Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33048 del 20/12/2018

Cassazione civile sez. II, 20/12/2018, (ud. 22/05/2018, dep. 20/12/2018), n.33048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7411-2017 proposto da:

A.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

GRACCHI 39, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA GIUFFRE’,

rappresentato e difeso dall’avvocato FEDERICO PERGAMO;

– ricorrente –

e contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende o e legis;

– resistente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

21/09/2016, RG.n. 55042/2011, Cron. 6384/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/05/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

A.V., con ricorso iscritto presso questa Corte il 21.6.2011 esponeva che con ricorso notificato in data 16.9.1999 aveva impugnato avanti al TAR della Campania, sezione di Napoli, il provvedimento della Giunta Regionale della Campania che lo aveva reinquadrato con il profilo professionale di funzionario architetto a partire dal 2.6.1999, anzichè da data anteriore.

Il Tar con sentenza depositata in data 3.11.2006 aveva accolto il ricorso.

La regione Campania aveva impugnato la sentenza avanti al Consiglio di Stato con ricorso in data 19.1.2007; ed il procedimento era stato definito con sentenza depositata in data 18.1.2011. Tanto premesso chiedeva, quindi, ex lege n. 89 del 2001, la condanna del Ministero, alla liquidazione dei danni non patrimoniali subiti a causa della non ragionevole durata del processo presupposto, in misura di Euro 10.500,00, o in quella diversa somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, nonchè alla rifusione delle spese processuali.

Si costituiva il Ministero, eccependo l’indeterminatezza del ricorso, la prescrizione, l’incompetenza della Corte ed, infine, l’infondatezza nel merito.

La Corte di Appello di Roma con decreto n. cronolog. 6384 del 2016 accoglieva la domanda e condannava il Ministero della Giustizia al pagamento della somma di Euro 3.000,00, oltre interessi nella misura di legge nonchè al pagamento delle spese del giudizio. Secondo la Corte distrettuale, la domanda per equa riparazione de qua era stata proposta nei termini di legge, ricorreva la competenza della Corte di Appello di Roma, posto che il processo presupposto si era svolto presso il Tar di Napoli. Nel merito calcolava in sei anni l’eccesiva durata del processo, posto che, nel suo totale, il processo era durato undici anni. L’indennizzo nel caso di specie doveva essere quantificato, applicando la misura di 500 Euro per ogni anno di ritardo, tenendo conto di un modesto paterna d’animo, dell’oggetto della domanda del giudizio presupposto, della pretesa posta a base della stessa, non certo incidente sulla carriera.

La cassazione di questo decreto è stata chiesta da A.V., con ricorso affidato a tre motivi. Il Ministero della Giustizia, in data 12 maggio 2017, ha depositato per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, atto di costituzione al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione della causa. In prossimità dell’udienza camerale, il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.= Con il primo motivo, A.V. lamenta “violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 ratione temporis vigente. Violazione dell’art. 111 Cost. Violazione della legge di esecuzione del Trattato. Violazione e falsa applicazione dell’art. 6 del Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e legge di ratifica della stesa come interpretata dalla CEDU. Il tutto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.”

Secondo il ricorrente, i criteri posti a fondamento della quantificazione dell’equo indennizzo richiesto non sarebbero quelli previsti dalla normativa di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 ratione temporis applicabile, posto che questa norma prescrive che “nell’accertare la violazione, il giudice considera la complessità del caso e in relazione alla stessa il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, nonchè quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a, comunque, contribuire alla sua definizione (…)”. E di più, la Corte distrettuale, sempre secondo il ricorrente, non avrebbe correttamente valutato la rilevanza del processo presupposto sul paterna d’animo dell’attuale ricorrente, posto che la decisione del giudizio presupposto incideva sulla carriera del funzionario pubblico, precludendogli una progressione della stessa.

1.1.= Il motivo è infondato perchè muove da un errato presupposto e, cioè, che la Corte distrettuale abbia riferito al caso in esame le disposizioni normative contenute nel D.L. n. 83 del 2012 che hanno apportato modifiche al precedente testo della L. n. 89 del 2001, entrate in vigore in epoca successiva alla proposizione della domanda, oggetto del presente giudizio. Piuttosto, i criteri applicati dalla Corte distrettuale nella determinazione dell’equo indennizzo per l’eccessivo protrarsi del giudizio presupposto (modesto patema d’animo, l’oggetto della domanda del giudizio presupposto, della pretesa posta a base della stessa non certo incidente sulla carriera) rispondono correttamente alla normativa di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 vigente prima della riforma attuata con D.L. n. 83 del 2012, così come interpretata da questa stessa Corte in varie occasioni. Nei precedenti di questa Corte, antecedenti alla vigenza del citato L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, nei quali si affermava che la quantificazione del danno non patrimoniale dovesse essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per i primi tre anni di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, e salire per il periodo successivo ad Euro 1.000,00, veniva, invero, comunque, sempre ribadito che la valutazione dell’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) potesse giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non legittimandosi unicamente il riconoscimento di un importo irragionevolmente inferiore a quello risultante dall’applicazione dei predetti criteri, dal momento che solo la liquidazione di un indennizzo poco più che simbolico o, comunque, manifestamente inadeguato contrasterebbe con l’esigenza, posta a fondamento della L. n. 89 del 2001, di assicurare un serio ristoro al pregiudizio subito dalla parte per effetto della violazione dell’art. 6, par. 1, della Convenzione (Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12937; Cass. Sez. 1, 24/07/2009, n. 17404). Così, sempre prima dell’introduzione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis questa Corte ha avuto modo reiteratamente di affermare che il criterio di Euro 500,00 per anno di ritardo non può ritenersi, di per sè, irragionevole e inidoneo ad assicurare un adeguato ristoro alla parte interessata (Cass. Sez. 2, 27/10/2014, n. 22772).

2.= Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014 Violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Secondo il ricorrente, la Corte distrettuale avrebbe liquidatè le spese processuali in una misura “miserrima”, giustificando tale liquidazione alla luce della natura della controversia e della non difficoltà delle questioni affrontate.

2.1.= Il motivo è inammissibile, perchè generico, apodittico, espresso in maniera per nulla perspicua e sostanzialmente privo di concludenza. Il ricorrente, infatti, non censura le ragioni che hanno indotto la Corte distrettuale a determinare la disposta liquidazione delle spese processuali, ma si limita a ritenere che le ragioni addotte dalla Corte distrettuale sono apodittiche e inadeguate. E di più, o soprattutto, il ricorrente non arriva a chiarire se la liquidazione effettuata dalla Corte distrettuale non rispetti il minimo stabilito dal D.M. n. 55 del 2014, posto che è principio pacifico nella giurisprudenza, anche di questa Corte di Cassazione che il Giudice del merito non può liquidare le spese di giudizio in misura inferiore ai minimi disposti dalla tariffa forense. Senza dire che non supera i limiti di un’opinione soggettiva il ritenere che la somma di Euro 915,00 per compensi professionali (e dunque in disparte le spese e oneri accessori) sia simbolica e non consona al decoro professionale.

3.= Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta error in procedendo, nullità della decisione e/o del procedimento ex art. 360 c.p.c., n. 4 in relazione alla L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 4 ratione temporis vigente.

Secondo il ricorrente, il decreto impugnato sarebbe nullo perchè, contrariamente a quanto dispone la L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 6, e art. 11 c.p.p., secondo cui la Corte di Appello avrebbe dovuto pronunciare “entro quattro mesi dal deposito del ricorso, decreto impugnabile per cassazione”, epperò, il ricorso sarebbe stato depositato il 21 giugno 2011 e il decreto è stato pronunciato il 12 ottobre 2015 e depositato in cancelleria il 21 settembre 2016, ovvero a distanza di ben cinque anni, dal deposito del ricorso.

3.1.= Anche questo motivo è infondato. In primo luogo perchè il termine indicato dalla L. n. 89 del 2001, art. 3 secondo il quale “La corte pronuncia, entro quattro mesi dal deposito del ricorso (….) ” non è e, non poterebbe essere, un termine perentorio, ma, semplicemente, ordinatorio, perchè diversamente, ritenendo che, oltre il termine di quattro mesi,la Corte di Appello non potrebbe più definire il procedimento, verrebbe vanificata l’utilità dello stesso procedimento, privando il soggetto interessato di uno strumento di tutela. Comunque, si tratta di un termine per il quale non è prevista la nullità del decreto emesso oltre il termine appena indicato e nel sistema normativo vigente la nullità degli atti giudiziali non sussiste se non viene prescritta da una norma specifica.

Piuttosto, il mancato rispetto di quel termine (eliminato dalle successive riforme) può dar vita ad una nuova ipotesi di equo indennizzo per eccesiva durata del processo. Come è stato osservato dalla Dottrina processualistica: le Corti d’Appello non sono state in grado di far fronte alla notevole mole di nuovi ricorsi, nè di rispettare il termine (quattro mesi) previsto dalla legge per il procedimento (camerale, nella prima formulazione della L. n. 89 del 2001), con la conseguenza che si è assistito al fenomeno della c.d. “Pinto sulla Pinto”, cioè alla richiesta di risarcimenti per il ritardo nella definizione, non solo della prima causa, ma anche della causa sul ritardo.

In definitiva, il ricorso va rigettato e il ricorrente, in ragione del principio di soccombenza ex art. 91 c.p.c. condannato a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che vengono liquidate con il dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, condanna il ricorrente a rimborsare parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 900,00 oltre le spese prenotate a debito ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 22 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2018

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