Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33159 del 21/12/2018

Cassazione civile sez. VI, 21/12/2018, (ud. 20/09/2018, dep. 21/12/2018), n.33159

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9111-2017 proposto da:

D.G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

MARIANNA DIONIGI, 57, presso lo studio dell’avvocato AURELIO

TRICOLI, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati SARA

PROSPERI, GIULIO ERCOLE;

– ricorrente –

contro

D.A.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 5907/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 06/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di Consiglio non

partecipata del 20/09/2018 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSETTI

MARCO;

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2006 D.G.A. convenne dinanzi al Tribunale di Roma l’avvocato D.A.S., esponendo che:

-) aveva conferito all’avv. D.A. tre diversi mandati professionali;

-) col primo l’aveva incaricato di appellare una sentenza del Tribunale di Roma con cui era stata rigettata la sua impugnativa del licenziamento; col secondo l’aveva incaricato di proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di rigetto dell’appello suddetto; col terzo l’aveva incaricato di proporre una domanda nei confronti del proprio datore di lavoro, avente ad oggetto la condanna di questi al pagamento del trattamento di fine rapporto;

-) l’avvocato D.A. non adempì correttamente nessuno di questi mandati, in quanto:

(a) l’appello avverso la sentenza di rigetto dell’impugnativa del licenziamento fu dichiarato improcedibile per tardività della notifica del ricorso;

(b) il ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza d’appello non fu mai proposto;

(c) quanto all’azione di condanna del datore di lavoro al pagamento del trattamento di fine rapporto, non seppe mai se e quando fu proposta.

2. Sulla base delle circostanze appena riassunte, D.G.A. chiese la condanna dell’avvocato D.A.S. al risarcimento del danno patito in conseguenza degli inadempimenti suddetti.

3. Con sentenza 13.5.2009 n. 10156 il Tribunale di Roma rigettO la domanda, ritenendo che se anche l’avv. Silvano D.A. avesse assolto diligentemente il suo incarico, le domande giudiziali del cliente non sarebbero state accolte, a causa della loro infondatezza nel merito. La sentenza venne appellata dal soccombente.

4. La Corte d’appello di Roma con sentenza 6.10.2016 n. 5907 rigettò il gravame proposto da D.G.A..

Ritenne la Corte capitolina che:

-) l’appellante non avesse dato prova che le sue iniziative giudiziarie, se correttamente coltivate, avrebbero avuto esito favorevole, neanche sotto il profilo della perdita di Anice;

-) i documenti del cui mancato esame l’appellante si doleva erano irrilevanti rispetto alla ratio decidendi adottata dal primo giudice;

-) l’inadempimento dell’avvocato al mandato concernente la richiesta giudiziale del pagamento del trattamento di fine rapporto non risultava aver prodotto danni, posto che l’appellante non aveva nemmeno allegato di avere irrimediabilmente perduto (luci credito, per prescrizione od altra causa, in conseguenza della negligenza dell’avvocato.

5. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da D.G.A., con ricorso fondato su quattro motivi.

L’intimato non si è difeso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo di ricorso il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (deduce, in particolare, la violazione degli art. 2697 c.c.; artt. 115,116,166 c.p.c.)ò sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134).

Nella illustrazione del motivo la difesa del ricorrente, al netto delle molteplici citazioni e trascrizioni di massime giurisprudenziali, deduce (pp. 14-18) che la corte d’appello avrebbe in buona sostanza errato nel ritenere non esservi prova del fatto che, se l’appello avverso la sentenza di rigetto dell’impugnazione del licenziamento Cosse stato tempestivamente proposto, esso sarebbe stato accolto.

Alla p. 19 del ricorso, poi, il ricorrente introduce l’ulteriore doglianza secondo cui erroneamente la parte d’appello avrebbe ritenuto insussistente la prova dell’esistenza d’un danno, derivante. dall’omessa introduzione, da parte dell’avv. D.A.S., del giudizio volto ad ottenere la condanna del datore di lavoro al pagamento del trattamento di fine rapporto. Deduce che la prova di tale circostanza doveva trarsi del fatto che, nella sentenza di primo grado, il “Tribunale aveva affermato che la prescrizione del diritto al TFR aveva iniziato a decorrere dal 1988, ed era quindi maturata ben prima dell’introduzione del presente giudizio.

Infine, alla p. 21 del ricorso, il ricorrente sostiene che la Corte d’appello avrebbe “omesso di esaminare il motivo d’appello” col quale si censurava la statuizione di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto insussistente la prova del nesso di causa tra l’inadempimento del professionista e il danno lamentato dall’attore.

1.2. Nella parte in cui lamenta il vizio di nullità processuale il motivo e infondato.

L’unico vizio processuale (sommariamente) illustrato nelle otto pagine in cui si diffonde l’illustrazione del primo motivo di ricorso è, infatti, il vizio di omessa pronuncia sul motivo d’appello concernente il nesso di causa tra inadempimento e danno (p. 21, ultimo capoverso): vizio insussistente, dal momento che la Corte d’appello ha espressamente preso in esame la questione del nesso di causa, ritenendolo non provato (p. 3 della sentenza impugnata).

1.3. Nella parte in cui lamenta il vizio di omesso esame d’un fatto decisivo il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’interpretare il novellalo art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito (già tre anni prima dell’introduzione del presente ricorso) che colui il quale intenda denunciare in sede di legittimità un errore consistito nell’omesso esame d’un fatto decisivo, ha l’onere di indicare:

(a) quale fatto non sarebbe stato esaminato;

(b) quando e da chi era stato dedotto in giudizio;

(c) come era stato provato;

(d) perchè era decisivo (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014). Nel caso di specie, il primo motivo di ricorso non contiene nemmeno una delle suddette analitiche indicazioni, nè spiega in qualche modo quale “fatto materiale” la Corte d’appello avrebbe trascurato di considerare.

1.4. Nella parte, infine, in cui lamenta la violazione di legge, il motivo inammissibile, e non per una sola ragione.

In primo luogo e inammissibile perchè esso si risolve nella contestazione di un accertamento di fatto (la sussistenza del nesso di causa tra inadempimento e danno), che e riservato al giudice di merito. In secondo luogo è inammissibile perchè il ricorrente si limita a denunciare che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere insussistente il nesso di causa, senza indicare in quale errore giuridico, in quale vizio di sussunzione od in quale falsa applicazione di legge la Corte d’appello sarebbe incorsa.

A ben vedere, tutta l’illustrazione del primo motivo di ricorso si risolve nella mera enunciazione di principi giuridici, senza alcuna spiegazione del perchè essi sarebbero stati violati nel caso di specie.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, , sia il vizio di violazione di legge (assume violati gli artt. 1218 e 2697 c.c.), sia duello cli omesso esame del fatto. Nell’illustrazione del motivo si sostiene una tesi così riassumibile:

(-) nel corso del giudizio di merito, l’odierno ricorrente aveva depositato vari documenti dimostrativi della fondatezza delle sue pretese nei confronti del datore di lavoro che l’aveva licenziato, rappresentati dalle lettere di contestazione del licenziamento da lui stesso inviate al datore di lavoro;

(-) poichè in primo grado nel giudizio di impugnazione del licenziamento il datore di lavoro rimase contumace, i fatti indicati in quelle lettere “dovevano ritenersi provati”;

(-) tali documenti non vennero esaminati dalla Corte d’appello;

(-) se lo fossero stati, la Corte d’appello avrebbe dovuto concludere che se l’avv. D.A. avesse tempestivamente e ritualmente impugnato la sentenza di rigetto dell’impugnazione del licenziamento, l’appello sarebbe stato verosimilmente accolto;

(-) non esaminando quei documenti, pertanto, la Corte d’appello aveva da un lato violato l’art. 2697 c.c., e dall’altro trascurato di esaminare un “fatto decisivo”.

2.2. Anche questo motivo presenta plurimi profili di inammissibilità.

In primo luogo, esso è inammissibile perchè censura la valutazione delle prove. Nè l’omesso esame d’una prova è censurabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, dal momento che le già citate Sezioni Unite di questa Corte, nel chiarire il senso di tale ultima disposizione, hanno stabilito che per effetto della riforma “l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentata sia stato comunque preso in considerazione del giudice, ancorchè questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti”.

In secondo luogo, il motivo è comunque inammissibile perchè non riproduce nè riassume il contenuto dei documenti che si assumono trascurati dal giudice di merito, in violazione del precetto di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6.

In terzo luogo, il motivo è inammissibile perchè è estraneo alla ratio decidendi, avendo la Corte d’appello reputato che i documenti, del cui omesso esame il ricorrente si duole, fossero “non decisivi”, senza che tale statuizione sia stata censurata.

In quarto luogo, il motivo è inammissibile perchè il ricorrente non deduce se, quando e dove nei gradi di merito invocò la tesi secondo cui l’appello affidato all’avvocato D.G., se fosse stato ritualmente proposto, sarebbe stato accolto per effetto della contumacia del convenuto nel giudizio di impugnazione del licenziamento (tesi in verità, non condivisibile, posto che la contumacia neanche nel rito del lavoro equivale a ficta confessio).

3. Il terzo motivo di ricorso.

3.1. Col terzo motivo il ricorrente lamenta il vizio di omesso esame del ratio, ex art. 360 c.p.c., n. 5.

Deduce che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto inesistente la prova del nesso di causa tra l’inadempimento dell’avv. D.A. e il danno, perchè “la prova era già presente nel giudizio di primo grado”.

La illustrazione del motivo è così concepita: alle pp. 25-32 il ricorrente trascrive i motivi, a suo tempo posti dall’avv. D.A. a fondamento dell’appello proposto contro la sentenza con cui il Pretore di Roma nel 1991 aveva rigettato l’impugnazione del licenziamento. quindi, alla p. 32, secondo e terzo capoverso, il ricorrente deduce che quei motivi rendevano palese come l’appello, se fosse stato ritualmente proposto, sarebbe stato verosimilmente accorto, e che pertanto la Corte d’appello erroneamente aveva ritenuto il contrario.

3.2. Il motivo è inammissibile, dal momento che quel che viene censurato non è affatto l’omessa valutazione d’un fatto, ma l’accertamento eli merito compiuto dalla Corte d’appello.

4. Il quarto motivo di ricorso.

4.1. Col quarto motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame del fatto e “la mancata ammissione dei mezzi di prova”.

Sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato la sua domanda di risarcimento del danno per mancata introduzione, da parte dell’avv. D.G., del giudizio volto a richiedere la condanna del datore di lavoro al pagamento del TFR.

Deduce che, a causa della negligenza dell’avvocato, il suo diritto al TFR si era estinto per prescrizione, e quindi il danno esisteva ed erroneamente la Corte d’appello l’ha negato.

4.2. 11 motivo è inammissibile per estraneità alla ratio decidendi.

L’appellante in appello si era doluto del rigetto – tra le altre – della domanda di risarcimento del danno patito, in tesi, per avere l’avv. D.A. trascurato di iniziare un giudizio per ottenere la condanna del datore di lavoro del cliente al pagamento del TFR.

La Corte d’appello ha ritenuto che mancasse, rispetto a tale domanda, la prova del danno. La mancata introduzione d’una lite giudiziaria, infatti, in tanto può produrre un danno, in quanto in conseguenza di essa il diritto vada perduto, per prescrizione od altra causa estintiva del diritto.

Nel caso di specie, però, la Corte d’appello ha osservato che l’attore non avesse non solo provato, ma “nemmeno allegato” di avere irrimediabilmente perduto il credito in questione.

La Corte d’appello, quindi, ha ritenuto mancare sia la prova, sia la stessa deduzione in giudizio dell’esistenza d’un danno.

Giusta o sbagliata che fosse tale valutazione, essa costituiva una autonoma ratio decidendi, ed andava impugnata per evitare la formazione del giudicato.

Il ricorrente invece, nel quarto motivo del proprio ricorso sostiene che la sentenza d’appello avrebbe erroneamente escluso la prova dell’esistenza del danno (il che già di per sè costituisce una censura inammissibile, perchè investe una questione di fatto), ma non affronta in alcun modo l’altra statuizione, secondo cui l’appellante non aveva “nemmeno allegato” di avere perduto per prescrizione il diritto al TFR.

Per farlo, tra l’altro, il ricorrente avrebbe dovuto analiticamente indicare, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quale atto processuale ed in quali termini abbia mai dedotto, nel presentè giudizio, che il suo diritto al THZ si era prescritto per colpa dell’avvocato D.A. deduzione che però vanamente si cercherebbe nel ricorso.

5. Le spese.

Non è luogo a provvedere sulle spese, attesa la indefensio della parte intimata.

Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

PQM

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di D.G.A. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, il 20 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2018

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