Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3317 del 05/02/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/02/2019, (ud. 28/11/2018, dep. 05/02/2019), n.3317

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26940-2013 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PISA, in persona del Rettore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i

cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

G.C., e C.P., elettivamente domiciliate in

ROMA, VIA COSSERIA n. 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO

AMERICO, rappresentati e difesi dall’avvocato STEFANO TADDIA;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 554/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 20/05/2013 R.G.N. 1325/2011.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. la Corte di Appello di Firenze ha parzialmente accolto l’appello proposto da G.C. e C.P. avverso la sentenza del Tribunale di Pisa che aveva rigettato il ricorso volto ad ottenere: l’accertamento della nullità dei termini apposti ai plurimi contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con l’Università di Pisa dal 1990 al 2007 per la G. e dal 1995 al 2006 quanto alla C.; la conversione dei medesimi in un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato; la conseguente condanna dell’Università convenuta alla riammissione in servizio ed al risarcimento dei danni, da quantificarsi in relazione alle retribuzioni non percepite, ivi comprese quelle relative agli intervalli non lavorati;

2. la Corte territoriale ha ritenuto che fosse stato violato il D.Lgs. n. 368 del 2001 perchè nei contratti mancava qualsiasi indicazione delle esigenze che giustificavano il ricorso al rapporto a termine, genericamente indicate come “ragioni di carattere organizzativo” o con il solo richiamo all’art. 19 del CCNL per il personale del Comparto Università, senza precisare a quale delle diverse ipotesi previste dalle parti collettive si fosse inteso fare riferimento;

3. il giudice d’appello ha, però, osservato che dalla ritenuta nullità non poteva discendere la domandata conversione dei contratti in rapporto a tempo indeterminato, essendo a ciò ostativa la chiara previsione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 norma, questa, ritenuta dalla Corte Costituzionale legittima e dalla Corte di Giustizia compatibile con la direttiva 1999/70/CE a condizione che l’ordinamento nazionale preveda altra misura, diversa dalla conversione, adeguata ed idonea ad impedire l’abuso nella reiterazione del contratto a termine;

4. muovendo da detta premessa la Corte fiorentina ha osservato che la sola responsabilità del dirigente, a fini disciplinari o valutativi, non può essere ritenuta misura equivalente alla conversione ed adeguata a prevenire l’illegittimo ricorso al rapporto a tempo determinato, sicchè occorre riconoscere in favore del lavoratore il risarcimento del danno, senza subordinarlo all’assolvimento degli oneri di allegazione e prova;

5. ha precisato al riguardo che esistono nell’ordinamento lavoristico strumenti di dissuasione che non hanno contenuto risarcitorio, nel senso che prescindono dal lucro cessante e/o dal danno emergente;

6. ha, quindi, ritenuto che l’unica alternativa alla trasformazione del contratto è rappresentata, in coerenza con le indicazioni Europee, dall’applicazione di una sanzione economica che, oltre a ristorare il lavoratore del pregiudizio subito, miri a dissuadere il datore di lavoro dal ripetere l’operazione vietata, sanzione individuata in quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione percepita;

7. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Università di Pisa sulla base di tre motivi, ai quali hanno opposto difese con tempestivo controricorso G.C. e C.P..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 6 dell’art. 19 C.C.N.L. Comparto Università 9 agosto 2000, degli artt. 1362 e 1363 c.c. nonchè della direttiva 1999/70/CE” perchè avrebbe errato la Corte territoriale nel ritenere non specifica la causale inserita nei contratti individuali;

1.1. l’Università evidenzia che, al contrario, era sufficiente il richiamo all’art. 19 del C.C.N.L. in quanto la disposizione contrattuale, che legittima il ricorso al rapporto a termine per esigenze sostitutive o per far fronte ad attività stagionali o straordinarie non fronteggiabili con il personale in servizio, stabilisce che in caso di sostituzione di personale assente per lungo periodo o per maternità debba essere indicato il nominativo del dipendente sostituito;

1.2. in mancanza di ulteriori specificazioni, pertanto, il riferimento alla norma contrattuale rendeva evidente la volontà di riferire l’assunzione alle attività stagionali o a esigenze straordinarie, sicchè la causale non poteva essere ritenuta generica;

2. la seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18 e della L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, in quanto non è consentito al giudice infliggere una sanzione in mancanza di una norma che espressamente la preveda, così come non è corretto applicare in via analogica una disposizione che si riferisce a fattispecie non omogenea rispetto a quella oggetto di causa;

2.1. precisa al riguardo l’Università che l’indennità sostitutiva della reintegrazione presuppone un licenziamento illegittimo e non è applicabile qualora venga in rilievo l’illegittimità del contratto a termine che, invece, nel rapporto di impiego privato consente solo di liquidare l’indennizzo forfettizzato previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32;

3. con la terza critica la ricorrente si duole della violazione degli artt. 1218,2043 e 2697 c.c. perchè il pregiudizio subito deve essere allegato e provato dal lavoratore e, in assenza di prova, non è consentito al giudice riconoscere il diritto al risarcimento del danno;

4. il primo motivo è inammissibile perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4;

4.1. l’Istituto ricorrente censura la sentenza impugnata per avere escluso la doverosa specificità delle causali inserite nei singoli contratti a termine, ma non riporta nel ricorso il contenuto dei contratti, non include i documenti nell’elenco redatto in calce nè indica in quale sede e da chi gli stessi sono stati prodotti;

4.2. i requisiti imposti dall’art. 366 c.p.c. rispondono ad un’esigenza che non è di mero formalismo, perchè solo la esposizione chiara e completa dei fatti di causa e la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori e degli atti processuali rilevanti consentono al giudice di legittimità di acquisire il quadro degli elementi fondamentali in cui si colloca la decisione impugnata, indispensabile per comprendere il significato e la portata delle censure;

4.3. gli oneri sopra richiamati sono altresì funzionali a permettere il pronto reperimento degli atti e dei documenti il cui esame risulti indispensabile ai fini della decisione sicchè, se da un lato può essere sufficiente per escludere la sanzione della improcedibilità il deposito del fascicolo del giudizio di merito, ove si tratti di documenti prodotti dal ricorrente, oppure il richiamo al contenuto delle produzioni avversarie, dall’altro non si può mai prescindere dalla specificazione della sede in cui il documento o l’atto sia rinvenibile (Cass. S.U. 7.11.2013 n. 25038);

4.4. in difetto di dette necessarie specificazioni il motivo non può essere scrutinato nel merito;

5. sono invece fondati, nei limiti di seguito precisati, il secondo ed il terzo motivo di ricorso, da trattare unitariamente in ragione della loro connessione logico-giuridica;

5.1. la sentenza impugnata contrasta con il principio di diritto, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, alla stregua del quale ” in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicchè, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.” (Cass. S.U. 15.3.2016 n. 5072);

5.2. con la richiamata pronuncia, alla quale le stesse Sezioni Unite hanno dato continuità con la più recente sentenza n. 19165/2017, si è in sintesi osservato che, ove venga in rilievo la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, il diritto dell’Unione non impone la conversione del rapporto a termine in contratto a tempo indeterminato, giacchè può costituire una misura adeguata anche il risarcimento del danno;

5.3. nell’impiego pubblico contrattualizzato, poichè la conversione è impedita dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, attuativo del precetto costituzionale dettato dall’art. 97 Cost., il danno risarcibile, derivante dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A, consiste di norma nella perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.;

5.4. peraltro, poichè la prova di detto danno non sempre è agevole, è necessario fare ricorso ad un’interpretazione orientata alla compatibilità comunitaria, che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia richiede un’adeguata reazione dell’ordinamento volta ad assicurare effettività alla tutela del lavoratore, sì che quest’ultimo non sia gravato da un onere probatorio difficile da assolvere;

5.5. sulla questione qui controversa è, poi, recentemente intervenuta la Corte di Lussemburgo che, chiamata a pronunciare sulla conformità al diritto dell’Unione, dl D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte, ha evidenziato che “la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il risarcimento integrale del danno” anche facendo ricorso, quanto alla prova, a presunzioni (Corte di Giustizia 7.3.2018 in causa C – 494/16 Santoro);

6. nel caso di specie la Corte territoriale se, da un lato, ha correttamente ritenuto che il danno dovesse essere liquidato anche in assenza di prova del pregiudizio subito dal lavoratore, dall’altro ha errato nel commisurare lo stesso al “valore del posto di lavoro” perchè l’agevolazione probatoria, imposta dal diritto dell’Unione, opera nei limiti stabiliti dalla L. n. 183 del 2010, art. 32;

7. la sentenza impugnata va, pertanto, cassata con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, attenendosi al principio di diritto enunciato nei punti da 5.1. a 5.5. e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità;

7.1. non sussistono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, nei limiti di cui in motivazione, e dichiara inammissibile il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 28 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2019

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