Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 33045 del 16/12/2019

Cassazione civile sez. trib., 16/12/2019, (ud. 24/10/2019, dep. 16/12/2019), n.33045

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 24965/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

FARO SRL, rappresentata e difesa dall’avv. Corinna Marzi e dall’avv.

Barbara Capri, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv.

Corinna Marzi, in Roma, via Giuseppe Ferrari, n. 35.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, sezione n. 30, n. 2039/30/14, pronunciata il 13/05/2014,

depositata il 16/06/2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24 ottobre

2019 dal Consigliere Riccardo Guida.

Fatto

RILEVATO

che:

l’Agenzia delle entrate ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza della CTR della Sicilia, indicata in epigrafe, che, in accoglimento dell’appello della Faro Srl, ha riformato la sentenza n. 345/5/13, della CTP di Agrigento che, a sua volta, aveva respinto il ricorso della contribuente avverso l’avviso di accertamento con il quale, da un lato, in seguito alla rideterminazione del reddito di impresa della società, a ristretta base partecipativa, relativo al 2007, in Euro 550.116,00, era stato quantificato in Euro 27.506,00 l’utile distribuito alla socia R.A. (titolare del 5% del capitale sociale, l’altro socio essendo titolare del residuo 95%), e, dall’altro, previa rettifica della dichiarazione della società, quale sostituto d’imposta, le erano contestate l’omessa applicazione della ritenuta del 12,5% sull’utile distribuito (di Euro 27.506,00), per un ammontare di Euro 3.438,25;

in particolare, il giudice d’appello ha premesso che, nelle società di capitali, gli utili non debbono necessariamente essere ripartiti tra i soci sotto forma di dividendi, ben potendo essere destinati a riserva;

nella specie la presunzione (applicata dall’ufficio) di distribuzione degli utili extracontabili tra i soci di una società a ristretta base partecipativa non poteva operare, essendo controverso e contestato che la società avesse conseguito utili non contabilizzati, con la precisazione che, dagli atti di causa, non risultava alcun elemento idoneo a confermare l’affermazione della sentenza di primo grado, secondo cui l’accertamento del reddito di impresa era già stato oggetto di altra pronuncia di primo grado, favorevole all’Amministrazione finanziaria;

la contribuente resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

preliminarmente non ha fondamento l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, sollevata dalla contribuente, che poggia sull’erronea indicazione, nell’epigrafe del ricorso, del numero della sentenza impugnata: si menziona la sentenza n. 2036/30/14 della CTR di Palermo, in luogo della sentenza n. 2039/30/14 della stessa commissione;

l’eccezione è superata alla luce del costante orientamento della Corte, per il quale l’erronea indicazione del numero della sentenza impugnata non è causa d’inammissibilità del ricorso per cassazione (Cass. sez. un. 10/12/2001, n. 15603);

nel caso in esame, infatti, la contribuente aveva tutti gli elementi sufficienti per individuare, senza possibilità di equivoci, la sentenza effettivamente impugnata (sentenza n. 2039/30/2014), che, per di più, figura depositata in originale dalla società intimata nell’elenco dei documenti allegati al controricorso, ex art. 369 c.p.c.;

la produzione della sentenza impugnata, ad opera della controricorrente, consente, altresì, d’escludere l’improcedibilità del ricorso, per omesso deposito da parte dell’Agenzia – la quale, per errore, insieme con il ricorso, ha depositato la sentenza n. 2041/30/2014 (anzichè la sentenza n. 2039/30/2014) – della copia autentica della sentenza impugnata, secondo la prescrizione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2;

sulla scia delle sezioni unite (Cass. sez. un. 2/05/2017, n. 10648), questa Corte ha così statuito: “Il ricorso di cassazione non è improcedibile ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, per omesso deposito da parte del ricorrente della sentenza impugnata, ove quest’ultima risulti comunque nella disponibilità del giudice in quanto prodotta dalla parte resistente, atteso che una differente soluzione, di carattere formalistico, determinerebbe un ingiustificato diniego di accesso al giudizio di impugnazione in contrasto con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.” (Cass. 14/02/2019, n. 4370);

a ciò si aggiunga, infine, che il testo della sentenza impugnata è identificabile, senza ombra di dubbio, per essere stato trascritto (nella sua parte argomentativa) nel ricorso per cassazione;

venendo adesso alle ragioni dell’impugnazione, con il primo motivo del ricorso, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, l’Agenzia censura la sentenza impugnata per avere erroneamente posto a carico dell’Amministrazione finanziaria una prova già desumibile dai riscontri contabili, ferma la considerazione che, nella specie, si è in presenza di una società a ristretta base partecipativi (composta da due soci, titolari, rispettivamente, del 5% e del 95% del capitale sociale) e, ancora, che, in tale evenienza, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, grava sui soci l’onere di dimostrare che gli utili extracontabilì non sono stati ripartiti tra di loro;

con il secondo motivo, denunciando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., l’Agenzia censura la sentenza impugnata per avere affermato contra legem che incomba sull’Amministrazione finanziaria l’onere di provare la distribuzione degli utili, con ciò invertendo il principio dell’onere della prova e vanificando la presunzione per la quale l’esistenza di tali utili e la ristretta base partecipativa dell’ente collettivo sono elementi di per sè sufficienti a provare la distribuzione degli utili ai soci;

il primo e il secondo motivo del ricorso, da esaminare congiuntamente per connessione, sono inammissibili;

in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base azionaria, ove siano accertati utili non contabilizzati, opera la presunzione di attribuzione “pro quota” ai soci degli utili stessi, salva la prova contraria che i maggiori ricavi sono stati accantonati o reinvestiti (Cass. n. 24534/2017; conf.: n. 29412/2017, n. 32959/2018);

la Corte (Cass. 11/04/2011, 8207; conf.: n. 2409/2003) ha precisato che: “la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extrabilancio della società, non viola il cd. “divieto di doppia presunzione” in quanto il reddito della società, “una volta giudizialmente definito diviene poi non una presunzione bensì un dato certo, su cui si innesca la diversa presunzione che non riguarda la società bensì altri soggetti, i soci”. Nello stesso senso, la giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che la presunzione di distribuzione degli utili ai soci di società a ristretta base sociale opera non solo quando sia accertata tale ristretta base sociale, ma anche quando sia validamente accertata, a carico della società, la sussistenza di ricavi non contabilizzati, che costituisce il presupposto per l’accertamento a carico dei soci in ordine ai relativi dividendi (Cass. n. 7174/2002; n. 4695/2002; n. 3254/2000; n. 2390/2000; n. 14006/2003; n. 9519/2009);

tale essendo la cornice giurisprudenziale di riferimento, tuttavia, nella fattispecie concreta, il motivo d’impugnazione non focalizza la ratio decidendi della sentenza impugnata che, diversamente da quanto prospetta l’Agenzia, senza per nulla incorrere nell’errore di sovvertire le regole sulla ripartizione dell’onere della prova, conformandosi ai suaccennati principi di diritto, si è limitata a affermare, con estrema chiarezza, che, in difetto dell’accertamento di utili extracontabili realizzati dalla società, a ristretta base partecipativa, non è consentito presumere la distribuzione ai soci dei medesimi (eventuali, ma indimostrati) ricavi occulti;

ne consegue l’inammissibilità del ricorso;

le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere Amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna l’Agenzia delle entrate a corrispondere alla contribuente le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.300,00, a titolo di compenso, oltre a Euro 200,00 per esborsi, al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 24 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2019

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