Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3320 del 08/02/2017


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Cassazione civile, sez. I, 08/02/2017, (ud. 13/12/2016, dep.08/02/2017),  n. 3320

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – rel. Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

G.I., elettivamente domiciliata in Roma, via Tevere

44, presso lo studio dell’avv. Francesco Di Giovanni, dal quale è

rappresentata e difesa, per procura a margine del ricorso, che

indica per le comunicazioni relative al processo la p.e.c.

francescodigiovannil-ordineavvocatiroma.org e il fax 06/42014954;

– ricorrente –

nei confronti di:

CATO.PA. di P.R. & C. s.n.c. in liquidazione,

P.R. e T.S., elettivamente domiciliati in Roma,

piazza Santiago del Cile 8, presso lo studio dell’avv. Emanuele

Verghini, rappresentato e difeso dall’avv. Antonio Bianchi (p.e.c.

avvantoniobianchi-pec.ordineforense.salerno.it, fax 089/253080), per

procura speciale in calce al ricorso notificato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 57/2012 della Corte d’appello di Salerno,

emessa in data 11 dicembre 2012 e depositata il 12 dicembre 2012,

R.G. n. 730/2011;

sentito il Pubblico Ministero in persona del sostituto procuratore

generale dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto

del ricorso.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. Con decisione arbitrale del 7 aprile 2011 è stata respinta la domanda proposta da G.I. nei confronti della società CA.TO.PA. di P.R. & C. s.n.c. in liquidazione, oltre che nei confronti di P.R. e di T.S., diretta ad accertare la validità ed efficacia del suo recesso, motivato dalla sua marginalizzazione all’interno della società, e a liquidare la sua quota di partecipazione nella società pari al 33 % del capitale sociale.

2. L’arbitro unico ha ritenuto non provato il presupposto del recesso.

3. Ha impugnato la decisione la G. deducendo la nullità del lodo adottato senza l’utilizzazione dei poteri di decisione equitativi spettanti all’arbitro, la violazione dell’art. 829 c.p.c. per carenza assoluta di motivazione, la violazione del diritto allo scioglimento dal vincolo sociale tutelato da norma di ordine pubblico nel nostro ordinamento.

4. La Corte di appello di Salerno con decisione n. 57/2012 del 17 dicembre 2012 ha respinto l’impugnazione.

5. La G. ricorre per cassazione affidandosi a due motivi: a) violazione e falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., comma 1, n. 4, D.Lgs. n. 5 del 2003, artt. 36 e 37. Insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto controverso e decisivo relativo all’affermazione contenuta nel lodo di dover decidere la controversia secondo diritto anzichè secondo equità come previsto nella clausola compromissoria; b) violazione e falsa applicazione degli artt. 1373 e 2285 c.c. e dell’art. 829 c.p.c.

6. Si difendono con controricorso T.S. P.R. e CA.TO.PA. di P.R. & C. s.n.c. in liquidazione.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

che:

7. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente afferma che il lodo è nullo perchè l’arbitro investito, in base alla convenzione di arbitrato, da una decisione di equità ha dichiarato di volersi discostare dal criterio equitativo applicando le norme di diritto e ciò in base al disposto del D.Lgs. n. 5 del 2003, art. 36. Rileva la ricorrente che in base agli artt. 35-37 citato D.Lgs. la decisione secondo diritto è imposta agli arbitri soltanto quando devono decidere questioni non compromettibili ovvero quando l’oggetto del giudizio concerne la validità di deliberazioni assembleari ipotesi entrambe estranee al caso in esame. Tale nullità del lodo oltre ad essere manifesta, secondo la ricorrente, per le espresse affermazioni dell’arbitro di volersi discostare dal criterio equitativo, ha avuto un concreto effetto sulla decisione della lite perchè l’arbitro ha reputato non proposta e non esaminabile la pretesa di recesso ad nutum laddove applicando l’equità avrebbe dovuto valutare se la facoltà di recesso trovasse giustificazione alternativa in un movente meritevole di tutela, secondo i principi dell’ordinamento, o nell’esigenza di sottrarsi ad un vincolo di durata eccedente quella esigibile. Peraltro, riferisce la ricorrente, l’arbitro ha esaminato anche l’invocato recesso ad nutum e ha negato che la durata della società sia eccedente quella (prevedibile) della vita dei soci, dato che non può aversi riguardo all’età di soggetti entrati a far parte del sodalizio soltanto dopo la costituzione dello stesso. Decisione erronea dato che la odierna ricorrente ha fatto riferimento all’età dei soci costituenti e non alla propria. Infine, nel giudicare la sussistenza di una giusta causa di recesso, l’arbitro l’ha negata in base alla mera affermazione di un principio di diritto astratto e cioè in base alla possibilità per i soci, in forza delle norme di legge e statutarie applicabili, di partecipare alla gestione e alla ripartizione degli utili e senza considerare che era stata dedotta la creazione da parte degli altri soci di una contabilità parallela.

8. Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (cfr. Cass. civ., sezione 1, n. 23544 del 16 ottobre 2013) l’inammissibilità dell’impugnazione del lodo arbitrale per inosservanza di regole di diritto, ai sensi dell’art. 829 c.p.c., comma 2, nel caso in cui le parti abbiano autorizzato gli arbitri a decidere secondo equità, sussiste anche qualora gli arbitri abbiano in concreto applicato norme di legge, ritenendole corrispondenti alla soluzione equitativa della controversia, non risultando, per questo, trasformato l’arbitrato di equità in arbitrato di diritto. Nel caso di specie, come ricorda la stessa ricorrente, a fronte di una contestazione da parte degli odierni controricorrenti sulla necessità di decidere la lite secondo diritto in base alle citate disposizioni del D.Lgs. n. 5 del 2003l’arbitro ha affermato la conformità della decisione alle norme di diritto ma non ha affatto affermato il conflitto con la diversa soluzione della controversia che avrebbe dovuto applicare secondo equità. Tale conflitto è, del resto, prospettato impropriamente dalla ricorrente con riferimento alla pretesa erroneità della decisione di merito perchè basata su una erronea rappresentazione dei presupposti di fatto della controversia e cioè la inesistenza di una giusta causa di recesso per difetto della prova della estromissione della ricorrente dalla gestione e dalla ripartizione degli utili e la insussistenza del diritto di recedere ad nutum in conseguenza della fissazione della durata societaria per un termine non eccedente la vita dei soci fondatori. Neanche con il ricorso per cassazione è stata prospettata pertanto la prevalenza di una soluzione di diritto confliggente rispetto a quella che si sarebbe dovuta adottare secondo equità ma è stata invece contestata la decisione dell’arbitro sotto il profilo della fondatezza dell’accertamento di merito relativo ai presupposti per il recesso per giusta causa e ad nutum. Va quindi ribadita la giurisprudenza di legittimità secondo cui “gli arbitri di equità ben possono decidere secondo diritto allorchè essi ritengano che equità e diritto coincidano, senza che sia necessario per loro affermare e spiegare una tale coincidenza, che, potendosi considerare presente in via generale, può desumersi anche implicitamente. L’esistenza di un vizio eventualmente riconducibile nell’eccesso di mandato può, invece, configurarsi nel caso in cui gli arbitri si precludano “a priori” l’esercizio di poteri equitativi, pur conferiti, ovvero se, pur riscontrando ed evidenziando una difformità tra giudizio di equità e giudizio di diritto, pronuncino, nonostante ciò, secondo diritto” (cfr. Cass. civ., sezione 1, n. 2741 del 13 marzo 1998, n. 18452 dell’8 settembre 2011).

9. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente afferma che è norma di ordine pubblico quella che consente al socio il recesso quando la società è contratta a tempo indeterminato o per tutta la vita di uno dei soci con la conseguenza che il lodo anche di equità che violi tale regola è contrario a un principio di ordine pubblico corrispondente alla non imponibilità di vincoli contrattuali perpetui. E il lodo impugnato viola questo principio negando efficacia alla dichiarazione di recesso dalla società CA.TO.PA. s.n.c. la cui durata è fissata sino al 2050 e dunque ben oltre l’aspettativa di vita di alcuno dei soci. Nè secondo la ricorrente può avere rilevanza quanto ritenuto decisivo da parte dell’arbitro, e condiviso dalla Corte di appello, circa il mancato riferimento nella lettera di recesso della volontà di recedere ad nutum, oltre che per giusta causa, e cioè che la dichiarazione di recesso deve contenere anche la scelta del presupposto legale di efficacia di tale negozio unilaterale. Ritiene al contrario la ricorrente che se un socio può recedere ad nutum egli non ha necessità di giustificare tale atto e se lo motivi unicamente adducendo una giusta causa ciò integra una ragione aggiuntiva che non comporta una implicita rinuncia alla facoltà di recesso ad nutum.

10. Il motivo è infondato. Pacifico che la ricorrente abbia adito la procedura arbitrale per accertare l’efficacia del recesso per giusta causa come operato con la nota del 29 gennaio 2010. Cosicchè l’arbitro solo su tale richiesta doveva e poteva pronunciarsi mentre, come la Corte di appello ha rilevato, il riferimento nella successiva memoria del 26 ottobre 2010 alla volontà di recedere, in ogni caso, ad nutum dalla società doveva comunque essere effettuato personalmente dalla G. ai fini della sua validità. Secondo quanto riferito dalla ricorrente con il primo motivo di ricorso l’arbitro ha comunque esaminato anche questo profilo irritualmente introdotto e non ne ha escluso la operatività in astratto ma sulla base del riscontro della mancanza dei presupposti richiesti dall’art. 2285 c.c.. Deve pertanto ritenersi, in ogni caso, infondata la deduzione di contrarietà della decisione arbitrale all’ordine pubblico.

11. Va pertanto respinto il ricorso con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione liquidate in 3.600 Euro di cui 200 per spese, oltre accessori di legge e spese forfettarie.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2017

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