamento sia stato dedotto esclusivamente dalla Bang & Olufsen Italia s.p.a. e non dalle società affittuarie, sicchè correttamente la C.T.R. ha affermato la deducibilità dei relativi oneri in favore della contribuente.

In merito al presunto vizio di motivazione, va rilevato che il giudice di appello ha offerto una motivazione adeguata e sufficiente ad individuare il percorso logico-giuridico seguito per addivenire al suo convincimento, avendo posto in rilievo che le disposizioni normative richiamate dall’Ufficio non richiedono una specifica forma idonea ad indicare la “deroga convenzionale” e che, nel caso di specie, la volontà delle parti di derogare alla regola generale prevista dal T.U.I.R., art. 102, comma 8 e dal D.P.R. n. 42 del 1998, art. 14, si evince chiaramente dalla previsione nei contratti di affitto di una specifica clausola contrattuale.

2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del T.U.I.R., art. 108 (già 74) e lamenta che la Commissione regionale, in riforma della sentenza di primo grado, ha riconosciuto la deducibilità delle spese dedotte dalla contribuente nè sottoconto “Meetings Rivenditori”, per la parte eccedente i limiti consentiti dal richiamato T.U.I.R., art. 74, comma 2, affermando che si tratta di “oneri diretti a sostenere la formazione dei rivenditori al fine di incrementare i ricavi”.

Ha posto in rilievo che, trattandosi di spese sostenute per far fronte alla prassi di riunire, una volta all’anno, i propri rivenditori, sopportando i relativi costi di viaggio, vitto ed alloggio, al fine di renderli edotti circa le nuove strategie di comunicazione del gruppo (allestimento dei negozi, modalità di presentazione dei prodotti, pianificazione dell’attività dei singoli rivenditori), tali costi debbano essere considerati “spese di rappresentanza”, come tali deducibili nei limiti fissati dal cit. T.U.I.R., art. 74, ossia nei limiti di un terzo, e non di spese di ordinaria gestione, interamente deducibili.

2.1. Il motivo è fondato.

In tema di imposte sui redditi delle persone giuridiche, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 74, comma 2 (nella formulazione applicabile “ratione temporis”), le spese di vitto ed alloggio sostenute dal contribuente, in occasione di convegni organizzati con i propri clienti e rappresentanti, costituiscono spese di rappresentanza, e non di pubblicità, essendo costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine dell’impresa, e per potenziarne la possibilità di sviluppo, senza dare luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite (Cass. n. 9715 del 13/05/2015).

Come è stato costantemente affermato da questa Corte, in tema di imposte sui redditi delle persone giuridiche, ai sensi del T.U.I.R., art. 74, comma 2, (nella formulazione all’epoca vigente), il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato nella diversità, anche strategica, degli obiettivi: costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l’immagine della società e per potenziarne la possibilità di sviluppo, senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite; sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente, anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine di incrementare le vendite, sicchè è necessaria una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità di dette spese (Cass. 16812 del 24/7/14; n. 17645 del 18/7/2013), dovendo riscontrarsi una diretta relazione tra spese di pubblicità e maggiori ricavi.

La Commissione tributaria regionale non si è uniformata ai principi sopra richiamati.

3. Con il terzo motivo la Agenzia delle Entrate lamenta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che la Commissione tributaria regionale, in assenza di adeguata motivazione, ha annullato la ripresa relativa al disconoscimento dei costi addebitati dalla casa madre alla contribuente per il mark-up del 10% riconosciuto quale compenso in relazione ad alcuni servizi resi in virtù di un contrato di cost sharing, oltre che i costi sostenuti dalla casa madre e da questa addebitati alla contribuente in relazione alla promozione del marchio attraverso mezzi di comunicazione nazionale.

3.1. Il motivo è infondato.

La Commissione tributaria regionale ha confermato la deducibilità di tali costi affermando che si tratta “del riaddebito di costi sostenuti dalla casa madre sulla base di un contratto di cost sharing non contestato dalla A.F.” e che è altresì deducibile “il mark-up del 10% riconosciuto dalla società italiana alla capogruppo, sempre sulla base del contratto intervenuto tra le parti, a titolo di rimborso spese, per l’attività centralmente svolta nel coordinamento delle attività di marketing”.

Il giudice di appello, con una valutazione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, ha ritenuto la documentazione offerta dalla contribuente idonea a provare la sussistenza del contratto di cost sharing e la certezza ed inerenza dei costi dedotti dalla contribuente ed ha al contempo respinto le contestazioni mosse dall’Ufficio, riguardanti la mancanza di coincidenza tra l’importo accertato e quello ricostruito negli allegati prospetti di sintesi delle spese addebitate dalla casa madre, avendo ritenute valide le argomentazioni fornite dalla società contribuente, la quale ha giustificato la rilevata mancanza di coincidenza con il fatto che gli importi ad essa riaddebitati dalla casa madre erano la risultante di una duplice conversione di valuta operata per detti costi, atteso che la società danese, dopo avere ricevuto le fatture espresse in Euro da fornitori terzi, provvedeva alla conversione in corone danesi ai fini della registrazione nella propria contabilità e, successivamente, quando operava il riaddebito complessivo alla Bang & Olufsen Italia s.p.a., emetteva una fattura il cui importo era nuovamente espresso in Euro, previa ulteriore conversione da corone danesi in Euro.

Il giudice di appello, con riguardo alla questione inerente il mark-up, ha, inoltre, affermato che il relativo costo è deducibile, in quanto espressamente previsto all’interno del contratto di cost sharing, ed ha poi riconosciuto la effettività della attività svolta dalla capogruppo danese per il coordinamento delle attività di marketing.

La censura volta alla sentenza, essendo, dunque, finalizzata ad un riesame nel merito delle circostanze di fatto già valutate dal giudice di appello, non può essere accolta, in quanto si risolverebbe in una rivalutazione degli elementi probatori già esaminati.

Infatti, con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito, poichè la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass. n. 29404 del 07/12/2017; Cass. n. 9097 del 7/4/2017).

4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce una insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, in quanto la Commissione regionale, con riguardo ai costi dedotti per la rimozione della moquette da un locale nella disponibilità della contribuente, ha confermato la sentenza di primo grado, motivando che “sin dal ricorso introduttivo la società aveva reso evidente la deducibilità dell’onere, deducibilità che la Commissione conferma”, non chiarendo in tal modo le ragioni che l’hanno indotta ad affermare che la dicitura “materiale di arredo”, utilizzata dalla società, potesse con certezza far ritenere riferibile la spesa al costo che la contribuente assumeva di avere sostenuto.

4.1. Il motivo è fondato, considerato che nella sentenza impugnata non vi è puntuale esposizione delle ragioni per cui è stata riconosciuta la deducibilità dei costi, a fronte delle contestazioni sollevate dall’Agenzia delle Entrate, e non è stata fornita alcuna concreta indicazione degli elementi di fatto offerti dalla contribuente e ritenuti sufficienti a fondare la pronuncia di annullamento del rilievo sollevato dalla Amministrazione. Ciò impedisce di ricostruire l’iter logico- giuridico seguito dal giudice di appello e di verificare la correttezza e la completezza del ragionamento probatorio ed integra, senza dubbio, il dedotto vizio di insufficiente motivazione (Cass. n. 3370 del 2/3/12; n. 9113 del 6/6/12).

5. Con il quinto motivo (erroneamente indicato in ricorso come quarto motivo) la Agenzia delle Entrate, deducendo la violazione e falsa applicazione del T.U.I.R., art. 108, nonchè la omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, censura la sentenza nella parte in cui il giudice di appello ha ritenuto deducibili i costi sostenuti dalla contribuente in favore della attività concertistica dell’Auditorium (OMISSIS), in parte sopportati mediante un effettivo sostegno finanziario ed in parte mediante noleggio alla istituzione di impianti audio e video.

La ricorrente, in particolare, ha evidenziato che nel processo verbale di constatazione (pag. 17) era stato riscontrato che, allegata alla fattura emessa dalla Fondazione Verdi, vi era la lettera datata 30 luglio 2003, con la quale la contribuente aveva richiesto alla stessa Fondazione di poter aderire, per l’anno 2003, al Club “Insieme per la Musica”, nonchè materiale illustrativo nel quale venivano descritte la struttura, la composizione, le iniziative, gli obiettivi, gli eventi ed altre offerte culturali che il Club offriva ai propri associati; ha, pertanto, rilevato che la Commissione tributaria regionale ha erronamente ritenuto che le spese in contestazione costituissero spese di pubblicità, senza tenere minimamente conto delle circostanze appurate dai verificatori che inducevano a ritenere la natura di rappresentanza di dette spese.

5.1. Il motivo è infondato.

La Commissione tributaria regionale ha affermato che i costi in oggetto sono stati affrontati per ottenere l’inserimento della pubblicità dei prodotti a marchio “Bang & Olufsen” nella brochure dei concerti della Fondazione e la possibilità di collocare nel foyer del teatro, destinato ad ospitare i concerti, uno stand di Bang & Olufsen con l’esposizione dei prodotti e che, di conseguenza, si tratta di spese rientranti nella categoria delle spese di pubblicità.

La verifica in fatto compiuta dal giudice di appello in ordine alla natura ed alle finalità delle spese, molto puntuale, evidenzia che si tratta di spese che, per le loro caratteristiche, sono finalizzate ad informare i consumatori circa l’esistenza di beni prodotti dall’impresa e, quindi, ad incrementare le vendite, con la conseguenza che detti oneri, alla luce dell’accertamento effettuato dal giudice di merito, non censurabile in questa sede, vanno considerati spese di pubblicità.

6. Passando all’esame del ricorso incidentale, la società contribuente, con un unico motivo, deduce “violazione e falsa applicazione del T.U.I.R., artt. 9,109 e 110, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” e censura la sentenza laddove si disconosce, per antieconomicità, la deducibilità delle somme da essa corrisposte agli affittuari Benali & Antolini s.r.l. e Radio Forniture s.r.l., a fronte della risoluzione anticipata dei rispettivi contratti di affitto d’azienda e della accettazione dell’obbligo di astenersi da attività concorrenziali.

Secondo la controricorrente, le argomentazioni della Commissione tributaria regionale sono viziate anche per omessa o contraddittoria motivazione su un fatto decisivo, in quanto il giudice di appello non ha tenuto conto delle specifiche circostanze di fatto che avevano reso necessario assumere la scelta imprenditoriale di interrompere il rapporto con le affittuarie nel più breve tempo possibile, al fine di evitare un maggiore pregiudizio.

Ha spiegato che avendo “sfiduciato” le società Benali & Antolini e Radio Forniture s.r.l., in ragione delle insoddisfacenti performance da esse realizzate, aveva ritenuto che fosse strategico che le stesse abbandonassero i punti vendita, perchè inidonei a garantire la professionalità ed il servizio preteso da clienti di un operatore che forniva beni di lusso, e che fosse necessario interrompere immediatamente il rapporto con le due affittuarie di rami di azienda, per cui gli oneri sostenuti per la risoluzione anticipata dei contratti di affitto di ramo di azienda trovavano giustificazione in esigenze di business e nella necessità di garantire futuri utili.

6.1. Sul punto la Commissione tributaria regionale, dopo avere sottolineato che l’Amministrazione aveva sostenuto la indeducibilità dei costi in quanto antieconomici, considerato che era stata fissata, per ciascuno dei contratti, una penalità di Euro 51.645,68 per recedere “liberamente” dal contratto, da corrispondere se non ricorrevano “gravi motivi per il recesso”, ha reso una motivazione esaustiva e puntuale, avendo sottolineato che proprio la gestione inefficiente dei punti vendita da parte delle affittuarie, evidenziata dalla contribuente, avrebbe dovuto indurre quest’utima ad evitare il pagamento della penale e che, al contrario, il pagamento della somma corrisposta, pari a quasi il doppio della penale, non poteva trovare giustificazione nella necessità di evitare una lite giudiziaria o di abbreviare i tempi di definizione di un eventuale giudizio, dato che tale finalità avrebbe potuto essere raggiunta facendo ricorso alla clausola arbitrale prevista dal contratto di affitto che avrebbe comportato costi sicuramente più contenuti della penale corrisposta; ha pure rilevato che neppure costituisce valido motivo al pagamento dell’indennizzo corrisposto la necessità di far accettare l’obbligo di astenersi da attività concorrenziali, dato che tale obbligo era già previsto in contratto e considerato che la somma pagata era addirittura superiore a quella fissata per l’esercizio del diritto di opzione riconosciuto all’affittuaria per l’eventuale acquisto dell’azienda.

La censura rivolta alla sentenza non è, pertanto, meritevole di accoglimento, in quanto la controricorrente non ha dedotto in modo specifico il fatto controverso in ordine al quale la sentenza impugnata risulterebbe omessa o insufficiente.

Infatti, in tema di ricorso per cassazione, per effetto della modifica dell’art. 366-bis c.p.c., introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, deve essere dedotto mediante esposizione chiara e sintetica del fatto controverso – in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali l’insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tali fatti, che non devono attenere a mere questioni o punti, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 c.c. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (dedotto in funzione di prova determinante di una circostanza principale) (Cass. n. 29883 del 13/12/2017; n. 16655 del 29/7/2011).

7. In conclusione, devono essere accolti il secondo ed il quarto motivo del ricorso principale, respinti i restanti motivi, e va rigettato il ricorso incidentale, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio della causa alla Commissione tributaria della Lombardia, in diversa composizione, che, attenendosi ai principi sopra enunciati, dovrà procedere a nuovo esame, oltre che alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo ed il quarto motivo del ricorso principale e rigetta i restanti motivi del ricorso principale; rigetta il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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