Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3318 del 13/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3318 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 3157-2013 proposto da:
GIAROLA VITTORIO GRLVTR41L31C704Z, TIERO ERASMO
TRIRSM39D04C104E, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato UBALDI
ALESSANDRO, rappresentati e difesi dagli avvocati SPARAGNA
FRANCESCO, ANDREA SPARAGNA, giusta delega a margine del
ricorso;

– ricorrenti contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

A

Data pubblicazione: 13/02/2014

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;
– resistente nonché contro

80415740580;

intimato

avverso il decreto n. 863/2012 della CORTE D’APPELLO di
PERUGIA del 5.3.2012, depositato il 19/06/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO;
udito per i ricorrenti l’Avvocato Francesco Sparag-na che ha chiesto
raccoglimento del ricorso.

Ric. 2013 n. 03157 sez. M2 – ud. 09-01-2014
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MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE

Ritenuto in fatto

I sigg. Tiero Erasmo e Giarola Vittorio chiedevano alla Corte d’appello di Perugia,
con ricorso depositato il 22 dicembre 2010, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai
sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio di

Latina, definito in primo grado con sentenza resa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. il
18 maggio 2010, invocando, la condanna del Ministero della Giustizia e del Ministero
dell’Economia e delle Finanze al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti per la
irragionevole durata complessiva del predetto giudizio.
Nella costituzione del solo Ministero della Giustizia, l’adita Corte di appello, con
decreto depositato il 19 giugno 2012, accertava l’irragionevole ritardo del suddetto
giudizio nella durata di anni uno e mesi cinque e condannava il Ministero della
Giustizia al pagamento, in favore di ciascuno dei ricorrenti, della somma di euro
1.063,00 (applicando i parametri ordinari corrispondenti all’importo di euro 750,00 per
i primi tre anni e a quello di euro 1000,00 per i successivi due), oltre interessi dalla
domanda, con ulteriore condanna del suddetto Ministero alla rifusione delle spese
giudiziali.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) hanno proposto ricorso per cassazione
Tiero Erasmo e Giarola Vittorio, con atto notificato il 5 febbraio 2013, sulla base di un
unico complesso motivo. L’intimato Ministero della Giustizia ha depositato mera
memoria difensiva ai fini dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione,
mentre il Ministero dell’Economia e delle Finanze non ha svolto attività difensiva in
questa sede (essendo, peraltro, difettante di legittimazione passiva, poiché il giudizio
presupposto aveva natura ordinaria).
Considerato in diritto

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lavoro instaurato con ricorso depositato il 2 dicembre 2005 dinanzi al Tribunale di

Considerato in diritto

1. — In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del
ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della

Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cessazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cessazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo

Procura generale presso questa Corte.

comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cessazione nei quali il decreto di
fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.
376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, owiamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. .
2. — Ciò posto, rileva il collegio che, con l’unico motivo dedotto, i ricorrenti hanno
denunciato (ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c.) la violazione e falsa applicazione
degli artt. 1 e 2 della legge n. 89 del 2001e dell’art. 6 C.E.D.U., nonché il vizio di
omesso esame degli atti di causa e delle circostanze del caso concreto,
congiuntamente alla contraddittorietà ed insufficienza della motivazione circa il fatto

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presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

controverso e decisivo della controversia attinente al computo della durata
ragionevole del giudizio presupposto ed alla correlata liquidazione dell’indennizzo
spettante.
3. — Ritiene il collegio che la complessa censura formulata è infondata e deve,

Per come accertato adeguatamente e logicamente in fatto, la Corte perugina ha
attesto che il giudizio presupposto ineriva una causa ordinaria di lavoro (avente ad
oggetto il riconoscimento del t.f.r.) di complessità ordinaria che era stata instaurata
dinanzi al Tribunale di Latina con il deposito del ricorso introduttivo in data 2
dicembre 2005, con la conseguente definizione della stessa — mediante l’emissione
di sentenza ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c. — in data 18 maggio 2010. Pertanto,
correttamente, la Corte territoriale, dando atto che non era ravvisabile alcun ritardo
imputabile alle parti, sul presupposto che il termine ragionevole per la definizione del
suddetto giudizio avrebbe dovuto essere contenuto nel limite dei tre anni (per il primo
grado effettivamente espletato), alla stregua dei criteri elaborati dalla giurisprudenza
della C.E.D.U. e di questa Corte (ora recepiti nel nuovo comma 2 bis dell’art. 2 della
legge n. 89 del 2001, come inserito per effetto dell’ari 55, comma 1, lett. a) n. 1, del
d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., nella legge n. 134 del 2012, ancorché “ratione
temporis” non applicabile della fattispecie), ha computato esattamente in un anno e
cinque mesi la relativa durata da qualificarsi, invece, come irragionevole e, pertanto,
ha liquidato in euro 1.063,00 (per ciascuno dei ricorrenti) l’indennizzo
conseguentemente spettante (applicando i criteri standard di euro 750,00 per i primi
tre anni di ritardo e di euro 1000,00 per ciascun eventuale anno successivo: cfr.
Cass. n. 21840 del 2009; Cass. n. 17922 del 2010, ord., e Cass. n. 8471 del 2012).

6

pertanto, essere rigettata.

Del resto è risaputo che, in tema di diritto ad equa riparazione di cui alla legge 24
marzo 2001, n. 89, per la valutazione della ragionevole durata del processo va tenuto
conto dei criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, paragrafo 1,

valore di precedente, non sussistendo nel quadro delle fonti meccanismi normativi
che ne prevedono la diretta vincolatività per il giudice italiano. Anche in tale
prospettiva, l’accertamento della sussistenza dei presupposti della domanda di equa
riparazione – ovvero, la (eventuale) complessità del caso, il comportamento delle
parti e la condotta della autorità – così come della misura del segmento, all’interno del
complessivo arco temporale del processo, riferibile all’apparato giudiziario, in
relazione al quale deve essere emesso il giudizio di ragionevolezza della relativa
durata, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, appartiene alla sovranità del
giudice del merito e può essere sindacato in sede di legittimità solo per i profili
attinenti alla motivazione, consentiti dall’art. 360, n. 5, c.p.c. . E, nella fattispecie in
questione, la Corte umbra ha adeguatamente motivato su tutte le condizioni
necessarie per l’accoglimento della domanda di equo indennizzo nei limiti citati,
conformandosi esattamente ai richiamati complessivi parametri di valutazione, donde
la relativa decisione non risulta censurabile nella presente di legittimità.
4.- Pertanto, in definitiva, previa dichiarazione del difetto di legittimazione passiva
dell’intimato Ministero dell’Economia e delle Finanze, il ricorso deve essere
integralmente respinto, senza che occorra adottare alcuna statuizione sulle spese del
presente giudizio, non avendo il Ministero della Giustizia svolto alcuna attività
difensiva.
PER QUESTI MOTIVI

– 7 –

della Convenzione EDU richiamato dalla norma interna, deve riconoscersi soltanto

La Corte rigetta il ricorso.

Sc-171.9,d
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della econda Sezione Civile della

Corte suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

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