Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33202 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 21/12/2018, (ud. 11/10/2018, dep. 21/12/2018), n.33202

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaella – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29699-2017 proposto da:

SECURITAS METRONOTTE SRL, in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo

studio legale BOCCIA & ASSOCIATI, MARESCA, MORRICO,

rappresentata e difesa dall’avvocato LA PENNA GIOVANNI;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE SPA, in persona del legale rappresentante,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34 presso lo

studio dell’avvocato MANZILLI RENATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

POSTETUTELA SPA, LA PIEMONTESE ASSICURAZIONI SPA;

– intimate –

avverso la sentenza n. 1020/2017 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata dell’11/10/2018 dal Consigliere Relatore Dott. DELL’UTRI

MARCO.

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza resa in data 14/2/2017, la Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello proposto da Postetutela s.p.a., e in riforma della decisione di primo grado, ha accolto la domanda con la quale Postetutela s.p.a. ha invocato la condanna dell’Istituto di Vigilanza Città di Latina s.r.l. al risarcimento dei danni subiti dalla società attrice a seguito del furto di somme di denaro poste all’interno di una cassaforte collocata presso l’ufficio postale di Aprilia;

che, a fondamento della decisione assunta, la corte territoriale ha evidenziato come l’Istituto di vigilanza convenuto avesse contrattualmente assunto, in favore della società attrice, l’impegno a provvedere al trasporto dei valori prelevati o destinati agli uffici di Poste Italiane s.p.a., nonchè alla custodia delle chiavi di apertura delle casseforti contenenti detti valori;

che, nel caso di specie, essendo il furto denunciato incontestatamente avvenuto attraverso l’apertura della cassaforte con l’uso delle chiavi in custodia esclusiva dell’Istituto di vigilanza convenuto, la corte territoriale ha dedotto l’avvenuto inadempimento, da parte dell’Istituto, dell’obbligazione di custodia di dette chiavi, in assenza di alcuna prova, da parte dell’Istituto debitore, della causa di impossibilità dell’adempimento a sè non imputabile;

che, avverso la sentenza d’appello, la Securitas Metronotte s.r.l. (già Istituto di Vigilanza Città di Latina) propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi d’impugnazione;

che Posteitaliane s.p.a. resiste con controricorso;

che Postetutela s.p.a. e la Piemontese Assicurazioni s.p.a. (quest’ultima originariamente chiamata in giudizio a fini di manleva) non hanno svolto difese in questa sede;

che, a seguito della fissazione della camera di consiglio, sulla proposta di definizione del relatore emessa ai sensi dell’art. 380-bis le parti non hanno presentato memoria;

Diritto

CONSIDERATO

preliminarmente, di dover dichiarare l’improcedibilità del ricorso, avendo la società ricorrente depositato, unitamente al ricorso, una copia notificata della sentenza impugnata priva di rituale attestazione di conformità all’originale, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2);

che, al riguardo, vale osservare come la copia in formato analogico della sentenza impugnata prodotta in questa sede dalla ricorrente non presenta alcuna attestazione di conformità all’originale informatico munita di sottoscrizione autografa del difensore della ricorrente richiesta dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 9-bis convertito in L. n. 221 del 2012, introdotto dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52 convertito con modificazioni nella L. n. 114 del 2014 (cfr. Cass. n. 7443/2017 nonchè Cass. n. 17450/2017, secondo la quale “in ogni caso, il procuratore (…) è tenuto ad attestare la conformità all’originale digitale dei documenti prodotti in formato analogico”, con la precisazione che, non essendo operative nel giudizio di cassazione “le disposizioni sul deposito telematico degli atti processuali, la sottoscrizione in calce all’attestazione cartacea depositata presso la cancelleria della Corte deve essere necessariamente autografa (manuale) e non digitale”) (cfr., in termini, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 28473 del 29/11/2017, Rv. 647255 – 01);

che, sul punto, è appena il caso di rilevare come questa Corte abbia avuto modo di ribadire il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, qualora la notificazione della sentenza impugnata sia stata eseguita con modalità telematiche, per soddisfare l’onere di deposito della copia autentica della decisione con la relazione di notificazione, il difensore del ricorrente, destinatario della suddetta notifica, deve estrarre copia cartacea del messaggio di posta elettronica certificata pervenutogli e dei suoi allegati (relazione di notifica e provvedimento impugnato), attestare con propria sottoscrizione autografa la conformità agli originali digitali della copia formata su supporto analogico, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter, , e depositare nei termini quest’ultima presso la cancelleria della Suprema Corte, mentre non è necessario provvedere anche al deposito di copia autenticata della sentenza estratta dal fascicolo informatico (Sez. 6 -, Ordinanza n. 30765 del 22/12/2017, Rv. 647029 – 01);

che sulla base delle argomentazioni richiamate, deve ritenersi che la copia della sentenza impugnata depositata dalla società ricorrente non è idonea a tener luogo della copia autentica prevista dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2), dovendo conseguentemente rilevarsi l’improcedibilità del ricorso;

che varrà peraltro rilevare come l’odierno ricorso debba ritenersi in ogni caso privo di fondamento;

che, infatti, con il primo motivo, la società ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1176,1218,1223 e 1693 c.c., nonchè degli artt. 1362 e ss. c.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale erroneamente esteso l’ambito della responsabilità contrattuale dell’Istituto originariamente convenuto, atteso che il rapporto negoziale tra le parti ebbe a sostanziarsi (ed esaurirsi) nella sola obbligazione di trasporto e custodia dei valori, senza estendersi alla custodia delle casseforti della società attrice e del relativo contenuto, prestazione, quest’ultima, del tutto diversa e ulteriore rispetto alla custodia delle sole chiavi di apertura;

che, con il secondo motivo, la ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione degli artt. 1176,1218 e 1223 c.c.(in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3), per avere la corte territoriale attestato la responsabilità contrattuale della società convenuta senza l’indicazione di alcun fatto o comportamento specifico idoneo a concretizzare il supposto inadempimento alla stessa ascritto;

che entrambi i motivi – congiuntamente esaminabili in ragione dell’intima connessione delle questioni dedotte – sono manifestamente infondati;

che, preliminarmente, osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità,

l’interpretazione degli atti negoziali deve ritenersi indefettibilmente riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità unicamente nei limiti consentiti dal testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ovvero nei casi di violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3;

che in tale ultimo caso, peraltro, la violazione denunciata chiede d’essere necessariamente dedotta con la specifica indicazione, nel ricorso per cassazione, del modo in cui il ragionamento del giudice di merito si sia discostato dai suddetti canoni, traducendosi altrimenti, la ricostruzione del contenuto della volontà delle parti, in una mera proposta reinterpretativa in dissenso rispetto all’interpretazione censurata; operazione, come tale, inammissibile in sede di legittimità (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 17427 del 18/11/2003, Rv. 568253);

che, nel caso di specie (di là dall’assorbente rilievo dell’inammissibilità dell’impugnazione derivante dalla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, non avendo la ricorrente indicato in ricorso la produzione del fascicolo di parte in cui si assume presente, in primo grado, il contratto in esame, ovvero derivante dalla mancata individuazione della motivazione della sentenza impugnata che si vorrebbe sottoporre a critica), varrà evidenziare come l’odierna ricorrente si sia limitata ad affermare, in modo inammissibilmente apodittico, il preteso tradimento, da parte dei giudici di merito, della violazione degli artt. 1362 ss. c.c., orientando l’argomentazione critica rivolta nei confronti dell’interpretazione della corte territoriale, non già attraverso la prospettazione di un’obiettiva e inaccettabile contrarietà, a quello comune, del senso attribuito alle parole interpretate, o della macroscopica irrazionalità o intima contraddittorietà dell’interpretazione complessiva dell’atto (così come della specifica violazione dei singoli canoni di ermeneutica contrattuale disciplinati per legge), bensì attraverso l’indicazione degli aspetti della ritenuta non condivisibilità della lettura interpretativa criticata, rispetto a quella ritenuta preferibile, in tal modo travalicando i limiti propri del vizio della violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) attraverso la sollecitazione della corte di legittimità alla rinnovazione di una non consentita valutazione di merito;

che, sul punto, è appena il caso di rilevare come la corte territoriale abbia proceduto alla lettura e all’interpretazione delle dichiarazioni negoziali in esame nel pieno rispetto dei canoni di ermeneutica fissati dal legislatore, non ricorrendo ad alcuna attribuzione di significati estranei al comune contenuto semantico delle parole, nè spingendosi a una ricostruzione del significato complessivo dell’atto negoziale in termini di palese irrazionalità o intima contraddittorietà, per tale via giungendo alla ricognizione di un contenuto negoziale sufficientemente congruo, rispetto al testo interpretato, e del tutto scevro da residue incertezze, sì da sfuggire integralmente alle odierne censure avanzate dalla ricorrente in questa sede di legittimità;

che, sotto altro profilo, del tutto priva di fondatezza deve ritenersi la denunciata violazione degli artt. 1176,1218,1223 e 1693 c.c., avendo il giudice a quo – sul presupposto dell’incontestata riconducibilità del furto denunciato all’avvenuta apertura della cassaforte con l’uso delle chiavi in custodia esclusiva dell’Istituto di vigilanza convenuto – correttamente applicato il disposto di cui all’art. 1218 c.c. in relazione all’inadempimento dell’obbligazione di custodia delle chiavi, rilevando come l’Istituto debitore non avesse fornito alcuna prova che l’inadempimento contestato fosse stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa ad esso non imputabile;

che, sul punto, trova applicazione al caso in esame l’insegnamento della giurisprudenza di questa Corte – che il Collegio condivide e fa proprio, ritenendo di doverne assicurare continuità – ai sensi del quale, nell’ambito di un contratto di trasporto e custodia valori, la consegna delle chiavi della cassaforte determina il perfezionarsi di un ordinario contratto di deposito dal quale scaturiscono le relative obbligazioni a carico delle parti, con la conseguenza che, oltre all’obbligazione tipica del vettore, sorge anche l’obbligo di custodia, tanto delle chiavi che dei valori immessi nella cassaforte e, ín caso di furto della cosa depositata, il depositarlo non è esente da responsabilità ove si limiti a dimostrare di avere usato nella custodia la diligenza del buon padre di famiglia prescritta dall’art. 1768 c.c., ma deve provare a mente dell’art. 1218 c.c. che l’inadempimento sia derivato da causa a lui non imputabile (Sez. 3, Sentenza n. 26353 del 25/11/2013, Rv. 629160 – 01);

che alla dichiarazione di improcedibilità del ricorso segue la condanna della società ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, secondo la liquidazione di cui al dispositivo, oltre all’attestazione della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

Dichiara improcedibile il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 6.000,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1-bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sesta Sezione Civile-3 della Corte Suprema di Cassazione, il 11 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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