Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 32965 del 13/12/2019

Cassazione civile sez. I, 13/12/2019, (ud. 14/11/2019, dep. 13/12/2019), n.32965

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29656/2018 proposto da:

G.L., rappresentato e difeso dall’avvocato PAOLO ALESSANDRINI

e domiciliato presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO e COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL

RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE INTERNAZIONALE ANCONA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1712/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 10/08/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con provvedimento del 25.8.2016, notificato il 26.1.2017, la Commissione territoriale di Ancona per il riconoscimento della protezione internazionale respingeva la domanda del G.L. volta ad ottenere la concessione della tutela internazionale o umanitaria.

Con ordinanza del 15.9.2017, comunicata via p.e.c. in pari data, il Tribunale di Ancona rigettava il ricorso avverso il predetto provvedimento reiettivo.

Interponeva appello il G. e la Corte di Appello di Ancona, con la sentenza oggi impugnata, rigettava il gravame.

Propone ricorso per la cassazione della decisione di rigetto G.L. affidandosi a tre motivi.

Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo e il secondo motivo, che nel ricorso sono oggetto di trattazione congiunta, il ricorrente lamenta, rispettivamente:

1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della Direttiva comunitaria 2004/83/CE, abrogata e rifusa nella Direttiva 2011/95/EU, dell’art. 3 del D.Lgs. n. 251/07, della Direttiva comunitaria 2005/85/CE, abrogata e trasfusa nella Direttiva 2013/32/UE, del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27 e dell’art. 8 della Direttiva2004/83/CE;

2) la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19.

Ad avviso del ricorrente, la Corte di Appello avrebbe omesso di applicare, in favore del richiedente la protezione, il criterio dell’onere probatorio affievolito, in base al quale il giudice di merito avrebbe dovuto accordare almeno il beneficio del dubbio in presenza di profili di non credibilità di alcuni passaggi del racconto personale del richiedente stesso. Inoltre, la Corte anconetana avrebbe dovuto considerare che il cittadino gambiano che, dopo essere fuggito all’estero, viene rimpatriato rischia di essere imputato, condannato e detenuto in carcere per il reato, espressamente previsto nel codice penale gambiano, integrato dall’essersi reso irreperibile alle autorità. Ancora, il ricorrente si duole di non esser stato ascoltato dalla Corte territoriale, poichè solo la sua audizione diretta avrebbe consentito ai giudici di appello di rendersi conto della credibilità della sua storia.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta invece la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 della Direttiva 2011/95/UE, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, art. 10 della Direttiva 2013/32/UE, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8,27 e 32, D.Lgs. n. 286 del 1998, artt. 5 e 19 e dell’art. 3 C.E.D.U. perchè la Corte di Appello avrebbe ritenuto insussistenti anche i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.

Le tre censure, che per la loro connessione meritano un esame congiunto, non sono fondate.

Va innanzitutto premesso che la deduzione relativa all’esistenza, nella legislazione penale del Gambia (Paese di origine del richiedente la protezione) del reato di irreperibilità alle autorità non risulta esser stata proposta nei precedenti gradi di merito: dalla sentenza impugnata, infatti, non si fa cenno della questione, nè il ricorrente indica, nei vari motivi proposti nel presente giudizio di legittimità, il momento processuale in cui essa sarebbe stata dedotta. Ne consegue la novità, e l’inammissibilità, dello specifico profilo di doglianza, che risulta proposto soltanto in questo giudizio.

I restanti argomenti proposti dal ricorrente non attingono in modo puntuale la ratio della decisione di rigetto cui è pervenuto il giudice di appello. La sentenza impugnata infatti dà atto che il G. aveva dichiarato di aver intrattenuto una relazione omosessuale nel proprio Paese con un cittadino olandese, sottolineando peraltro la circostanza che mentre in sede di audizione innanzi la Commissione territoriale il richiedente non aveva detto di aver subito abusi, la sua versione era poi cambiata, sul punto, in sede giudiziale, poichè nel ricorso in prime cure il G. aveva invece dedotto di esser stato vittima di abusi da parte del suo compagno. Il giudice di merito ha ritenuto sostanzialmente poco credibile la storia relativa alla relazione omosessuale, che sarebbe stata intrattenuta con un uomo conosciuto per caso, con il quale il G. avrebbe deciso di andare a convivere senza alcuna precedente frequentazione personale.

Rispetto a tale motivazione il ricorso non appare specifico, poichè il ricorrente non deduce alcun elemento idoneo a revocare in dubbio la valutazione di sostanziale non credibilità del racconto che è stata condotta dalla Corte territoriale. Il G. infatti si limita ad affermare, peraltro in modo assai generico, che in Gambia vi è una generale situazione di compressione dei diritti umani fondamentali (cfr. pag. 10 del ricorso), peraltro omettendo anche di individualizzare la deduzione in riferimento alla sua storia personale.

Nè appare decisivo il riferimento all’omessa audizione personale da parte della Corte di Appello, posto che in seconde cure non è previsto dalla legge alcun obbligo, per il giudice, di procedere all’ascolto del richiedente la protezione. In proposito, va ribadito il principio per cui “Nel procedimento, in grado d’appello, relativo ad una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità nell’omessa audizione personale del richiedente, atteso che il rinvio, contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10 che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 3003 del 07/02/2018, Rv. 647297; conf. Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 24544 del 21/11/2011, Rv. 619702 e Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 14600 del 29/05/2019, Rv. 654301).

Per quel che infine concerne l’integrazione del G. nel tessuto sociale italiano, va ribadito che la valutazione comparativa che, ai fini della concessione della tutela umanitaria, dev’essere compiuta tra le condizioni di vita in Italia del richiedente la protezione e quelle che il medesimo incontrerebbe nel Paese di origine in caso di rimpatrio deve comunque avere attinenza con i diritti fondamentali della persona e non può tradursi nel puro e semplice confronto tra due differenti stili di vita. Questa Corte ha affermato, in proposito, che “Non è sufficiente l’allegazione di un’esistenza migliore nel paese di accoglienza, sotto il profilo del radicamento affettivo, sociale e/o lavorativo, indicandone genericamente la carenza nel paese d’origine, ma è necessaria una valutazione comparativa che consenta, in concreto, di verificare che ci si è allontanati da una condizione di vulnerabilità effettiva, sotto il profilo specifico della violazione o dell’impedimento all’esercizio dei diritti umani inalienabili. Solo all’interno di questa puntuale indagine comparativa può ed anzi deve essere valutata, come fattore di rilievo concorrente, l’effettività dell’inserimento sociale e lavorativo e/o la significatività dei legami personali e familiari in base alla loro durata nel tempo e stabilità. L’accertamento della situazione oggettiva del Paese d’origine e della condizione soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce delle peculiarità della sua vicenda personale costituiscono il punto di partenza ineludibile dell’accertamento da compiere. (cfr. Cass. n. 420/2012, n. 359/2013, n. 15756/2013)” (cfr. in motivazione – pagg. 9 e s.- Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298).

Diversamente argomentando, ovverosia laddove si desse rilievo non tanto alla storia personale del richiedente, ma alla condizione del Paese di origine in termini generali ed astratti si finirebbe per tradire il senso della legge, riducendo la valutazione sulla vulnerabilità personale del soggetto, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, ad una sorta di “doppione” dell’apprezzamento che il giudice di merito è chiamato a condurre sulla situazione interna del Paese di provenienza ai diversi fini della concessione della tutela sussidiaria. Occorre quindi ribadire che “La valutazione della condizione di vulnerabilità che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria deve essere ancorata ad una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza ed alla quale egli si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio, poichè, in caso contrarlo, si prenderebbe in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto con il parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 35, comma 13” (Cass. Sez. 6-1, Ordinanza n. 9304 del 03/04/2019, Rv. 653700).

Non avendo il G. dedotto alcun elemento idoneo a rappresentare una sua personale condizione di vulnerabilità, ovvero uno specifico profilo di radicamento nel territorio nazionale, anche il terzo motivo di ricorso va rigettato.

In definitiva, il ricorso va rigettato.

Nulla per le spese, in difetto di attività difensiva svolta dal Ministero dell’Interno intimato nel presente giudizio di legittimità.

Poichè il ricorrente è stato ammesso al beneficio del patrocinio a spese dello Stato, non sussistono presupposti processuali per dichiarare, ai sensi del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, l’obbligo di versamento da parte del ricorrente medesimo dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello richiesto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 13 dicembre 2019

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