Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 3313 del 13/02/2014


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 3313 Anno 2014
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

SENTENZA
sul ricorso 1135-2013 proposto da:
FORCINITI MARIA FRCMRA66P43D184G, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA COSTANTINO CORVISIERL 17, presso
lo studio dell’avvocato ALESSANDRO RUSSO, rappresentata e
difesa dagli avvocati SERO FILIPPO, LUCIANO CAPRISTO giusta
delega in calce al ricorso;
– ricorrente contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

Data pubblicazione: 13/02/2014

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– con troricorrente avverso il decreto n. 31/10 della CORTE D’APPELLO di SALERNO

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
09/01/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ALDO CARRATO.

Ric. 2013 n. 01135 sez. M2 – ud. 09-01-2014
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del 6/03/2012, depositato V11/05/2012;

Ritenuto in fatto
La sig.ra Forciniti Maria chiedeva alla Corte d’appello di Catanzaro, con ricorso
depositato il 14 gennaio 2010, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi della
legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di una procedura fallimentare

insinuata per l’ammissione allo stato passivo con istanza depositata 111 luglio 1990
(il cui credito era, poi, stato ammesso per l’intero a seguito di opposizione con
sentenza del medesimo Tribunale depositata il 28 gennaio 2000), invocando, la
condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento dei danni non patrimoniali
(quantificati nell’importo di euro 64.000,00, salva diversa misura da determinarsi
giudizialmente) e di quelli patrimoniali (per la somma di euro 10.000,00) subiti per la
irragionevole durata complessiva della indicata procedura.
Nella contumacia del resistente Ministero della Giustizia, l’adita Corte di appello, con
decreto depositato 1’11 maggio 2012, accertava l’irragionevole ritardo della suddetta
procedura nella durata di anni dieci e mesi tre (con riferimento alla posizione della
Forciniti) e condannava l’Amministrazione convenuta al pagamento — a titolo di
indennizzo per i dedotti danni non patrimoniali – della somma di euro 10.250,00
(liquidando l’importo di euro 1000,00 per ogni anno), oltre interessi dalla domanda,
rigettando la domanda in ordine al riconoscimento del danno patrimoniale e
compensando, per intero, le spese giudiziali.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione la
Forciniti Maria con atto notificato il 7 dicembre 2012, sulla base di due motivi.
L’intimato Ministero si è costituito con controricorso.
Considerato in diritto

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instaurata dinanzi al Tribunale di Cosenza, nella quale la stessa Forciniti si era

1. – In via preliminare, il Collegio rileva che non è di ostacolo alla trattazione del
ricorso la mancata presenza, alla odierna pubblica udienza, del rappresentante della
Procura generale presso questa Corte.
Invero, l’art. 70, secondo comma, c.p.c., quale risultante dalle modifiche introdotte

nella legge 9 agosto 2013, n. 98, prevede che il pubblico ministero ((deve intervenire
nelle cause davanti alla Corte di cassazione nei casi stabiliti dalla legge». A sua volta

l’art. 76 del r.d. 10 gennaio 1941, n. 12, come sostituito dall’art. 81 del citato decretolegge n 69, al primo comma dispone che «Il pubblico ministero presso la Corte di
cassazione interviene e conclude: a) in tutte le udienze penali; b) in tutte le udienze
dinanzi alle Sezioni unite civili e nelle udienze pubbliche dinanzi alle sezioni semplici
della Corte di cassazione, ad eccezione di quelle che si svolgono dinanzi alla
sezione di cui all’articolo 376, primo comma, primo periodo, del codice di procedura
civile». L’art. 376, primo comma, c.p.c. stabilisce che «Il primo presidente, tranne
quando ricorrono le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita
sezione che verifica se sussistono i presupposti per la pronunzia in camera di
consiglio».

Infine, l’art. 75 del già citato decreto-legge n. 69 del 2013, quale risultante dalla legge
di conversione n. 98 del 2013, dopo aver disposto, al primo comma, la sostituzione
dell’art. 70, secondo comma, del codice di rito, e la modificazione degli artt. 380-bis,
secondo comma, e 390, primo comma, del medesimo codice, per adeguare la
disciplina del rito camerale alla disposta esclusione della partecipazione del pubblico
ministero alle udienze che si tengono dinnanzi alla sezione di cui all’art. 376, primo
comma, al secondo comma ha stabilito che «Le disposizioni di cui al presente
articolo si applicano ai giudizi dinanzi alla Corte di cassazione nei quali il decreto di

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dall’art. 75 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni,

fissazione dell’udienza o dell’adunanza in camera di consiglio sia adottato a partire
dal giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge di conversione del
presente decreto», e cioè a far data dal 22 agosto 2013.

Orbene, il Collegio rileva che l’esplicito riferimento contenuto nell’art. 75, comma 2,

376, primo comma, c.p.c.), consenta di ritenere, non solo, che la detta sezione è
abilitata a tenere pubbliche udienze e non solo adunanze camerali, ma anche che
alle udienze che si tengono presso la stessa sezione non è più obbligatoria la
partecipazione del pubblico ministero. Rimane impregiudicata, ovviamente, la facoltà
dell’ufficio del pubblico ministero di intervenire ai sensi dell’art. 70, terzo comma,
c.p.c., e cioè ove ravvisi un pubblico interesse.
Nel caso di specie, il decreto di fissazione dell’udienza odierna è stato adottato in
data 25 settembre 2013, sicché deve concludersi che l’udienza pubblica è stata
ritualmente celebrata senza la partecipazione del rappresentante della Procura
generale presso questa Corte, non avendo il detto ufficio, al quale pure copia
integrale del ruolo di udienza era stata trasmessa, ravvisato un interesse pubblico
che giustificasse la propria partecipazione ai sensi del citato art. 70, terzo comma,
c.p.c. .
2.- Ciò posto, con il primo motivo, la ricorrente ha dedotto — ai sensi dell’art. 360,
comma 1, n. 3, c.p.c. — la violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi 2 e 3,
della legge n. 89 del 2001 e dell’art. 6 della C.E.D.U., avuto riguardo alla
determinazione della ragionevole durata della procedura fallimentare in anni nove,
anziché in sette, sulla base del criterio stabilito dalla giurisprudenza di legittimità con
riferimento alle procedure fallimentari di particolare complessità, con conseguente
illegittimità della riduzione dell’equo indennizzo effettivamente spettante.

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citato, alle udienze che si tengano presso la Sesta sezione (e cioè quella di cui all’art.

3. — Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione e falsa
applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., in ordine alla ritenuta illegittimità della disposta
compensazione totale delle spese giudiziali, malgrado la soccombenza
assolutamente prevalente del Ministero della Giustizia.

seguono.
Pacifica l’applicabilità della disciplina di cui alla legge n. 89 del 2001 anche con
riferimento alle procedure fallimentari (cfr., da ultimo, Cass. n. 13605 del 2013, con la
quale è stato riconosciuto il diritto all’ottenimento dell’indennizzo anche da parte del
fallito), osserva il collegio che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte
(cfr., ad es., Cass. n. 8468 del 2012 e Cass. n. 9254 del 2012), in tema di equa
riparazione per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma
dell’art. 2, comma secondo, della legge n. 89 del 2001, la durata delle procedure
fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte europea dei
diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per
quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, la particolare
natura o situazione giuridica dei beni da liquidare, la proliferazione di giudizi connessi
o la pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata
complessiva di sette anni.
Pertanto, con riferimento al caso di specie, pur condividendosi la riconduzione della
procedura fallimentare in quelle di notevole complessità (alla stregua del consistente
numero delle pretese creditorie insinuatesi tempestivamente, di quelle sopravvenute
successivamente, della instaurazione dei giudizi di accertamento conseguenti alle
formulate opposizioni allo stato passivo e della difficoltà attinente alla vendita dei
cespiti immobiliari), la Corte di appello salernitana non avrebbe potuto, comunque,

4. — Rileva il collegio che la prima censura è fondata per le ragioni e nei termini che

superare il limite massimo di sette anni relativo alla determinazione della durata
ragionevole della suddetta procedura.
Di conseguenza, sulla scorta di tale rideterminazione, alla Forciniti va riconosciuto un
indennizzo complessivo da rapportare alla durata irragionevole della procedura

rideterminazione dell’importo totale alla stessa dovuto (per effetto del computo di
euro 1000,00 per ogni anno di ritardo, misura che il resistente Ministero non ha
idoneamente confutato proponendo in merito apposito ricorso incidentale) nella
misura finale di euro 12.250,00 a titolo di ristoro dei danni non patrimoniali subiti.
In tali sensi, quindi, la prima censura deve essere accolta e a tale pronuncia
consegue l’assorbimento del secondo motivo, riguardante la disposta
compensazione totale delle spese, poiché, a seguito della rilevata fondatezza della
doglianza principale, occorre provvedere in questa sede alla regolazione delle spese
dell’intero giudizio, potendosi decidere la causa direttamente nel merito, non essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto.
E’ risaputo (cfr. Cass. n. 12963 del 2007 e Cass. n. 26985 del 2009), in proposito
che, in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice del gravame, mentre
nel caso di rigetto dell’impugnazione non può, in mancanza di uno specifico motivo di
impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali del grado
precedente, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a
provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua
dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336
c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo
della pronuncia che ha statuito sulle spese.

fallimentare protrattasi per anni 12 e mesi 3 (anziché per anni 10 e mesi 3), con

Quanto alla disciplina delle spese in concreto, il collegio – avuto riguardo al
sostanziale ridimensionamento della pretesa indennitaria dedotta nell’interesse della
ricorrente (e, quindi, ad una soccombenza reciproca delle parti: v. Cass. n. 22381 del
2009 e, da ultimo, Cass. n. 21684 del 2013), al comportamento delle parti e alla

disporre la compensazione parziale (nella misura delle metà) delle spese del grado
di merito, ponendosi, comunque, a carico del resistente Ministero — in quanto
prevalentemente soccombente — l’onere del pagamento della residua metà.
Sussistono, invece, giusti ed idonei motivi, in dipendenza della natura della causa e
dei limiti relativi alla pronuncia di accoglimento finale della pretesa avanzata dalla
ricorrente, per disporre l’integrale compensazione delle spese della presente fase di
legittimità.
Le spese riconosciute come spettanti in favore della ricorrente — con riferimento al
grado di merito – si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa il
decreto impugnato e, decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta
nell’interesse di FORCINITI MARIA e, per l’effetto, condanna il Ministero della
Giustizia al pagamento, in favore della predetta ricorrente, della somma di euro
12.250,00 a titolo di equa riparazione per il titolo dedotto in giudizio, oltre interessi
legali dalla domanda al saldo.
Condanna, altresì, lo stesso Ministero al pagamento della metà delle spese del grado

di merito, che liquida, nel loro totale, in euro 1.140,00, di cui euro 50,00 per esborsi,
euro 490,00 per diritti ed euro 600,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli
accessori di legge, dichiarandole compensate per la residua metà.

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natura del giudizio presupposto — ritiene che sussistano gravi ed obiettive ragioni per

Compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte

suprema di Cassazione, in data 9 gennaio 2014.

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