Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33207 del 16/12/2019

Cassazione civile sez. VI, 16/12/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 16/12/2019), n.33207

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2657-2019 proposto da:

G.A., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato ENRICO

PERRELLA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente incidentale –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il

06/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/07/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’appello di Perugia, con decreto n. 2642 del 6/6/2018, condannò il Ministero della Giustizia a pagare in favore della ricorrente la somma di Euro 9.467,00, iure proprio e di Euro 5.067,00 ed Euro 5.267,00 iure hereditario, in quanto successore a titolo universale rispettivamente di G.M. e G.E. originarie parti attrici nel giudizio presupposto, e decedute in corso di causa.

La richiesta di equo indennizzo era riferita ad un giudizio civile per il risarcimento dei danni intentati da G.A., M. ed E., nonchè da P.A., rispettivamente sorelle e moglie di G.A., a seguito del sinistro nel quale era deceduto il Gentilucci.

Si rilevava che la sentenza di primo grado del Tribunale di Cassino aveva affermato la corresponsabilità del defunto nella produzione del sinistro, riconoscendo il risarcimento solo in parte e che il giudizio di appello era stato promosso da G.A. ed E., anche quali eredi della sorella M. deceduta nel corso del giudizio di primo grado in data 19/3/2003.

Il giudizio di appello si era poi interrotto per la morte in data 24/12/2006 di G.E. ed era stato riassunto a cura della ricorrente, essendo ancora pendente alla data d’introduzione del giudizio di equo indennizzo, per poi essere stato definito con sentenza della Corte d’Appello di Roma del 15 settembre 2016, che aveva riconosciuto la responsabilità esclusiva del conducente del veicolo antagonista.

Il decreto della Corte d’Appello di Perugia, dopo avere dato atto che le ricorrenti non avevano esteso la domanda al periodo di durata del processo presupposto successivo all’introduzione del giudizio di equo indennizzo, disattendeva l’eccezione di difetto di legittimazione attiva della Gentilucci quale erede delle sorelle, rilevando che l’accettazione dell’eredità si ricavava dalle stesse difese spese nel giudizio presupposto.

Nel merito riteneva che quest’ultimo era particolarmente complesso, sia per il numero delle parti che per le reciproche domande, con la conseguenza che la durata ragionevole doveva essere determinata per i due gradi in complessivi sette anni.

Dalla durata complessiva del processo andava poi detratto il termine di dodici mesi (dovendosi ritenere che fosse congruo il termine di soli due mesi per proporre appello), nonchè quello di sei mesi durante il quale il processo di appello era stato interrotto.

Per l’effetto, riteneva che per G.M., deceduta il 19/3/2003, la durata irragionevole del processo era di anni sei mesi quattro, per G.E., deceduta il 24/12/2006, di anni sei e mesi sette e per G.A. in proprio di anni undici e mesi dieci.

Quanto alla liquidazione dell’indennizzo, tenuto conto della rilevanza degli interessi in gioco nel giudizio di riferimento, riconosceva la somma di Euro 800,00 per ogni anno di ritardo, calcolando per l’effetto le somme dovute sia iure proprio che a titolo successorio, rigettando tuttavia la domanda di risarcimento del danno patrimoniale.

Infine, liquidava le spese di lite nell’ammontare di Euro 1.000,00 per compensi oltre spese generali ed accessori di legge.

Avverso tale decreto G.A. propone ricorso sulla base di tre motivi, illustrati anche da memorie, cui resiste il Ministero della Giustizia, proponendo a sua volta ricorso incidentale affidato ad un motivo.

Evidenti ragioni di ordine logico impongono la previa disamina del ricorso incidentale, con il quale il Ministero deduce che, in relazione alla domanda proposta da parte della ricorrente a titolo di erede delle sorelle decedute nel corso del giudizio presupposto, sarebbe intervenuta la decadenza dall’azione di equo indennizzo con la violazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 4 e degli artt. 75 e 112 c.p.c.

Si rileva che poichè la morte è avvenuta, per G.M. il 19/3/2003, e per G.E. il 24/12/2006, a far data dal loro decesso, o al più dall’interruzione del processo, è venuta meno la loro qualità di parte, sicchè l’azione indennitaria avrebbe dovuto essere proposta nel termine di sei mesi da tali eventi, non potendo invece essere posticipata.

Il motivo è inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), posto che il provvedimento impugnato ha deciso la questione oggetto del motivo di ricorso in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte, senza che l’esame del motivo offra elementi per mutare tale orientamento.

In tal senso occorre richiamare il principio (cfr. Cass. n. 20564/2010) secondo cui in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 4, configura la sola definitività della decisione come “dies a quo” ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la proponibilità della domanda, mentre il diritto dell’erede di agire in tale qualità, dopo la morte del dante causa, si prospetta come mera possibilità di esercitare quel diritto, senza, quindi, che si possa ricollegare alla morte della parte alcun effetto giuridico incidente sul termine di proponibilità della domanda (conf. da ultimo Cass. n. 8281/2019), principio al quale risulta essersi conformata la decisione gravata, e che la formulazione del motivo in esame mostra di ignorare, senza quindi addurre alcuna ragione idonea a modificarne l’applicazione.

Il primo motivo del ricorso principale denuncia la motivazione inesistente, meramente apparente ed incoerente in ordine alla determinazione della misura dell’indennizzo che non tiene conto degli interessi coinvolti e della rilevanza della causa.

Il motivo è inammissibile in quanto mira, peraltro in maniera del tutto generica, a contestare un apprezzamento tipicamente di fatto riservato al giudice di merito, in merito alla individuazione del qauntum indennitario.

Il giudice di merito ha, infatti, quantificato il pregiudizio non patrimoniale, tenuto conto degli interessi in gioco nel giudizio presupposto (domanda di risarcimento del danno da perdita di un congiunto in un sinistro stradale) nell’importo di Euro 800,00 per anno, avendo quindi individuato una somma che non risulta irrisoria nè pertanto in contrasto con i criteri dettati a livello sovranazionale.

In tal senso si veda Cass. n. 12696/2017, che, in una fattispecie cui non sia applicabile, “ratione temporis”, la L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, ha ritenuto congrua anche per una causa di divisione, nei limiti del controllo di legittimità, la quantificazione dell’indennizzo nella misura solitamente riconosciuta per i giudizi amministrativi o fallimentari protrattisi oltre dieci anni, rapportata su base annua a circa Euro 500,00, dovendosi riconoscere al giudice il potere, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, di discostarsi dagli ordinari criteri di liquidazione, dei quali deve dar conto in motivazione (in senso sostanzialmente conforme Cass. n. 22385/2015).

Di recente, questa Corte ha avuto modo di ribadire che (Cass. n. 8399/2019), secondo la giurisprudenza di questa Corte, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale dev’essere, di regola, non inferiore a Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane tuttavia, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617/2010; n. 17922/2010).

In particolare, con riferimento alla formulazione della L. n. 89 del 2001, nel testo anteriore alle modificazioni introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis nel caso di specie, costituisce ormai orientamento consolidato quello per cui ove lo scostamento sia giustificato e quindi ammissibile, lo stesso non può tuttavia risolversi nel riconoscimento di un indennizzo meramente simbolico, essendosi individuato nel criterio di 500,00 Euro una misura idonea a contemperare la serietà dell’indennizzo con la effettiva consistenza della pretesa fatta valere nel giudizio presupposto.

Tale approdo consente di escludere che un indennizzo di Euro 500,00, e a maggior ragione l’indennizzo di Euro 800,00 liquidato nel caso di specie per ogni anno di ritardo, possa essere di per sè considerato irragionevole e quindi lesivo dell’adeguato ristoro che la giurisprudenza della Corte Europea intende assicurare in relazione alla violazione del termine di durata ragionevole del processo (Cass. n. 5277/2015);

A ciò va poi aggiunto che (cfr. Cass. n. 27352/2018) se il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai parametri elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per i casi simili, salvo il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dare conto, tuttavia la parte che si dolga in sede di legittimità della inadeguatezza della liquidazione del danno non patrimoniale in termini di irragionevole divario rispetto ai criteri adottati dalla giurisprudenza della Corte Europea ha, comunque, l’onere di allegare sia i fatti ritenuti rilevanti per fondare la censura di malgoverno della valutazione equitativa da parte del giudice di merito sia i concreti elementi di analogia con i casi consimili in cui, in sede Europea, sono stati applicati i parametri più favorevoli.

Nella fattispecie, a fronte della enunciazione da parte del giudice di merito, con il richiamo alla tipologia della controversia, dei criteri in base ai quali ha orientato il proprio potere discrezionale di liquidazione, senza peraltro addivenire ad una determinazione manifestamente irrisoria o violativa dei parametri dettati dalle Corte EDU, la ricorrente si limita apoditticamente a sostenere l’esiguità della somma liquidata, mostrando in tal modo di voler sottoporre al sindacato di questa Corte l’esercizio discrezionale, e come tale non sindacabile, del giudice di merito in ordine all’individuazione del danno effettivamente subito.

Il secondo motivo di ricorso denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per la controversia quanto all’estensione della domanda indennitaria anche al periodo successivo alla proposizione della domanda di equo indennizzo.

La Corte d’Appello ha limitato la liquidazione al solo periodo di durata del giudizio presupposto dalla sua introduzione a quella di proposizione della domanda ai sensi della L. n. 89 del 2001, trascurando che parte ricorrente con le memorie integrative del 18/9/2017 aveva chiesto di tenersi conto anche della successiva durata del giudizio presupposto definito dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 5436/2016.

Il motivo è inammissibile.

I giudici di merito a pag. 3 del provvedimento gravato hanno espressamente affermato che la data da considerare ai fini della durata del processo è quella compresa tra la notifica dell’atto di citazione ed il deposito dei ricorsi per equa riparazione “non avendo le ricorrenti esteso le domande al periodo successivo, fino al deposito del ricorso”.

Assume invece parte ricorrente che tale estensione vi sarebbe stata e precisamente con le menzionate memorie integrative. Trattasi però di censura che andava dedotta con il mezzo della revocazione ordinaria.

Questa Corte ha, infatti, affermato che (cfr. Cass. n. 30850/2018) qualora il giudice di merito ometta di pronunciare su una domanda che si assume essere stata ritualmente proposta, motivando la propria decisione col fatto che quella domanda non sarebbe mai stata formulata, la sentenza contenente tale statuizione dev’essere impugnata con la revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, e non con gli ordinari mezzi d’impugnazione, dovendosi escludere una relazione di alternatività tra errore revocatorio e principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (conf. Cass. n. 27555/2011; Cass. n. 12958/2011).

Ne discende che la doglianza circa il fatto che non sia stata esaminata la richiesta di estendere la liquidazione anche al periodo successivo a quello di proposizione della domanda di equo indennizzo, a fronte dell’affermazione secondo cui tale estensione non era mai stata richiesta, andava dedotta con il mezzo di impugnazione della revocazione, non essendo invece dato proporla come motivo di ricorso per cassazione.

Il terzo motivo di ricorso principale lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., art. 2233 c.c., comma 2, e delle previsioni di cui al D.M. n. 55 del 2014, in quanto la Corte di merito aveva liquidato il rimborso spese di lite al disotto del minimo legale.

Il motivo è fondato.

Come già rilevato da questa Corte, e proprio con specifico riferimento alla liquidazione delle spese di lite nelle procedure di cui alla L. n. 89 del 2001 (Cass. n. 1018/2018), l’opinione secondo la quale il decreto del Ministero della Giustizia n. 55 del 10/3/2014, nella parte in cui stabilisce un limite minimo ai compensi tabellarmente previsti (art. 4) non può considerarsi derogativo del Decreto n. 140, emesso dallo stesso Ministero il 20/7/2012, il quale, stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che “In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”, non è condivisibile in quanto il D.M. n. 140, risulta essere stato emanato allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l’avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l’incarico professionale.

Viceversa, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55, il quale non prevale sul D.M. n. 140, per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, poichè, diversamente da quanto affermato dall’Amministrazione resistente, non è il D.M. n. 140, evidentemente generalista e rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente a prevalere, ma il D.M. n. 55, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa.

Tornando al caso in esame la liquidazione effettuata dalla Corte locale in complessivi Euro 1.000,00 si pone al di sotto dei limiti imposti dal D.M. n. 55 (Euro 2.414,00 di cui Euro 540,00 per la fase di studio, Euro 438,00 per la fase introduttiva, Euro 526,00 per la fase istruttoria, Euro 910,00 per la fase decisionale), tenuto conto del valore della causa (da Euro 5.201,00 a Euro 26.000,00) e pur applicata la riduzione massima, in ragione della speciale semplicità dell’affare (art. 4 cit.).

Il provvedimento impugnato deve essere cassato in relazione al motivo accolto con rinvio, anche per le spese del presente giudizio alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione. Tuttavia risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, quanto al ricorso incidentale, trattandosi peraltro di impugnazione proposta da amministrazione dello Stato.

P.Q.M.

accoglie il terzo motivo del ricorso principale, rigetta il primo motivo del ricorso principale, dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso principale e, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, cassa la decisione impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Perugia in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019

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