Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33164 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 21/12/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 21/12/2018), n.33164

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19148-2017 proposto da:

P.A., elettivamente domiciliato PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERIA CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato

CONCETTA GUERRA;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA SALUTE (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1328/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 29/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. POSITANO

GABRIELE.

Fatto

Rilevato

che:

con atto di citazione notificato il 19 marzo 2008, P.A. evocava in giudizio davanti al Tribunale di Catanzaro il Ministero della Salute esponendo che, nel 1977, era stato sottoposto, presso l’ospedale (OMISSIS), a un trattamento trasfusionale a causa del quale aveva contratto il virus HCV. Chiedeva il risarcimento dei danni subiti, allegando la responsabilità della amministrazione che non avrebbe sottoposto ai dovuti controlli gli emoderivati. Si costituiva il Ministero eccependo la prescrizione del diritto e deducendo l’infondatezza della pretesa;

il Tribunale di Catanzaro, con sentenza del 25 marzo 2013, riteneva infondata l’eccezione di prescrizione, accertava la condotta colposa del Ministero, rilevava una patologia a carico dell’attore nella misura del 20%, quantificava il danno nell’importo di Euro 77.000 circa e decurtava le somme percepite a titolo di indennizzo ai sensi della L. n. 210 del 1992con conseguente rigetto della pretesa in quanto le somme corrisposte o da corrispondere a titolo di indennizzo superavano quelle spettanti all’attore a titolo di risarcimento del danno;

avverso tale sentenza proponeva appello P.A. con atto di citazione del 28 marzo 2014 deducendo che l’indennizzo non avrebbe dovuto essere scomputato per mancanza di prova dell’avvenuta erogazione. In ogni caso, contestava la misura della menomazione e la conseguente liquidazione del danno. Si costituiva il Ministero della Salute chiedendo il rigetto e spiegando appello incidentale contestando il riconoscimento della responsabilità, trattandosi di virus contratto in data anteriore all’anno 1978;

la Corte d’Appello di Catanzaro, con sentenza del 29 luglio 2016, in parziale riforma della decisione impugnata condannava il Ministero al pagamento della somma di Euro 77.000 circa, previa detrazione delle somme già effettivamente corrisposte al P.;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione P.A. affidandosi a cinque motivi che illustra con memoria. Resiste con controricorso il Ministero della Salute.

Diritto

Considerato

che:

con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 115 e 213 c.p.c. e art. 2697 c.c, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Il Ministero si era costituito chiedendolo che fossero scomputate le somme corrisposte ai sensi della legge n. 210 del 1992, per cui, nell’ipotesi di eccezione di compensazione, era onere della amministrazione dimostrare la effettiva corresponsione dell’indennizzo. Al contrario, il Tribunale di Catanzaro, sostituendosi alla parte, aveva esercitato il potere previsto dall’art. 213 c.p.c. assumendo informazioni presso la Regione Calabria. Sotto tale profilo la decisione è censurabile trattandosi di documenti che il Ministero avrebbe potuto rinvenire direttamente. Sul punto la Corte territoriale ha adottato una ponuncia implicita di rigetto del relativo motivo di appello ovvero è in caso in una omessa pronuncia;

con il secondo motivo lamenta la violazione delle stesse disposizioni ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e l’omessa motivazione riguardo all’acquisizione d’ufficio di tali informazioni ai sensi dell’art. 213 c.p.c.;

con il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. in tema di onere della prova, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che pone a carico del Ministero l’onere della prova della corresponsione della indennità;

con il quarto motivo lamenta la violazione della medesima disposizione, ma ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e l’omessa motivazione circa un fatto decisivo e cioè la violazione dell’art. 2697 c.c. dedotta in sede di merito dalla ricorrente;

con il quinto motivo deduce la violazione del R.D. n. 1403 del 1922, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, rilevando che per la risarcibilità di un danno futuro è sufficiente la fondata attendibilità che esso si verifichi. Nel caso di specie P. è in condizioni generali “scadute”, per cui è possibile affermare che tali patologie costituiscono, sulla base di un criterio di probabilità, il normale sviluppo di fatti accertati in precedenza. Al contrario, i giudici di merito hanno valutato soltanto il danno inteso come ingiusto vantaggio economico;

con il sesto motivo lamenta la violazione dell’art. 91 c.p.c, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. La Corte territoriale ha dichiarato compensate tra le parti le spese di entrambi gradi di giudizio facendo riferimento all’esito complessivo del procedimento. Al contrario, il ricorrente avrebbe dovuto essere considerato, quanto meno parzialmente, parte vittoriosa;

il primo motivo è destituito di fondamento. Sotto il primo aspetto il rigetto implicito è stato giustificato dal fatto che il ricorrente, di fronte all’esercizio del potere ai sensi dell’art. 213 c.p.c, ritenuto illegittimo, avrebbe dovuto eccepire nella prima difesa in primo grado, la nullità ai sensi del secondo comma dell’art. 157 c.p.c, sicchè l’appello era privo di fondamento per tale motivo. Comunque, nel caso di specie, il ricorrente non deduce, nè nell’esposizione del fatto, nè nell’illustrazione del motivo, di aver eccepito la nullità e prospetta la questione in modo inammissibile ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 2;

sotto altro profilo va precisato che, con riferimento ad una eccezione in senso lato, come quella di compensatio lucri cum damno, riferita ad un fatto storico non contestato (riconoscimento dell’indennità ex L. n. 210 del 1992) il Tribunale ha disposto informazioni presso una pubblica amministrazione. La censura relativa a tale potere istruttorio, oltre a quando detto, costituisce profilo nuovo, non dedotto davanti al giudice di appello (tale non può considerarsi, anche per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 in tema di difetto di autosufficienza, l’accenno “si è sostituita all’appellato, adoperandosi al di là di ogni limite, in violazione dell’art. 213” in assenza della trascrizione dell’intero motivo di appello);

sotto il secondo aspetto l’omessa pronuncia costituirebbe, al più, una ipotesi di nullità irrilevante, proprio per le ragioni dette e, dunque, inammissibile, sempre ai sensi della norma ora citata;

il secondo motivo è assorbito dall’esito del primo e, comunque, (come anche il quarto motivo) è inammissibile perchè dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento all’omessa valutazione di un fatto storico, che è, invece, rappresentato dai poteri discrezionali ed istruttori di acquisizione d’ufficio della prova ai sensi dell’art. 213 c.p.c. (in relazione, quindi ad una violazione di norme del procedimento);

il terzo ed il quarto violano l’art. 366, n. 6 e, comunque, deducono la violazione dell’art. 2697 c.c. al di fuori dei criteri indicati da Cass., S.U. n. 16598 del 2016 in motivazione, nonchè in modo generico (Cass., S. U., n. 7074 del 2017).

le censure oggetto del quinto motivo non sono chiare. Le doglianze sembrano riferirsi ad una violazione di legge relativa ai criteri di quantificazione del danno, assolutamente generica e senza specificare in cosa consista la violazione della norma invocata (R.D. 1922, che peraltro si applica alla determinazione del danno patrimoniale). In ogni caso, la questione attiene esclusivamente al merito e non è sindacabile in sede di legittimità.

il sesto motivo è inammissibile perchè la compensazione delle spese processuali è stata disposta in presenza di soccombenza reciproca, essendovi stato parziale accoglimento della domanda (Cass. n. 23381 del 2009);

ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso dì reiezione integrale, in rito o nel merito.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidandole in Euro 2.800,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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