Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 331 del 10/01/2018

Cassazione civile, sez. lav., 10/01/2018, (ud. 13/09/2017, dep.10/01/2018),  n. 331

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 5.10.2015, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accertato l’illegittimità del licenziamento intimato a V.P. dalla Derico New Geo Srl ed ha condannato la società al pagamento di una somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, richiamando il comma sesto della L. n. 300 del 1970, art. 18, come novellato dalla L. n. 92 del 2012.

La Corte territoriale ha preliminarmente ritenuto che il licenziamento fosse riconducibile non ad un illecito disciplinare bensì ad un fatto oggettivo che non aveva reso possibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, nella specie consistente in una interdittiva prefettizia che aveva evidenziato il pericolo di infiltrazioni mafiose nell’azienda in ragione della presenza di lavoratori aventi precedenti penali e comunque vicini, per rapporti di parentela o affinità, ad esponenti dei locali clan mafiosi. Tale provvedimento aveva comportato una modifica dell’organizzazione dell’impresa, “pacificamente votata in via esclusiva o comunque prevalente all’acquisizione ed esecuzione di appalti pubblici (raccolta e smaltimento dei rifiuti e nettezza urbana)”, al fine di evitare la perdita di commesse.

Premesso che il provvedimento prefettizio che aveva originato tale riorganizzazione era successivamente venuto meno, perchè dichiarato illegittimo dal giudice amministrativo, la Corte calabra ha considerato che non sussistesse il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, tanto che il provvedimento de quo era stato tempestivamente ritenuto illegittimo dal datore ed impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa. Ha aggiunto che “il datore, infatti, nelle more del ricorso giurisdizionale amministrativo, ben avrebbe potuto procedere ad una temporanea sospensione del rapporto con i lavoratori, indicati come segno di infiltrazione mafiosa, trattandosi di circostanza che sottoposta a vaglio giurisdizionale ben poteva essere ritenuta temporanea”.

Quindi, una volta accertata la mancanza di un “giustificato motivo oggettivo di licenziamento”, la Corte di Appello ha considerato però che non potesse “qualificarsi la fattispecie come priva in modo manifesto dei fatti astrattamente idonei a cagionare i licenziamenti”.

La sentenza d’appello ha poi così testualmente concluso: “non può, allora, ad avviso della Corte, farsi applicazione alla fattispecie in esame del novellato art. 18, comma 4, bensì del comma 6, che richiama il quinto”.

2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore con quattro motivi. Ha resistito la società con controricorso, contenente ricorso incidentale affidato ad un motivo.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Per ragioni di carattere logico-giuridico deve essere prioritariamente esaminato il ricorso incidentale della società, in quanto con esso si contesta l’illegittimità del licenziamento ritenuta dalla Corte territoriale.

Con un unico motivo si denuncia testualmente “violazione e falsa applicazione di norme e principi di diritto”; sarebbe viziato l’iter motivazionale della sentenza impugnata che violerebbe il principio secondo cui “la sentenza fa stato fra le parti presenti nel processo”, atteso che il lavoratore non aveva partecipato al processo amministrativo sicchè gli effetti della sentenza che aveva caducato il provvedimento prefettizio potevano prodursi esclusivamente nei confronti della società e delle amministrazioni pubbliche presenti in detto giudizio; si deduce che sulla valutazione della legittimità del licenziamento non potevano influire fatti successivi quali la sentenza del TAR Calabria.

Il motivo, così come formulato, è inammissibile.

Non solo nella rubrica di esso, ma anche nell’illustrazione non viene indicata in alcun modo norma di diritto alla quale parametrare la denunciata violazione e falsa applicazione di legge, in modo da consentire a questa Corte il sindacato sulla sentenza impugnata previsto secondo i canoni della critica rigorosamente vincolata dall’art. 360 c.p.c..

Infatti secondo il costante insegnamento di questa Corte, proprio con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

Inoltre le doglianze proposte appaiono prive di adeguata specificità ed inconferenti rispetto al decisum atteso che la Corte territoriale non ha affatto ritenuto l’illegittimità del licenziamento in ragione di un preteso giudicato amministrativo.

Dalla così affermata inammissibilità del ricorso incidentale deriva altresì l’irrilevanza della sentenza del Consiglio di Stato prodotta dalla difesa della società all’udienza pubblica e resa all’esito del giudizio amministrativo di impugnativa del provvedimento prefettizio.

2. Posta quindi l’illegittimità del licenziamento con una statuizione della Corte calabra che, per quanto innanzi esposto, ha superato il vaglio di legittimità, è possibile esaminare i motivi di ricorso principale.

3. Con il primo motivo di esso si denuncia “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto – illogicità manifesta” e, in particolare, “violazione e falsa applicazione degli artt. 1,3,24,27 Cost.”, lamentando testualmente che la Corte di Appello abbia “riconosciuto come giusto motivo di licenziamento di un lavoratore una mera supposizione dedotta da un atto illegittimo”, rappresentato dal provvedimento prefettizio formato in carenza di contraddittorio e privo di riscontro probatorio.

Il motivo soffre le medesime mancanze del ricorso principale per la palese genericità delle critiche svincolate dalla forma necessaria che deve assumere l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; inoltre esso si fonda su di un presupposto errato, in quanto la Corte distrettuale ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento del ricorrente e non, come da questi sostenuto, il suo contrario, sicchè le censure svolte si manifestano inammissibili anche per inconferenza.

4. Con il secondo motivo del ricorso principale si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori per non avere la Corte territoriale ritenuto rientrante nell’ipotesi di “manifesta insussistenza” il licenziamento in controversia, negando così la tutela reintegratoria. Si considera la motivazione della sentenza impugnata come “manifestamente illogica, insufficiente” non risultando in alcun modo provato che il lavoratore ricorrente avesse avuto legami con soggetti appartenenti alle consorterie mafiose. Si eccepisce che la interdittiva antimafia era improduttiva di effetti, perchè caducata a seguito di sentenza del giudice amministrativo. Si sostiene l’illogicità della motivazione che consentirebbe una “discriminazione sociale del lavoratore” fondata su di un atto amministrativo illegittimo che postulava indagini investigative abusive.

Il motivo è infondato in tutte le sue argomentazioni, considerando la natura residuale della tutela reintegratoria, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, novellato, già affermata da questa Corte (v. Cass. n. 14021 del 2016).

Invero la L. n. 92 del 2012, graduando le tutele in caso di licenziamento illegittimo, ha previsto al quarto comma del nuovo art. 18 una tutela reintegratoria definita “attenuata” (per distinguerla da quella più incisiva di cui al comma 1), in base alla quale il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento di una indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, in misura comunque non superiore a 12 mensilità; al comma 5 dello stesso articolo è prevista, invece, una tutela meramente indennitaria per la quale il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 mensilità e un massimo di 24, tenuto conto di vari parametri contenuti nella disposizione medesima.

La linea di confine tra le due tutele, in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, è disegnata dell’art. 18, comma 7, novellato secondo la seguente formulazione testuale per cui il giudice: “Può altresì applicare la predetta disciplina (ndr. quella di cui al quarto comma) nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al comma 5”.

Da più parti è stata segnalata l’incertezza di portata applicativa cui può dar luogo la norma citata che ricollega alla nozione di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo” conseguenze rilevanti quali il riconoscimento di una tutela di tipo reintegratorio in luogo di una mera compensazione economica.

Secondo la pronuncia di questa Corte già citata – che qui si condivide – poichè il giudice “può” attribuire la cd. tutela reintegratoria attenuata, tra tutte le “ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi” del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel caso in cui il “fatto posto a base del licenziamento” non solo non sussista, ma anche a condizione che detta “insussistenza” sia “manifesta”, non pare dubitabile che l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo normativo, sia quella di riservare il ripristino del rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia di licenziamento individuale per motivi economici.

Ciò detto nella specie non è in dubbio l’esistenza, al momento del licenziamento, dell’interdittiva prefettizia, afferente anche la posizione del lavoratore in controversia, potenzialmente idonea ad incidere sul regolare funzionamento dell’organizzazione del lavoro dell’impresa datrice ai sensi della L. n. 604 del 1966, art. 3; l’illegittimità del recesso sta piuttosto nel non avere la società dimostrato le ragioni che rendevano intollerabile attendere la rimozione dell’impedimento alle normali funzioni del lavoratore, impedimento che poteva avere una durata temporanea tenuto conto che l’azienda – come accertato dalla Corte territoriale – aveva “tempestivamente ritenuto illegittimo” il provvedimento e lo aveva “impugnato dinanzi agli organi della giustizia amministrativa” (cfr. Cass. n. 7904 del 1998, con cui questa Corte ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva ritenuto sorretto da un giustificato motivo oggettivo il licenziamento intimato da una società appaltatrice del servizio di nettezza urbana di un Comune siciliano commissariato ad un proprio dipendente che, da una comunicazione del Commissario straordinario del Comune stesso, risultava in una condizione di “incompatibilità ambientale” ad operare nel territorio comunale perchè “affiliato” ad organizzazioni malavitose).

Pertanto tale ipotesi è riconducibile non a quella peculiare che postula un connotato di particolare evidenza nell’insussistenza del fatto posto a fondamento del recesso, bensì è sussumibile nell’alveo di quella di portata generale per la quale è sufficiente che “non ricorrano gli estremi del predetto giustificato motivo” oggettivo.

5. Respinto quindi il secondo motivo del ricorso, deve invece essere accolto il quarto, da trattarsi per connessione, in quanto con esso, in subordine, si lamenta la limitazione del risarcimento a sei mensilità, invocando una misura maggiore per l’illegittimo licenziamento.

Infatti la Corte territoriale ha erroneamente parametrato la condanna della datrice di lavoro ad una somma pari a sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Invero la tutela della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, modificato dalla L. n. 92 del 2012, “con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata… tra un minimo di sei ed un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto”, applicata dalla Corte territoriale, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione del licenziamento, della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 o della procedura conciliativa prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 7.

Ipotesi all’evidenza non ricorrenti nella specie.

Una volta esclusa “la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo… nelle altre ipotesi – come quella in controversia – in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma”, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in base alla valutazione degli elementi indicati nel medesimo comma.

6. E’ invece inammissibile il terzo motivo di ricorso principale con cui genericamente si denuncia “violazione e falsa applicazione di legge – L. n. 104 del 2010 – L. n. 241 del 1990 – violazione di giudicato”, sostenendo che la Corte di Appello ha “ritenuto valevole a costituire come elemento di prova a sfavore del lavoratore/ricorrente quanto illegittimamente dedotto nei confronti di quest’ultimo dall’illegittima interdittiva antimafia già annullata dal giudice amministrativo”, senza adeguatamente documentare che è effettivamente intervenuto il preteso giudicato amministrativo (peraltro il Consiglio di Stato ha poi posto nel nulla l’originario annullamento di primo grado del provvedimento prefettizio).

7. Conclusivamente, dichiarato inammissibile il ricorso incidentale, quello principale, respinta ogni altra censura, va accolto nel solo suo quarto mezzo di gravame, con cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso al fine di stabilire l’indennità risarcitoria onnicomprensiva commisurata tra un minimo di 12 mensilità ad un massimo di 24, secondo quanto previsto del novellato dalla L. n. 92 del 2012, art. 18, comma 5.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese.

Occorre dare atto della sussistenza, per la sola ricorrente incidentale, dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte, rigettato ogni altro motivo del ricorso principale, accoglie il quarto, cassa la sentenza impugnata in relazione ad esso, rinvia alla Corte di Appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese; dichiara inammissibile il ricorso incidentale.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2018

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