Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3314 del 13/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3314 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 1408-2013 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente contro
MAGNANO FRANCO;
– intimato avverso il decreto n. 11021/2008 R.G. V.G. della CORTE
D’APPELLO di ROMA del 20/12/2010, depositato il 14/11/2011;

Data pubblicazione: 13/02/2014

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.

Ric. 2013 n. 01408 sez. M2 – ud. 09-01-2014
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Ritenuto in fatto
Il sig. Magnano Franco chiedeva alla Corte d’appello di Roma, con ricorso
ritualmente depositato, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della legge
24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio di lavoro instaurato

invocando la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni non
patrimoniali subiti per la irragionevole durata del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello, con decreto
depositato il 14 novembre 2011, sul presupposto che il giudizio (che non presentava
peculiari profili di complessità) si era irragionevolmente protratto oltre il biennio
(ovvero dal 1° febbraio 2007 all’8 marzo 2008), condannava l’Amministrazione
convenuta al pagamento, a titolo di equo indennizzo per il dedotto danno
patrimoniale, della somma di euro 1.100,00, oltre interessi dalla domanda al
soddisfo, con ulteriore condanna della stessa Amministrazione alla rifusione delle
spese giudiziali.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione il
Ministero della Giustizia, con atto spedito per la notificazione il 31 dicembre 2012,
sulla base di tre motivi. L’intimato non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Considerato in diritto
1. In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del ricorso
la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte
dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,
nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero «deve intervenire

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dinanzi al Tribunale di Cagliari, definito con sentenza depositata 1’8 marzo 2008,

nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta
l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze

della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».
Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di
fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.
Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,
citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.
376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
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dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici

abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’ad. 70, terzo comma,

Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. .
2. Ciò posto, rileva il collegio che con il primo motivo dedotto il Ministero ricorrente ha
denunciato — ai sensi dell’ad. 360, n. 3, c.p.c. – la violazione e/o falsa applicazione
dell’ad. 2 della legge n. 89 del 2001, sul presupposto che la Corte territoriale, nel
decreto impugnato, al fine di determinare l’irragionevole durata del giudizio
presupposto, aveva ingiustificatamente ritenuto che lo stesso non presentasse
particolari profili di complessità.
3. Con il secondo motivo il Ministero della Giustizia ha prospettato (ai sensi dell’ad.
360, comma 1, n. 5, c.p.c.) il vizio di omessa od insufficiente motivazione del decreto
impugnato con riferimento al profilo dedotto con la prima censura.
4. Con il terzo motivo il Ministero ricorrente ha inteso far valere la supposta
violazione e/o falsa applicazione dell’ad. 112 c.p.c., avendo la Corte capitolina
pronunciato “ultra petitum”, riconoscendo al ricorrente — in difetto di una sua specifica

c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.

domanda in proposito – gli interessi legali a decorrere dalla domanda anziché dalla
pubblicazione del decreto.
5. Rileva il collegio che le prime due censure — esaminabili congiuntamente perché
investono la medesima questione sotto i diversi profili della violazione di legge e del

E’ risaputo, sul piano generale, che nel giudizio per l’equa riparazione per la
violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma dell’ad. 2, comma
secondo, della legge n. 89 del 2001, la parte assolve all’onere di allegazione dei fatti
costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a determinare la durata
complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della Corte d’appello adita di
accertare, d’ufficio o su sollecitazione dell’Amministrazione convenuta, le cause che
abbiano giustificato in tutto o in parte la durata del procedimento (cfr. Cass. n. 2207
del 2010). E’ anche risaputo che il danno patrimoniale indennizzabile come
conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi
della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soltanto quello che costituisce “conseguenza
immediata e diretta” del fatto causativo (art. 1223 c.c. richiamato dall’ad. 2, comma 3,
legge cit. attraverso il rinvio all’ad. 2056 stesso codice), in quanto sia collegabile al
superamento del termine ragionevole e trovi appunto causa nel non ragionevole
ritardo della definizione del processo presupposto. Si è, altresì, puntualizzato che, in
tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del
processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, solo il danno patrimoniale,
diversamente da quello non patrimoniale (per il quale occorre soltanto l’allegazione
quale conseguenza dell’irragionevole durata del processo presupposto), deve essere
oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli
estremi, fra l’altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile

– 6 –

vizio di motivazione — sono infondate per le ragioni che seguono.

l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto (cfr. Cass. n. 5213 del
2007 e, da ultimo, Cass. n. 14775 del 2013).
E’, peraltro, importante rilevare (cfr., ad es., Cass. n. 15750 del 2006 e Cass. n.
24399 del 2009) che, in tema di diritto all’equa riparazione di cui alla legge 24 marzo

conto dei criteri cronologici elaborati dalla giurisprudenza della Corte europea dei
diritti dell’uomo, alle cui sentenze, riguardanti l’interpretazione dell’art. 6, par. 1, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, richiamato dalla norma interna, deve
riconoscersi soltanto il valore di precedente, non sussistendo nel quadro delle fonti
meccanismi normativi che ne prevedano la diretta vincolatività per il giudice italiano.
Anche in tale prospettiva, l’accertamento della sussistenza dei presupposti della
domanda di equa riparazione – ovvero, la complessità del caso, il
comportamento delle parti e la condotta dell’autorità – così come la misura del
segmento, all’interno del complessivo arco temporale del processo, riferibile
all’apparato giudiziario, in relazione al quale deve essere emesso il giudizio di
ragionevolezza della relativa durata, risolvendosi in un apprezzamento di fatto,
appartiene alla sovranità del giudice di merito e può essere sindacato in sede
di legittimità solo per vizi attinenti alla motivazione.

Orbene, nella specie, la Corte di appello di Roma, nel decreto impugnato, ha
sufficientemente spiegato che la causa relativa al giudizio presupposto non era
connotata da peculiari profili di complessità (vertendo sul risarcimento del danno da
licenziamento illegittimo), in tal senso assolvendo adeguatamente all’obbligo di
motivazione nella giustificazione della insussistenza del requisito della complessità
(oltre a rilevare che la condotta delle parti non aveva inciso in modo apprezzabile sui
tempi di svolgimento del giudizio medesimo) e, quindi, nel ritenere legittimamente

– 7 –

2001, n. 89, per la valutazione della ragionevole durata del processo deve tenersi

I

che il predetto giudizio avrebbe potuto essere ragionevolmente definito in primo
grado in un termine biennale.
6. Anche il terzo motivo è destituito di fondamento risultando insussistente il dedotto
vizio di ultrapetizione, dal momento che la Corte territoriale ha liquidato il solo danno

domanda al saldo, come spettanti ed invocati dal ricorrente.
7. In definitiva, sulla scorta delle ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente
respinto, senza che occorra far luogo ad alcuna pronuncia sulle spese del presente
giudizio, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PER QUESTI MOTIVI
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

patrimoniale come richiesto, con il riconoscimento degli interessi legali dalla

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